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IN LIBIA SI COMBATTE ANCORA LA PRIMA GUERRA MONDIALE?

da: http://www.comidad.org/dblog/articolo.asp?articolo=410
del 17/03/2011
Una notizia interessante di questi ultimi giorni è che la minaccia di intervento della NATO in Libia, dato per imminente dal suo segretario generale Rasmussen, potrebbe innescare una crisi interna alla stessa NATO, poiché uno dei principali Paesi membri della sedicente Alleanza, la Turchia, ha preso un’esplicita posizione contraria al progetto di “no fly zone”. Risulta significativo che la presa di posizione contraria del governo turco giunga dopo l’assenso della Lega Araba alla “no fly zone”, perciò il primo ministro turco Erdogan si è fatto carico di manifestare ciò che tutti – tranne, ovviamente, l’opinione pubblica – oggi sanno, ma non hanno il coraggio di dire, cioè che la NATO non è la cura, ma la malattia, e che, senza l’ispirazione della NATO (cioè degli USA), la rivolta libica non ci sarebbe neppure stata. La rivolta libica, dapprima presentata dai media come movimento popolare tout-court, poi come insurrezione etnica, si va rivelando quindi come un tentativo di golpe, in parte interno allo stesso regime, ed in parte promosso dall’esterno. Erdogan ora sta anche tentando una mediazione che risolva il conflitto libico, togliendo così spazio di manovra all’aggressione NATO.
In queste notizie vi sono alcune implicazioni storiche altrettanto interessanti, che indicano come il ‘900, dato tante volte per superato ed alle nostre spalle, in effetti non sia ancora finito. L’attuale Libia è composta infatti da due province dell’Impero Turco Ottomano, che nel 1911 furono occupate dalle truppe italiane per un’iniziativa coloniale del governo del liberale Giolitti. L’impresa libica del 1911 costituì una sorta di coronamento dei festeggiamenti per il cinquantenario della Unità d’Italia, quasi a sancire l’ingresso dell’Italia stessa nel novero delle grandi potenze.
C’è quindi una strana ironia della Storia nel fatto che la questione libica riemerga così violentemente proprio nel momento della ricorrenza del centocinquantenario dell’Unità d’Italia. Anche se non è chiaro cosa si stia festeggiando, se i centocinquanta anni dell’Unità, oppure le centocinquanta basi militari USA e NATO che occupano attualmente il territorio ex-italiano (dal 2002 si sono aggiunte persino le basi segrete della CIA). Le rievocazioni storiche di questi giorni omettono un dettaglio fondamentale, e cioè che, in quegli anni dell’unificazione, l’Italia costituì un terreno dello scontro imperialistico delle grandi potenze dell’epoca: non solo l’Impero Austro-Ungarico, ma anche la Francia, la Gran Bretagna e la Prussia. Persino il best-seller di Pino Aprile, che pure riporta all’attenzione documenti da tanto tempo volutamente dimenticati, non si sofferma su questo aspetto, contribuendo così a perpetuare la mistificazione dell’annessione/genocidio del Sud come vicenda tutta interna all’Italia. L’Italia come problema esclusivo degli Italiani: a dissipare una tale illusione basterebbe la constatazione che il presidente del comitato dei festeggiamenti per l’Unità, Giuliano Amato, ex ministro del tesoro ed ex Presidente del Consiglio, è attualmente alto dirigente della Deutsche Bank.
http://www.deutsche-bank.de/medien/en/content/press_releases_2010_4871.htm L’Italietta giolittiana del 1911 era invece convinta di aver condotto a compimento il processo di indipendenza nazionale, al punto da sentirsi matura per andare a sua volta ad opprimere altri popoli, senza valutare che ciò avrebbe determinato una reazione internazionale tale da far ripiombare l’Italia dalla condizione di predatore a quella di preda coloniale.
Di quel governo Giolitti del 1911 faceva parte anche Francesco Saverio Nitti, il quale dopo la fine della prima guerra mondiale, in un suo libro best-seller internazionale dell’epoca “L’Europa senza pace”, commentò l’impresa coloniale libica affermando che, nello scoppio del grande conflitto appena cessato, anche l’Italia aveva avuto le sue brave responsabilità, proprio perché aveva iniziato la corsa a spartirsi le spoglie del morente Impero Turco. Tra quelle spoglie vi erano tutti i principali bacini petroliferi, oltre alla Libia, anche gli attuali Iraq e Arabia Saudita. La guerra di Libia fu quindi il prologo del conflitto mondiale del 1914-1918, che costituì anche la prima grande guerra per il petrolio.
La leggenda storiografica vuole che l’Italia fosse ignara delle ricchezze petrolifere della Cirenaica e della Tripolitania quando andò a conquistarle. L’impresa libica fu connotata infatti da una propaganda che la spacciava come una espressione di “colonialismo proletario”: nel 1911 il poeta Giovanni Pascoli pronunciò una famosa allocuzione, che ancora si studia a scuola: “La Grande Proletaria si è mossa”. Pascoli presentava l’impresa libica come un’occasione per le masse diseredate dell’Italia per andare a costruirsi un avvenire in quelle terre da coltivare e redimere.
