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Contro lo Stato di Guerra

paris

Questo articolo è stato pubblicato sul n. 39 di Umanità Nova

Contro lo Stato di Guerra

Arresti preventivi, perquisizioni, prescrizioni. Divieto per ogni manifestazione, botte, fermi e denunce per chi sfida il divieto. Lo “stato d’urgenza”, dichiarato in Francia dal consiglio dei ministri all’indomani degli attentati dello scorso 13 novembre, ed esteso a tre mesi con il voto parlamentare in cui ha espresso parere favorevole anche il PCF (Partito Comunista Francese), viene attuato con zelo dalle autorità. La sospensione della libertà in nome della sicurezza, che si concretizza anche nella violenta repressione di piazza contro ogni manifestazione, già messa in atto dalla polizia in numerose città francesi, raggiunge il grottesco a Parigi dove la Prefettura di polizia ha cercato di impedire ogni tipo di protesta contro la COP21: dal grave intervento di poliziotti armati di fucili automatici contro quattro studenti che la mattina del 3 dicembre cercavano di bloccare il proprio liceo a Parigi, al ridicolo schieramento di 7 camionette e oltre quaranta agenti in tenuta antisommossa per sciogliere con la forza un gruppo di 12 persone che il 1 dicembre stavano inscenando in Place de la Bastille una performance di danza.

La repressione del dissenso, in qualsiasi modo esso si manifesti, è un punto cardine delle leggi antiterrorismo, dello stato d’emergenza. Le legislazioni speciali che sospendono alcune libertà individuali per rafforzare e facilitare l’intervento delle autorità in situazioni di emergenza, che si tratti di una guerra, di un attacco terroristico o di un disastro naturale, sono sempre rivolte non solo a colpire la minaccia esterna, ma anche quella interna che può mettere in discussione la legittimità dell’autorità.

Per restare rivolti al contesto francese la storia del Carnet B è molto esplicativa in questo senso.

Nel dicembre 1886 il generale Georges Boulanger, allora Ministro della Guerra, dà istruzione alle prefetture per la sorveglianza degli stranieri. Vengono istituiti il Carnet A per schedare gli stranieri in grado di servire l’esercito presenti sul territorio francese, e il Carnet B per schedare tutti gli stranieri e i francesi sospettati di spionaggio. Nella più generale riforma dell’esercito attuata da Boulanger nella prospettiva revanscista di preparazione della guerra contro la Germania, questi schedari facevano parte del sistema di organizzazione della mobilitazione militare e indicavano le persone che dovevano essere sorvegliate e, in caso di guerra, arrestate dalla Gendarmeria che era incaricata dell’esecuzione degli ordini delle autorità militari. Con questi provvedimenti appare evidente il ruolo che viene ad assumere il controllo della popolazione nella politica di guerra.

Nel 1910 entra ufficialmente nel Carnet B una nuova categoria di soggetti pericolosi, quella degli antimilitaristi, che comprende tutti coloro che per ragioni politiche potevano sabotare la mobilitazione. Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale gran parte degli schedati lo sono in quanto antimilitaristi, sindacalisti, socialisti, anarchici, mentre solo meno di un terzo sono schedati per sospetta attività di spionaggio. Nell’agosto del 1914, per la mobilitazione che in pochi giorni avrebbe portato all’inizio della guerra, su ordine del Ministero dell’Interno, il Carnet B non venne utilizzato, in quanto l’allineamento dei vertici della CGT e della SFIO alle posizioni belliciste nel quadro dell’Union Sacrée, in particolare dopo l’assassinio di Jean Jaurès, lasciava pensare che non ci sarebbe stato alcun sabotaggio significativo della mobilitazione e che anzi, proprio i vertici socialisti e sindacalisti avrebbero potuto contribuire a portare gli operai su posizioni di sostegno alla guerra. Solo alcuni singoli antimilitaristi infatti vennero arrestati, per particolare zelo delle prefetture.

Il Carnet B non sembrerebbe essere una vera e propria legislazione speciale. Si tratta infatti di un sistema permanente e non eccezionale di sorveglianza e controllo, che realizza uno schedario, a tutti gli effetti una lista di proscrizione in cui sono elencate le persone di arrestare in caso di guerra, in un contesto in cui le autorità stesse avevano creato una condizione permanente di imminente stato di guerra. Un sistema di controllo che era funzionale alla politica aggressiva di quei settori della classe dirigente francese che spingevano per una nuova guerra contro la Germania. Solo al termine del secondo conflitto mondiale la situazione cambia: il Carnet B viene abolito nel 1947 e meno di dieci anni dopo, nel 1955 nel contesto della guerra d’Algeria, viene organizzato in una legge e proclamato per la prima volta lo “stato d’urgenza”. Non si tratta più di organizzare in nome della revanche la mobilitazione contro il nemico germanico, ma di fornire al potere esecutivo degli strumenti per intervenire efficacemente per sedare un’insurrezione, l’attenzione è quindi ancora più rivolta alla sorveglianza, al controllo e alla repressione. Si tratta di strumenti definiti da una legge in vigore da 60 anni, ben collaudati e già applicati, l’ultima volta nel 2005, durante la rivolta delle banlieues. Sia nel caso del Carnet B sia nel caso dello “stato d’urgenza” quindi si tratta non di misure eccezionali, ma di strumenti definiti e organizzati in modo permanente la cui attuabilità viene preparata in tempo di “pace” con indagini ed esercitazioni specifiche, strumenti che vengono impiegati in situazioni spesso create dalle stesse autorità.

