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Stupri e guerra: il corpo delle donne come terreno di contesa. 1991-2009

http://www.womenews.net/spip3/spip.php?article3758

 

Quanto siamo coscienti delle trame di senso che legano quanto
accade intorno

a noi?

Stupri e guerra: il corpo delle donne come terreno di contesa.
1991-2009

Riceviamo da "Articolo 3 – Osservatorio sulle
discriminazioni", che opera a
Mantova dall’aprile 2008 e
che ringraziamo per la collaborazione, questa
nota – pubblicata
anche nella loro news letter – che alle immagini della
nostra
attualità associa "periodi ben più cupi" per la
(…)
Maria Bacchi


L’aria è resa fosca dalle parole che si intrecciano nel
corso delle
trasmissioni televisive, sulle pagine dei giornali:
guerra, stupri,
emergenza, espulsioni, ronde.

Nel malessere diffuso vien da fare associazioni, forse un po’
azzardate ma
istruttive, con periodi ben più cupi che hanno
insanguinato terre a noi
molto vicine come la ex Jugoslavia, dove
guerre moderne e già dimenticate
hanno devastato meno di
vent’anni fa una società evoluta attraversata da una
grave
crisi politica, economica e istituzionale

Il Piano Ram

1991: Slovenia e Croazia proclamano la propria secessione dalla
Repubblica
federale Jugoslava, la Bosnia sembra non dover essere
toccata dalla tragedia
(che esploderà invece in quella repubblica
un anno dopo). In agosto l’ultimo
presidente del Consiglio
federale, Ante Markovic, di fronte alle sanguinose
devastazioni
della Croazia, rende noto il cosiddetto Piano Ram: vi viene
descritta
nei dettagli l’organizzazione della futura guerra serba in
Bosnia
Erzegovina; si prevedono le fasi della pulizia etnica che
precederà la
spartizione del territorio; in base a un’articolata
analisi antropologica e
geopolitica si valuta l’opportunità
tattica della violenza sessuale ai danni
delle donne per
disgregare il tessuto multiculturale delle comunità
bosniache.

Fu proprio in questo modo che iniziò, inattesa e incomprensibile
ai
cittadini, la guerra in molti villaggi di quella regione, con
terribili,
apparentemente inspiegabili, episodi di violenza sul
corpo delle donne. Una
violenza che destava paura, smarrimento,
colpevolizzazione nelle donne
stesse (quando non ne morivano) e
nei ‘loro’ uomini che non erano stati in
grado di difenderle.
E poi rivalsa, e nuova violenza maschile, spesso contro
le donne
dell’Altro.

Il corpo femminile diventa così, letteralmente, territorio di
contesa. Ma
non è pura barbarie, è devastazione premeditata e
‘scientificamente’
fondata. Lo stupro, in Bosnia come in
Ruanda, in Somalia, in Algeria e in
ogni guerra moderna, non è
‘conseguenza’ della guerra ma arma che affianca
tutte le
operazioni di pulizia etnica.

Negli anni Novanta uomini armati violentavano il corpo delle
donne
dell’Altro per farne terreno di conquista, luogo di
disseminazione e
inseminazione etnica. Mentre i mass media
sbattevano vittimisticamente gli
stupri etnici in prima pagina
ogni giorno, i centri antiviolenza di città
come Belgrado e
Zagabria si riempivano di donne che chiedevano ad altre
donne
aiuto contro l’esplosione senza precedenti della violenza
domestica.

I movimenti antinazionalisti e pacifisti, quelli che lottavano
perché le
città e i paesi non si frantumassero in base alle
appartenenze etniche,
furono animati soprattutto dalle donne del
movimento femminista, dai giovani
che si rifiutavano di
imbracciare le armi, dai movimenti di gay e lesbiche,
dalle radio
libere, dai giornalisti e dai giuristi democratici.

Quando, a guerra finita, venne il momento della ricostruzione
partì da loro
– in Serbia, in Bosnia, in Croazia, in Slovenia,
in Kosovo – quel minimo di
società civile democratica che mise
in crisi i despoti nazionalisti e iniziò
a riparare le ferite
cercando di riportare verità e giustizia. Si poté
ricominciare a
vivere perché le vittime della violenza e della
discriminazione
più feroci si fecero presidio per il ripristino della
democrazia.

Un fosco 2009

L’aria è fosca e pesante nell’Italia del 2009. Un’aria
infetta che
respiriamo anche noi, nella tranquilla provincia
padana. Una brutta
sensazione, qualcosa che evoca paura e
arbitrio, arriva dalle notizie sulla
retata contro una settantina
di uomini e donne sudamericani, in prevalenza
di nazionalità
brasiliana, operata dalle forze di polizia della nostra città
nella
notte fra domenica e lunedì (La polizia sgomina la gang delle
patenti
false, "Gazzetta", 24 febbraio 2009; Tremila
euro per un set di documenti
falsi, "Gazzetta" 25
febbraio 2009, […]).

