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OPUSCOLO: LA GUERRA DEL GOVERNO CONTRO GLI SFRUTTATI

LA GUERRA
DEL GOVERNO
CONTRO GLI SFRUTTATI

1. Chiarezza e organizzazione per battere il governo della guerra

2. La buona scuola: il jobs act nell’istruzione

3. Blocco contratti del pubblico impiego: derubare i lavoratori per ingrassare i capitalisti

4. L’esercito nelle strade protegge le politiche antipopolari del governo

Opuscolo a cura della Federazione Anarchica Livornese e del Collettivo Anarchico Libertario

Livorno, agosto 2015


Chiarezza e organizzazione per battere il governo della guerra

Quanti sono stati gli astenuti alle ultime elezioni regionali? In due regioni, la Toscana e le Marche, il numero degli astenuti supera quello dei votanti, e questo senza tener conto delle schede bianche e nulle; inoltre secondo i dati del Ministero degli Interni la media dei votanti, nelle regioni interessate al voto, è stata del 53,90%. Il numero degli astenuti è di 8 milioni e 748 mila. Non si tratta di otto milioni di rivoluzionari, si tratta di otto milioni di persone che hanno perso fiducia nel sistema democratico, che non si sentono rappresentati dal ceto politico.

Da tempo governi, organizzazioni sovranazionali e agenzie private cercano di gestire quella che chiamano “crisi di legittimità”. Una crisi di fiducia e di consenso nel sistema politico che attanaglia le grandi potenze imperialiste. Questa crisi è aggravata dalla crisi economica e dalle politiche di austerità con cui le classi privilegiate cercano di scaricare i costi sui ceti popolari e sugli sfruttati. Prima dell’introduzione dell’euro, la Commissione Europea e i governi ad essa collegati studiarono attentamente le conseguenze economiche delle politiche restrittive sui bilanci, e delle conseguenze disastrose, di cui erano perfettamente consapevoli, sull’occupazione e sui redditi dei ceti più bassi. Erano anche consapevoli delle potenziali conseguenze in termini di ordine pubblico di quelle politiche. La crisi di fiducia costituisce un rischio sistemico, ed emerge quando appare evidente che le protezioni politiche e legali date dal governo agli attori economici, e in particolare ai membri dell’elite economica, vengono usate per arricchirsi, anzi che questa è la funzione della struttura politico-legale, e l’elite politica non intraprende nessuna azione per proteggere le vere vittime della crisi.

Secondo le agenzie private di analisi politica che lavorano per i governi, le moderne nazioni possono essere rappresentate come composte di tre sistemi fondamentali, quello politico, quello economico e quello militare. Ciascuno di questi sistemi è gestito da elites; i tre sistemi intergiscono fra di loro, così che quando uno è in difficoltà, attraversa una crisi, gli altri compensano le difficoltà del primo. Quando la crisi economica mette in difficoltà l’elite finanziaria, e l’azione del governo volta a sostenerla genera un rischio sistemico, spetta all’apparato militare e alla sua elite farsi carico della salvezza del sistema.
Questo genere di analisi, rivolta all’attenzione di governi e organizzazioni sovranazionali, teorizza e giustifica l’uscita dell’azione governativa dall’ambito della legittimità democratica e il ricorso a mezzi autoritari per l’imposizione di politiche fortemente antipopolari.
E’ ciò che sta esplodendo in Grecia, ma sono fenomeni che in questi anni tutti i paesi dell’Europa stanno vedendo; è l’Europa il centro del rischio sistemico, a livello di stati nazionali, a livello di Eurozona, e a livello di Unione Europea.

La cosiddetta “crisi di legittimità” quindi, prima di portare ad uno sbocco rivoluzionario, porta alla crescente militarizzazione della società. Assumono allora un significato diverso sia l’amplificazione della minaccia terrorista, sia il crescente schieramento delle forze armate nelle nostre città. I governi esasperano il conflitto sociale e inaspriscono la repressione, in modo da mettere in condizione di non nuocere gli elementi più combattivi, prima che si sviluppi una maggiore presa di coscienza rivoluzionaria, una maggiore organizzazione tra gli sfruttati, la pratica di obiettivi di trasformazione sociale.

