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Tunisia: una rivoluzione ancora da fare

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La strage compiuta il 18 marzo scorso da un commando armato nel museo del Bardo di Tunisi e attribuita a gruppi islamisti è subito divenuta forte argomento di propaganda per i governi.
In Tunisia infatti buona parte della stampa ufficiale e la maggior parte dei partiti chiedono leggi sempre più severe per arginare il terrorismo e fanno appello all’unità nazionale, giustificando di fatto una possibile svolta autoritaria del governo. Domenica 29 marzo si è tenuta a Tunisi una “manifestazione internazionale contro il terrorismo” che dai media italiani è stata presentata come una riedizione della marcia contro il terrorismo dell’11 gennaio a Parigi, dopo i fatti di Charlie Hebdo. Hanno partecipato anche a Tunisi, come a Parigi, i terroristi di professione, capi di stato, governanti e ministri da vari paesi del mondo. Anche stavolta hanno marciato compatti per rilanciare la retorica della lotta al terrorismo, per giustificare la prossima guerra, magari in Libia.
Negli stessi giorni, il 28 ed il 29 marzo si è tenuto a Tunisi l’Incontro Libertario Mediterraneo, che ha visto la partecipazione di compagne e compagni anarchici da vari paesi del Mediterraneo e non solo. L’incontro, oltre a rafforzare i legami di solidarietà internazionale, ha riaffermato in questo contesto l’opposizione ad ogni forma di oppressione e violenza prodotta dalla religione, dallo stato e dal capitale, l’opposizione alla guerra e ad ogni intervento colonialista.
Sui prossimi numeri saranno pubblicate maggiori notizie riguardo all’Incontro Libertario Mediterraneo di Tunisi. Pubblichiamo di seguito un interessante articolo sulla situazione in Tunisia uscito proprio pochi giorni prima della strage del Bardo.

Articolo apparso su “le Monde Libertaire”, il settimanale della Federazione Anarchica francofona, sul numero 1769 del 12-18 marzo 2015.

Tunisia: una rivoluzione ancora da fare

L’eccezione tunisina: hanno votato, e dopo?
Nel momento in cui le solite forze progressiste – al di là di una ristretta cerchia di irriducibili – sono quasi arrivate a credere che la dittatura in Tunisia sia ineluttabile e irreversibile; mentre alcuni militanti si sono suicidati, altri sono spariti, altri si sono rassegnati o hanno cambiato casacca… Ecco che una notizia di cronaca ( il 17 dicembre 2010, venditore ambulante, Mohamed Bouazizi si è immolato dandosi fuoco) crea l’evento: il risveglio di un popolo, in apparenza acquiescente da decenni alle rispettive dittature di Bourghiba e di Ben Ali, che si solleva come un uomo solo, animato da una sola parola divenuta magica: dégage! (traducibile in “vattene”, principale slogan dell’insurrezione tunisina che il 14 gennaio 2011 ha costretto alla fuga Ben Ali, allora Presidente della Repubblica di Tunisia)
Dopo si è fatto scorrere molto inchiostro: si è parlato della “rivoluzione dei gelsomini”, di “Primavera araba” e di “eccezione tunisina”, di un caso che per contaminazione successiva si pretende aver toccato l’intero bacino del Mediterraneo, ed essersi addirittura diffuso più in là. Per molti le elezioni legislative e presidenziali di ottobre e di dicembre 2014 hanno rappresentato il coronamento di questa “eccezione tunisina”. Qual è la realtà? Dopo il rovesciamento del dittatore Ben Ali il 14 gennaio 2011, la Tunisia costituisce, in effetti, un laboratorio che resta unico nel suo genere, paradossalmente sia per le potenze mondiali e per le forze dominanti localmente, sia per il popolo che aspira al benessere sociale e alla libertà. Per i primi, la situazione costituisce terreno fertile per una nuova ripartizione del Potere (le carogne politiche locali di sinistra e soprattutto di destra – che sono numerose e diverse – si slanciano dopo la sollevazione del 2011 in una guerra fratricida per la spartizione della torta, ipocritamente pacificate in uno slogan patriottico: si è tutti Tunisia (Koulouna Tounis) – che ha preceduto un non meno demagogico: si è tutti Charlie).