Il racconto del quotidiano è abbastanza rassicurante. Non
altrettanto le
telefonate che ci sono giunte da amici e amiche che
con alcune di queste
persone erano in contatto in quanto badanti,
addette alla pulizia delle
scale, colf: molte telefonate a
raccontarci irruzioni notturne; a dirci di
gente che non aveva mai
avuto un passaporto falso, anche se magari non era
ancora in
regola con i documenti, trascinata via, interrogata e
spedita
immediatamente in un centro di identificazione ed
espulsione in attesa
dell’espatrio.

Colpisce la relativa novità del metodo: la retata ‘etnica’,
massiccia,
operata in piena notte, l’espulsione immediata
soprattutto di chi, magari
perché in possesso di documenti veri,
era subito identificabile; e poi, per
ora, l’invisibilità dei
mercanti di identità fasulle (quanti italiani, tra
loro?).

E il senso di angoscia aumenta pensando ai ragazzini afghani
inghiottiti
dalle nebbie padane di cui abbiamo parlato nelle
nostre precedenti
newsletter. Sappiamo per certo che non sono più
nella nostra città; che non
sono state offerte loro le
opportunità e le garanzie che la legge prevedeva
per tutelarli,
che le versioni delle diverse forze preposte all’ordine
e
all’applicazione delle leggi contrastano tra loro. E questo ci
preoccupa,
anche perché si trattava di minorenni non accompagnati
e il nostro
territorio ha mostrato di essere impreparato a far
fronte a questo tipo di

problemi.

Guerra

Forse è vera la pesante affermazione del sindaco leghista di
Chiari,
senatore Alessandro Mazzatorta, durante una recente
puntata de L’Infedele:
contro i clandestini il governo sta
conducendo una vera e propria “guerra”.
Così come è in
guerra, con il favore di un popolo che torna ad essere
incline al
linciaggio, contro gli stupratori rumeni, tunisini,
marocchini,
albanesi. Molto meno contro i branchi di maschi
nazionali che danno fuoco
agli immigrati, violentano le amiche o
le donne straniere, e ancor meno
contro i mariti e i conviventi
che stuprano e picchiano le ‘loro’ donne.

E, come in ogni guerra, la stampa enfatizza le emozioni: piovono
notizie di
stupri, drammaticamente veri o caricaturalmente
presunti. A Suzzara una
giovane donna deve “cercare di
divincolarsi dai pesanti sguardi” di tre
marocchini un po’
alticci (Tentano di molestare una ragazza, "Gazzetta",
22
febbraio 2009). La notizia non esiste, ma il titolo è a
quattro colonne, ben
visibile nella sua inconsistenza.

E in prima pagina, a sei colonne, a caratteri cubitali: Tenta lo
stupro in
centro, preso ("Gazzetta", 24 febbraio 2009) e
Lo studente violentatore non
era solo ("Gazzetta", 25
febbraio, […]). E qui la molestia c’è stata,
eccome, da parte
di un ventenne (diciottenne nel secondo articolo) –
studente,
regolare, magrebino – che ha assalito una donna in pieno
giorno
urlando come un ossesso nel centro di Guidizzolo. Ma non
c’è stato stupro e
forse in quelle circostanze nemmeno voleva
esserci: lei è scappata, è corsa
dai carabinieri e lui è stato
arrestato mentre vagava per il paese con un
amico ancor più
giovane di lui.

Rabbia? Smarrimento? Disperata nostalgia di un luogo capace di
dare identità
e accoglienza? Bisogno di rivalsa su una società
sempre più ostile? Con una
prontezza sconcertante la Lega dà
vita proprio a Guidizzolo a due immediate
iniziative di risposta:
la creazione di una nuova sezione e il gazebo per la
raccolta di
firme a favore della castrazione chimica e contro
l’immigrazione
clandestina. Autoproclamandosi “simbolo della
guerra alla violenza”.

Stranieri inferociti si avventano sulle donne negli spazi pubblici
e
italiani ebbri, spesso giovani e in branco, ubriacano e
violentano, in
rituali dal gusto mortifero, le ‘proprie’
compagne, magari filmandole. Ma
certo con meno clamore. Sui
pilastri della statale che porta a Brescia,
all’altezza di
Montichiari, giganteggiano due scritte: “albanesi puttane”;
“rumene
puttane”: deliri di maschi rabbiosi. Maschi italiani,
probabilmente,
forse quelli che in quell’area della Padania si
offrirebbero per organizzare
ronde.

Tutto questo mentre la crisi economica incalza, togliendo
prospettive e
sicurezza, e l’opposizione democratica è debole,
divisa e confusa. Di fronte
a ogni collasso di un sistema
democratico, di fronte a qualunque logica di
guerra, il corpo
femminile viene investito di simboli che ne fanno luogo di
contesa
e di controllo. Sparisce la cittadina, con la sua soggettività
e
l’inviolabilità dei suoi diritti, e compare la preda: quanto
siamo coscienti
delle trame di senso che legano quanto accade
intorno a noi?

ARTICOLO 3 – osservatorio sulle discriminazioni

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