Ovviamente era tutta propaganda: allora il “colonialismo proletario”, adesso il “colonialismo umanitario”, ma sempre di colonialismo si tratta, cioè di saccheggio delle risorse di un Paese aggredito. Il Presidente del Consiglio era Giovanni Giolitti, un uomo politico lucido e calcolatore, che aveva dimostrato più volte di avere in spregio le imprese coloniali di mero prestigio, come quelle del suo predecessore Francesco Crispi. Giolitti era troppo furbo ed informato per non sapere che la vera posta in gioco fosse la materia prima del futuro, il petrolio appunto.
Il fatto che per decenni il petrolio libico non sia stato estratto fu dovuto a cause oggettive. La prima riguardò il carattere puramente ufficiale della conquista, poiché l’effettivo dominio italiano fu confinato per lungo tempo alle coste, mentre l’interno rimase fuori controllo per decenni, esposto alle efficaci incursioni della guerriglia delle tribù autoctone; incursioni favorite anche dalla lunghezza del confine con l’Egitto, che consentiva alla Gran Bretagna di far passare armi e rifornimenti per la guerriglia libica.
La conquista effettiva del territorio fu quindi realizzata da Mussolini solo nei primi anni ’30, con metodi che non ebbero nulla da invidiare a quelli messi in campo da Hitler nell’Europa Orientale, del resto a loro volta ricalcati su quelli dell’imperialismo britannico in Africa e Asia. A quel punto il regime fascista dovette affrontare la questione delle infrastrutture nelle profondità del territorio libico, ma nel 1935-1936 si apriva la spaventosa emorragia finanziaria conseguente alle guerre d’Etiopia e di Spagna, una sorta di suicidio del regime per eccesso di velleità colonialistiche. Il suicidio del regime fascista avrebbe anche aperto la strada alla colonizzazione dell’Italia da parte degli USA a partire dal 1943, un processo di colonizzazione che la consistenza numerica e militare della Resistenza al nazifascismo ha indirettamente rallentato, ma non impedito; tanto che dal 1949 l’Italia è sprofondata progressivamente nella servitù NATO. Si tratta di un colonialismo tanto più efficace in quanto non percepito, dato che la sudditanza agli USA è velata dalla falsa coscienza “occidentale”, che fa passare la sottomissione forzata come una libera scelta.
Nel 1911 un outsider del colonialismo come l’Italietta giolittiana si era dunque impadronita di una delle più ricche aree petrolifere del pianeta, perciò vi erano tutte le condizioni perché le grandi potenze storiche dell’epoca – Gran Bretagna, Francia, Germania – si allarmassero ed andassero ad un regolamento di conti per stabilire chi dovesse appropriarsi dell’Impero Turco. Proprio in quel periodo nasceva la prima grande multinazionale petrolifera, la British Petroleum, che operò inizialmente solo in Iran, ma che già pensava ai giacimenti delle province mesopotamiche dell’Impero Ottomano – poi diventate l’Iraq – ed ai giacimenti della penisola arabica, anch’essa sotto il dominio turco. I Balcani, porta di accesso al Medio Oriente e storica area d’influenza del solito Impero Turco, rappresentarono l’area in cui la deflagrazione della prima guerra mondiale ebbe inizio nel 1914; ed è significativo che anche i Balcani costituiscano attualmente un’area sotto l’occupazione militare USA e NATO.
A distanza di cento anni, la Turchia cerca dunque di recuperare un proprio ruolo di leadership nell’area che una volta era sotto il suo dominio, e perciò si trova ad entrare in competizione addirittura con la “alleanza” di cui fa parte. La Turchia non ha particolari interessi affaristici in Libia, quindi ha nella vicenda una maggiore credibilità da spendere. Il Paese che detiene invece i maggiori interessi affaristici in Libia è l’Italia, ma il suo governo (?) risulta totalmente irretito nella servitù NATO/USA; anche se è probabile che le mazzette elargite silenziosamente dall’ENI abbiano la loro parte nella ritrovata fedeltà delle forze armate libiche nei confronti del regime di Gheddafi. Già nel tentativo di golpe contro Hugo Chavez nel 2002, organizzato dalla Exxon e dalla CIA, le regalie dell’ENI ai quadri intermedi dell’esercito contribuirono a rinfoltire il sostegno a Chavez ed a far fallire le mire degli USA.
Se Gheddafi riuscisse a completare in settimana la riconquista della Cirenaica, anche il progetto di “no fly zone” tramonterebbe per forza di cose. In tal caso sarebbe anche un successo dell’ENI, che si configurerebbe in Italia come uno Stato nello Stato; una situazione che non potrebbe non comportare effetti politici anche a livello interno.

Posted in Antimilitarismo, Generale, Internazionale.

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