Il crescere del malcontento sociale, il crescere dell’astensionismo, prima di portare ad un augurabile sbocco rivoluzionario, porta alla crescita della tensione sociale, dell’aggressività delle classi privilegiate e del Governo. Così si spiegano i continui atteggiamenti provocatori delle istituzioni, l’atteggiamento irridente verso le rivendicazioni popolari, l’esibizione dell’autorità fino alla prepotenza più brutale, l’aperta rapina a danno dei lavoratori e dei pensionati, a vantaggio degli speculatori e dei banchieri, il dispregio per le stesse sentenze della magistratura, quando eccezionalmente si rivolgono contro i potenti.

Un governo che si comporta in questo modo punta a provocare la risposta popolare, sicuro della fedeltà dei propri sgherri, prima che il popolo si organizzi e si dia obiettivi concreti; è un governo che vede nell’uso della violenza l’unica ancora di salvezza, un uso della violenza che non ha intenzione di arretrare nemmeno di fronte alla guerra civile.

Gli anarchici sono contro la guerra, sono contro la violenza, ma di fronte alle provocazioni delle istituzioni saranno al loro posto.
Gli attivisti, le minoranze coscienti, gli organismi di base e i movimenti di massa possono vincere la lotta contro l’autoritarismo del governo, contro il peggioramento delle condizioni dei ceti popolari se, anziché rivolgersi al ceto politico e alle sue componenti critiche, si rivolgono alla maggioranza che non ha più fiducia, per orientarla ed organizzarla. Si tratta di un lavoro di organizzazione e di crescita che deve essere condotto nelle lotte particolari che portiamo avanti, ma che non si esaurisce in queste lotte.

La buona scuola: il jobs act nell’istruzione

Una ristrutturazione selvaggia chiamata “riforma”
Dopo che la riforma Gelmini aveva ridotto drasticamente, appena cinque anni fa, posti di lavoro e ore di insegnamento per gli studenti, dopo che le leggi di stabilità hanno imposto ulteriori tagli al settore dell’istruzione, la riforma Renzi- Giannini stucchevolmente denominata “la buona scuola” modifica radicalmente l’assetto della scuola pubblica, che assume un impianto rigidamente aziendalistico, senza eguali nel pubblico impiego:

– immissione in ruolo per un numero di precari assai inferiore alle necessità, con posizione diversificata: alcuni saranno assunti su posto reali, altri con funzioni di tappabuchi su un ambito territoriale non definito.
– perdita della titolarità di sede per il personale di ruolo (in caso di esubero il docente non viene più trasferito secondo una graduatoria, ma deve andare a proporre il proprio curricolo affidandosi alla discrezionalità di un preside che sia disposto ad assumerlo
– chiamata diretta del preside , che può assumere discrezionalmente senza seguire criteri omogenei
– valutazione del personale, anche per l’attribuzione di eventuali premi salariali, affidata anche a soggetti esterni al rapporto di lavoro
– intervento del privato (sponsor) con finanziamenti e donazioni
– introduzione massiccia dell’apprendistato (fino a 400 ore annue, pari a circa 12 settimane di scuola in cui lo studente cessa di essere tale per divenire un apprendista affittato al mercato della precarietà).

Oltre agli effetti diretti di queste misure, la riforma punta anche un potenziamento della gerarchia già presente nella scuola, con rigido controllo delle metodologie didattiche, degli stili di apprendimento, degli orientamenti culturali, con la diffusione generalizzata della impostazione competitivo meritocratica e della logica produttivistica sia tra gli studenti che tra i docenti.

Le linee ispiratrici di questa politica sono rintracciabili con chiarezze nelle indicazioni sistematicamente fornite ai governi da associazioni – una per tutte la famigerata TREELLE- che comprendono nomi di spicco del settore confindustriale, bancario, delle organizzazioni cattoliche, evidenziando un’illuminante convergenza tra destra imprenditoriale e grandi nomi del PD.

Ma ovviamente queste direttrici si intrecciano con quelle più generali, riconducibili agli orientamenti europei che hanno determinato, nel tempo, la ridefinizione del settore scuola sopratutto nella ricerca di uno standard. Lo standard è un elemento fondamentale nella logica produttivistica, basata sulla definizione delle caratteristiche di un prodotto e nella misurazione delle fasi della lavorazione finalizzata a produrre “quel” prodotto. Per misurare occorre segmentare, suddividere in fasi, analizzare il processo produttivo per verificare la qualità del prodotto finale.
Da qui i vari test nazionali ( Invalsi), internazionali per le scuole superiori (OCSE PISA, commissionato, tra lgli altri, da settori economici privati WTO), internazionali per l’università (processo di Bologna) tutti rivolti a valutare qualità e produttività secondo uno standard.