Quando si sciolgono con la violenza le manifestazioni, quando si hanno centinaia e centinaia di casi di perquisizioni condotte arbitrariamente, di arresti preventivi, di provvedimenti di forte restrizione della libertà nei confronti di militanti, attivisti, avvocati, studenti, semplici sospetti, non siamo di fronte agli effetti collaterali di leggi antiterrorismo che dovrebbero colpire solo i barbari tagliagole dello Stati Islamico. Siamo di fronte alla normale attuazione dello “stato d’urgenza”, in questo contesto il presidente francese Hollande giunge ad affermare che è “scandaloso” che qualcuno abbia osato opporsi al divieto di manifestare.

Lo stato d’emergenza quindi, detto anche d’eccezione, non ha niente di eccezionale. Senza entrare in un dibattito teorico sulla legittimità delle legislazioni speciali, i recenti fatti ci mostrano come la normalità per i governanti sembra adesso essere costituita dalla mancanza di libertà mentre la manifestazione di una protesta o di un dissenso, addirittura divengono fatti “scandalosi”, sono le eccezioni da reprimere.

La guerra è già in corso e le bombe si fanno sentire pure a Parigi, è in atto anche la mobilitazione anche se si tratta di una mobilitazione per le urne e non per il fronte. In Francia rispetto alle scorse elezioni regionali l’affluenza è salita di qualche punto percentuale, mentre il Front National ha conseguito al primo turno del 6 dicembre risultati importanti ed è in testa in sei regioni su tredici. Questo dato, anche se andrà poi verificato con l’esito del secondo turno, associato a quello dell’aumento delle domande per entrare nell’esercito e a quello sull’elevato consenso attorno alla decisione di dichiarare lo stato d’emergenza dopo gli attacchi del 13 novembre, presenta un quadro piuttosto fosco. Se da una parte c’è molta propaganda e probabilmente non c’è tutta questa coesione attorno alle politiche antiterrorismo, dall’altra in un simile contesto bisogna avere la forza e la capacità di prendere una posizione chiara e di trovare gli strumenti adeguati per contrapporsi allo stato di guerra e alla deriva autoritaria.

Nessuno vuole che le bombe esplodano nella strada appena dietro la propria casa. Nessuno, che viva a Parigi, Roma, Beirut, Kabul o Istanbul. Per questo dobbiamo fermare la guerra, lottando proprio contro bombardamenti e leggi speciali che invece alimentano la guerra.

La guerra non consiste solo in missioni, bombardamenti, interventi all’estero. La guerra è anche quella combattuta dentro i confini di un paese. Qui la guerra è il contingente militare schierato in Val di Susa contro il movimento NO TAV, la guerra è nelle strade delle città pattugliate dai militari armati, la guerra è il divieto di manifestare, che a Roma già ha impedito negli ultimi mesi ad alcuni cortei sindacali di sfilare. La guerra è nelle politiche imposte dal governo per peggiorare le condizioni di vita dei lavoratori e della maggior parte della popolazione.

Dopo la Turchia, oggi anche la Francia ci mostra quale sia il ruolo dell’apparato militare quando i governi devono imporre con la forza delle scelte, quando si va verso una guerra, quale sia il loro ruolo nell’imprimere una stretta autoritaria all’intera società.

Per questo opporsi alla guerra così come al militarismo e alla militarizzazione si rende sempre più necessario. Demistificare la retorica securitaria e guerrafondaia e organizzare un movimento antimilitarista significa dare una risposta concreta all’attuale situazione.

Un esempio concreto ci è rappresentato dal movimento NO MUOS in Sicilia, il movimento popolare che da anni si oppone alla realizzazione della base per telecomunicazioni satellitari della US Navy a Niscemi. La lotta condotta con ampio coinvolgimento popolare da parte dei comitati di base NO MUOS, pur dovendosi scontrare con l’arroganza delle istituzioni, è riuscita a rallentare i lavori della base. Tanto che in data 20 novembre l’Avvocatura di Stato ha chiesto al Consiglio della Giustizia Amministrativa della Sicilia di accelerare i tempi circa il procedimento riguardante il MUOS, in quanto gli sviluppi conseguenti agli attentati di Parigi del 13 novembre renderebbero necessaria l’immediata risoluzione della controversia e l’attivazione del sistema MUOS. Sicuramente si tratta di un’argomentazione strumentale da parte dell’Avvocatura di Stato, ma certo è che ad oggi, mentre si intensificano i bombardamenti e la tensione tra le potenze che intervengono nella regione mediorientale è sempre più forte uno strumento come il MUOS non è a disposizione degli USA e dei suoi alleati per i loro interventi militari.

Questo caso, pur essendo solo un esempio, ci mostra come costruire forme di resistenza alla repressione e organizzare l’azione antimilitarista in contesti più ampi possibile, sia l’unico modo per porre un argine all’involuzione autoritaria e alla guerra.

Dario Antonelli

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