Giochi e sfide di potere
In effetti le potenze mondiali che hanno sempre tenuto sotto i loro stivali l’economia tunisina operano attivamente dopo l’incertezza creata dalla caduta dei loro alleati dittatori nel 2010, per assicurarsi il mantenimento di questo paese nella barbarie del neoliberalismo del FMI, della Banca europea e della Banca mondiale, associate agli interessi dei petrodollari del Qatar e dell’Arabia Saudita.
La nuova strategia ispirata dall’ideologia americana del Grande Medio Oriente consiste, questa volta, non nel sostegno alle dittature dei paesi in via di sviluppo – come si è stati finora abituati – ma nel prendere la via democratica delle urne.
Infatti, ciò che getta un dubbio sulla credibilità delle due elezioni del 2011 e del 2014 che hanno seguito l’Insurrezione, è che gli americani e gli europei hanno incontrato a più riprese, rispettivamente e molto ufficialmente – considerando che non erano ancora al potere – sia Rached al-Ganouchi, leader del movimento islamista di Ennahda che ha vinto le elezioni della costituente del 2011, sia Beji Caïd el-Sebsi, l’attuale presidente della repubblica e leader del movimento Nidaa Tounis che ha vinto le elezioni legislative del 2014. D’altra parte i due leader, nonostante si presentino come degli avversari storici, si sono incontrati a Parigi (vedi bene!) prima di queste elezioni per negoziare amabilmente la spartizione del Potere. Non desta stupore che essi governino attualmente insieme nel sesto governo di Habib Essid (un vecchio uomo di Ben Ali), con la benedizione delle potenze occidentali che si felicitano con loro affossando il paese nei debiti. Allo stesso tempo, i beni acquisiti impropriamente dal dittatore Ben Ali e dalla sua famiglia e i suoi conti bancari continuano a fruttare in Occidente e nei paesi del Golfo in totale impunità dopo quattro anni, sotto gli occhi di tutti, compresi quelli del governo provvisorio in carica dal 2011 al 2014 ed a maggior ragione di quelli di Nidaa Tounis al comando, del quale alcuni leaders hanno servito Ben Ali sino alla sua destituzione… Allo stesso modo la Troika (nome non ufficiale della coalizione tripartitica che ha guidato la Tunisia dopo le elezioni per l’Assemblea Costituente nel 2011, composta da Ennahda, Ettakatol e Congresso per la Repubblica), il presidente Moncef Marzouki e gli attuali presidente e governo non hanno cessato di vantare i meriti degli Emiri del Qatar (che stipendiavano Marzouki) come quelli dell’Arabia saudita che protegge e ospita il dittatore Ben Ali. Un imbroglio: quelli che sono al potere dal 2011, vendono ai tunisini una fraseologia di manipolazione che nasconde i loro accordi strategici con la vecchia dittatura nel quadro dell’alternanza del potere. Già questi fatti svelano che queste elezioni costituiscono una messinscena per la divisione del potere, finalizzata a far tacere il movimento popolare, la libertà d’espressione e i molteplici movimenti sociali che non si sono arrestati dopo l’Insurrezione.