Ma che cosa significa produttività a scuola? Significa favorire il processo di crescita di ciascuno, secondo le proprie caratteristiche e i tempi individuali di maturazione o significa escludere, selezionare, scartare ? E’ più produttivo e quindi meritevole anche di un maggior stipendio l’insegnante che boccia o quello che promuove? Che cosa misuriamo? la quantità di promossi oppure di bocciati? Che cosa significa tendere ad uno standard in un contesto che dovrebbe valorizzare l’individualizzazione dell’insegnamento e lo sviluppo delle potenzialità di ciascuno? E riferirsi ad uno standard, non significa forse escludere totalmente chi è per ovvi motivi fuori standard, come il disabile, lo straniero, l’alunno in svantaggio sociale e culturale ?

Per la sua tipicità, il settore dell’insegnamento non è sensatamente riconducibile ad un sistema di misurazione di produttività. Ed allora, volendo a tutti i costi seguire questa strada, nell’impossibilità di misurare l’essenza della relazione educativa, si agisce sul livello sovrastrutturale surrettiziamente introdotto con la radicalizzazione della gerarchia, la precarizzazione dei posti di lavoro, la figura del preside sceriffo che i criteri se li inventa, per esibire una logica del controllo spacciata per valutazione del merito e della produttività.

Un anno di lotte
L’opposizione alla riforma Renzi-Giannini è stata fin dall’inizio molto vasta ed ha coinvolto, oltre a moltissimi lavoratori, l’intero arco delle sigle sindacali, tanto che il Governo, per arrivare velocemente all’approvazione, ha dovuto rompere ogni contatto con le parti sociali e procedere con tutto l’autoritarismo possibile, niente concedendo nemmeno a banali norme di galateo democratico.

Se l’unità è sempre apprezzabile, va comunque sottolineato che i sindacati di stato hanno promosso nel tempo una serie di interventi che hanno costiuito i presupposti della riforma Renzi, ultimo atto, per ora, di un processo preparato da anni. La logica del merito e della valutazione “oggettiva” è patrimonio innegabile dei sindacati concertativi, così come il potenziamento dell’autorità dei presidi, nato nell’ambito del Regolamento dell’autonomia partorito oltre quindici anni fa da Luigi Berlinguer, ministro caro alla CGIL e portato avanti da un altro ministro amico della sinistra come Tullio De Mauro, nome presente, tra l’altro, nella fondazione TREELLE.

D’altra parte la malafede degli oppositori dell’ultima ora è stata ben visibile recentemente: dopo lo sciopero dello scorso 5 maaggio contro la Buona scuola, nessuna iniziativa è stata intrapresa per sostenere lo sciopero contro l’Invalsi, promosso dai sindacati di base ma di fatto boicottato dai sindacati “maggiormente rappresentativi”. Eppure l’Invalsi è un elemento cardine di quel sistema valutativo contro il quale ci si mobilita…

A fronte delle ambiguità di alcuni vertici sindacali, va però sottolineata la grande mobilitazione che i lavoratori e le lavoratrici della scuola, spesso sostenuti da settori studenteschi, hanno espresso nell’ultimo anno: scioperi, mobilitazioni, appelli, documenti votati da assemblee e organi collegiali, manifestazioni di piazza di vario tipo, occupazioni, blocchi degli scrutini che hanno interferito anche con gli esami di stato. Questo ampio e determinato fronte di lotta deve mantenere la coesione e la solidarietà che lo ha caratterizzato contrastando in modo deciso l’attuazione della riforma, con una mobilitazione decisa, costante e quotidiana, senza lasciarsi fuorviare da miraggi legalitari.