Uno Stato di polizia in convalescenza!
Pur felicitandosi che l’Insurrezione non abbia lasciato il posto ad un precipitoso ritorno delle dittature come nel caso della Libia, dell’Egitto o dello Yemen, bisogna relativizzare il successo di questa “eccezione tunisina”, tanto più che coloro che detengono il potere effettivo sia nella versione islamista (Ennahda) sia liberale (Nidaa Tounis) hanno grandi aspettative dalla legalità del processo elettorale, utile per legittimare il ritorno di uno Stato di polizia dietro una maschera di vernice democratica e di Dawlet al Mouassasset (Stato di diritto e delle istituzioni), in un paese in cui l’esercito non può giocare facilmente il ruolo di ruota di scorta della dittatura civile.
Dopo quattro anni di tergiversazioni politiche, di maneggi e di inganni, di cinque governi provvisori successivi orchestrati tutti dal presidente provvisorio della Repubblica Moncef Marzouki e dagli islamisti alla testa della Troika (composta dal Congresso per la Repubblica, da Al-Takatoul e soprattutto da Ennhada) che attraverso la propria milizia, la Lega di protezione (leggi “tradimento”) della rivoluzione, ha creato un contesto di terrore e di violenza estranea alle abitudini tunisine del conflitto nel dialogo e del dialogo per regolare i conflitti.
In un momento in cui la polizia cosiddetta nazionale è destabilizzata e convalescente dopo la partenza del suo padrone e protettore (Ben Ali), le milizie di Ennahda hanno provato a sostituirle, tanto che si parla di una polizia parallela che avrebbe ordinato gli assassinii di due leader della sinistra tunisina.
Contrariamente all’Egitto e a tutto il Vicino Oriente, l’esercito tunisino, battezzato con il giusto titolo di “il muto”, è un esercito che recluta nelle classi popolari e contadine e che storicamente è messo a margine delle decisioni politiche. Secondo alcune testimonianze il colonnello Samir Tarhouni o, per altre, il generale Rachid Ammar, sotto Ben Ali rifiutò di sparare sulla folla degli insorti. Al contrario, la polizia ha giocato, dopo l’indipendenza nel 1956, il ruolo di cane da guardia dello Stato-partito al potere. Mal pagata, la polizia traeva le sue principali risorse dalla corruzione generalizzata che imperversava, agendo in modo arbitrario. Perciò i tentativi recenti di farne una “polizia repubblicana” hanno fallito. La polizia continua a far forza, con tutto il suo peso, per nascondere la verità sugli assassinii politici durante l’Insurrezione (300 martiri), oltre che sui militanti di sinistra Mohamed Brahmi e Chokri Belaïd nel 2013, e continua a sparare con o senza ordini su coloro che resistono. Gli spari con fucili a pallettoni (Al-Rach) nel 2013 a Siliana sotto il governo dell’islamista Ali Laraaeth su dei manifestanti pacifisti e gli ultimi avvenimenti dal 6 al 10 febbraio lungo alla frontiera tra Libia e Tunisia ed in particolare a Ben Guerdenne, dove c’è stato un morto e numerosi feriti, testimoniano le violenze che la polizia continua a commettere con l’attuale governo che si considera liberale. Malgrado le dichiarazioni di certi poliziotti, al momento rappresentati in molti sindacati, di “ essere un po’ più al servizio del popolo e un po’ meno al servizio dello Stato”, e di aver pagato, essi stessi, le spese della lotta contro il terrorismo salafita dei Difensori della Fede (di Ansar al-Sharia e del partito di Al-Tahrir legalizzati entrambi dagli islamisti cosiddetti moderati di Ennahda e dai suoi Sinistri degli Interni), il corpo di polizia è in cancrena. Resta infeudato e nostalgico dell’epoca repressiva di Bourghiba e di Ben Ali e si è messo al servizio degli islamisti al potere dal 2011 al 2014. Il suo attuale cavallo di battaglia è la promulgazione di una legge contro il terrorismo, legge che gli darebbe carta bianca per prendersi apertamente gioco dei diritti dell’uomo e torturare; fenomeno che non è mai cessato, secondo Radia Nasraoui, animatrice dell’Associazione tunisina contro la tortura e difensore dei diritti dell’uomo.

Un voto per tacere e rintanarsi
È in questo contesto che hanno avuto luogo le elezioni legislative del 26 ottobre 2014, per le quali si sono recati alle urne, secondo le cifre ufficiali, il 68% degli iscritti – iscrizione volontaria e non automatica.
Ma, contando il numero di votanti potenziali e non di iscritti volontari, in realtà solamente un terzo della popolazione che può votare si è recata alle urne.
Contrariamente al trionfalismo e all’impressione di successo storico di queste elezioni che si sono svolte sotto il cappello dell’ISIE – Instance Supérieure “Indipendante” (orchestrata dalla Troika e in cui gli osservatori indipendenti non sono i benvenuti) des Elections – e che hanno registrato numerose irregolarità soprattutto in Francia, bisognerebbe in primo luogo salutare la maturità degli astensionisti maggioritari, rappresentati soprattutto dai giovani, coscienti che è stata rubata loro la loro rivoluzione e che le carogne della politica provano a sotterrarla definitivamente.
I giovani e le classi diseredate hanno capito questa grande frode delle elezioni. Essi hanno rifiutato di parteciparvi nonostante i grandi mezzi messi in campo, le intimidazioni, il ricatto del terrorismo e la campagna d’intossicazione informativa alla quale hanno tutti partecipato, ivi compresi i ranghi dei militanti – tuttavia rispettati – dell’estrema sinistra e del Fronte popolare, che ha ottenuto 15 seggi nel 2014 al Parlamento “del popolo”. Senza gettarsi nella gerontofobia, segnaliamo semplicemente che coperti dalla sfida elettorale, dal gioco democratico e della valorizzazione dell’esperienza politica anteriore, i vecchi politici tornano a mettere le mani sul potere. È risibile vedere che la rivoluzione dei giovani ha partorito il più vecchio presidente della Repubblica, Beji Caïd el-Sebsi, che ha più di 88 anni e che era un sostenitore incondizionato del dittatore Bourghiba, suo ex ministro dell’Interno ed ex-presidente del Parlamento sotto Ben Ali.

E il popolo in tutto ciò?
Per una parte importante di tunisini che aspirano al pane, alla libertà e alla dignità – le tre parole d’ordine dell’insurrezione del 17 dicembre 2010 – questa “rivoluzione” aprirebbe la strada alla possibilità di trovare un lavoro che permetta di mangiare a sazietà, di migliorare le proprie condizioni di vita, di accedere alla libertà di espressione e di organizzazione, alla felicità, alla gioia di vivere, rompendo con una società di kobi (malinconia), sopraffatta dal “guigna” (il niente). Questa malinconia e questo vuoto spingono la maggior parte della popolazione alla droga, sia essa la droga vera e propria o la droga religiosa dei capi e venditori inturbantati e sempre più travestiti che vendono – per mezzo di una jihad suicida in un caso, o di una grande jihad di militanza nei partiti e associazioni di “beneficenza” in molti altri casi – un paradiso “chiavi in mano” con le sue vergini ed il suo vino (sì ma solo nell’aldilà!) che scorre a fiotti in ruscelli inesauribili.
Quello che è grave e desolante è che pure i partiti di sinistra laici – detti civici- per non far paura ai numerosi religiosi e per non cadere nella loro trappola – hanno abbandonato quel fronte della lotta ideologica che tende a separare la società civile dalla società religiosa. Essi hanno abbandonato la lotta contro l’oppio del popolo, soddisfatti di aver ottenuto delle concessioni dagli islamisti al momento della redazione dell’attuale Costituzione. Tale Costituzione definisce l’identità della Tunisia nel suo primo articolo per il suo carattere islamico e arabo. Nonostante il riconoscimento di alcune minoranze (ebrei in particolare dal momento che non ne restano che 2000), non è ammessa trattativa nei confronti di coloro che si richiamano alle radici berbere o all’ateismo. Così come è redatta nella Costituzione, la libertà di coscienza seppure menzionata non sembra comprendere queste ultime situazioni e coloro che fanno richiamo ad esse rischiano la vita, minacciati dai boia dello Stato e dagli islamisti.

Aspettando Godot
Questo soggetto, seppur essenziale nel progetto di società che si vuole costruire, non riguarda in realtà che una minoranza di difensori dei diritti dell’uomo. La maggior parte dei tunisini sono ottenebrati, a ragione, dal potere d’acquisto in discesa, dai beni di prima necessità in rialzo, dalle cure che non possono più pretendere, dalle abitazioni che mancano, dalle scuole insalubri in cui mancano insegnanti e mezzi per farle funzionare, dall’analfabetismo di ritorno allarmante, dai record dei tassi di disoccupazione soprattutto tra i diplomati, dal terrorismo in piena effervescenza sulla montagna di Chaambi e altrove, da un paese divenuto un vero immondezzaio a causa della crisi dell’incenerimento dei rifiuti e l’assenza di una politica comunale (le elezioni municipali sono rinviate alle calende greche), dal veleno dei prestiti condizionati dall’applicazione delle riforme strutturali del FMI e che sta conducendo il paese sulle orme della Grecia.
Questo forte peggioramento delle condizioni di vita ricorda ai tunisini che non sono mai caduti così in basso, pure sotto la dittatura. Ma chiama anche a risollevarsi per una nuova insurrezione che dovrà trasformarsi in rivoluzione per non ripetere una storia sfortunata. La libertà di espressione – unica palpabile conquista dell’Insurrezione – e la liberazione dei tunisini dalla paura dei tiranni e delle classi dominanti, associata alle condizioni sopracitate, favoriscono la radicalizzazione del movimento sociale e la trasformazione del tentativo in successo. La radicalizzazione significa l’adozione di una politica realista, non quella del Fronte popolare che predica un capitalismo di Stato nazionale ma quella che domanda l’impossibile: l’autogestione dell’economia e l’autorganizzazione del popolo come nella Comune di Parigi, permettendo a ciascuno di essere responsabile di se stesso secondo i principi del mutuo appoggio kropotkiniano e del mutualismo e del federalismo proudhoniani.
Per questo, mi sembra importante uscire dal quadro statale delle lotte e di porre l’immaginazione al potere, al cuore di un sistema per una educazione libertaria che venga messa in atto dalle forze progressiste del paese, rispettando le loro differenze. Gli autori di queste prospettive sono principalmente i disoccupati, i giovani e i pezzenti delle contrade dimenticate dell’interno e delle città povere, associati alle correnti radicali del sindacalismo operaio (UGTT) e studentesco (UGET), ai movimenti di difesa dei diritti dell’uomo (LTDH), alle associazioni degli avvocati, alle associazioni della società civile, ai giornalisti indipendenti e agli intellettuali funzionali. Sembra che in Tunisia si siano raggiunte condizioni che rendono urgente un coordinamento libertario e pacifista che accompagni e aiuti queste forze a impegnarsi per una trasformazione reale della vita.

WAHED

 

Articolo pubblicato su Umanità Nova

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