Il bluff della legalità
Il modo in cui si è arrivati all’approvazione della riforma dimostra chiaramente come la legalità democratica sia un bluff.
Il governo, sottraendosi a qualsiasi confronto e/o ricerca di consenso ha proceduto chiedendo la fiducia sul disegno di legge. Il Senato, pur avendo rilevato in commissione l’incostituzionalità di alcuni aspetti della riforma, ha comunque approvato. Il testo approvato in Senato, ulteriormente emendato dalla Camera , non è stato sottoposto all’ultima ratifica del Senato. E il presidente Mattarella, incurante di tutto ciò, ha ovviamente firmato. Di fronte a queste aperte violazioni di regole che l’apparato stesso si è dato, appare del tutto fuori luogo confidare, come molti stanno facendo, in un referendum abrogativo che spazzi via la riforma. Il referendum, qualora fosse fatto, avrebbe probabilmente un risultato contrario alle aspettative dei promotori, visto che a pronunciarsi non sarebbe esclusivamente la categoria. Ed anche in caso di risultato diverso, è sotto gli occhi di tutti come gli esiti referendari siano stravolti e disattesi dalle logiche politiche.

Quindi un eventuale referendum avrebbe il solo risultato di allentare il fronte delle lotte, spostando tutto sul piano del voto e determinando una battuta d’arresto nella mobilitazione. E’ indispensabile radicalizzare l’opposizione alla riforma, contrastarne l’attuazione sui luoghi di lavoro attraverso forme concrete di boicottaggio, senza trascurare le pratiche di solidarietà, tanto più necessarie in un momento di inasprimento autoritario. Altrettanto indispensabile sarà costruire legami più solidi con gli studenti e collegarsi alle lotte dei settori più combattivi delle varie categorie, per opporsi a questa che non è una riforma, ma l’estensione del Job Act nella scuola.


Blocco contratti del pubblico impiego: derubare i lavoratori per ingrassare i capitalisti

Nella lettera che la BCE scrisse, con firma congiunta Trichet e Draghi, al governo italiano nell’agosto 2011 indicando le misure che dovevano essere prese per risanare il bilancio statale si leggeva fra l’altro:
E’ possibile intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l’età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo dei risparmi già nel 2012. Inoltre, il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover e, se necessario, riducendo gli stipendi.

Il governo Berlusconi aveva in realtà già provveduto a bloccare i contratti degli impiegati pubblici fin dall’anno prima, riducendo di fatto gli stipendi agli statali. Stipendi che di fatto erano già fermi visto che ormai da almeno 10 anni il rinnovo contrattuale nel pubblico impiego si limitava a reintegrare solo l’inflazione programmata dal governo (e quindi neppure quella reale, sempre superiore) e quindi non comportava di fatto aumenti reali. Il blocco deciso da Berlusconi verrà poi confermata sia dal governo Monti, il “sobrio” tecnico inviatoci dai poteri forti della finanza europea, che da quello Letta, un altro politico molto ben visto in tali ambienti, che da quello Renzi, lo scendiletto di Francoforte e Bruxelles.
Seguendo le indicazioni della BCE (si scrive indicazioni si legge diktat), il governo Monti operò un blocco degli aumenti delle pensioni superiori ai 1500 euro lordi, in pratica operando lo stesso meccanismo già sperimentato sui contratti pubblici.

Dopo le sentenze della Corte Costituzionale che ha sancito l’incostituzionalità sia del blocco delle pensioni che di quello dei contratti statali, sappiamo che buona parte del “risanamento” operato dai vari governi succedutesi negli ultimi anni è stato fatto sulla pelle di queste due categorie: 50 miliardi di euro che il governo ha risparmiato e che vanno aggiunti ai tagli sulla sanità, sulla scuola, sui servizi sociali. Segni indelebili sulla società italiana a cui vanno sommati la disoccupazione giovanile di massa, la precarizzazione dei rapporti di lavoro, i licenziamenti, ecc. al fine di realizzare quella contrazione della domanda interna (per diminuire le importazioni e favorire le esportazioni, panacea di tutti i mali, secondo le sanguisughe della finanza mondiale).
E’ evidente come i governi violino ormai abitualmente le leggi dello Stato: la Corte costituzionale ha evidenziato la illegittimità dei provvedimenti sul contratto degli statali e sul blocco delle pensioni, ma è recente la decisione di far riaprire con un decreto legge governativo gli stabilimenti di Monfalcone e Taranto, bloccati da provvedimenti della magistratura dopo gravi inadempienze delle Società Fincantieri e Ilva. Il tutto con la scusa di salvaguardare i posti di lavoro!

Per tornare ai dipendenti pubblici è stato calcolato che il blocco dei contratti sia costato, in media, circa il 10% dei loro salari per un totale di circa 35 miliardi di euro in cinque anni, mentre negli ultimi anni si sono persi 221mila posti di lavoro nel pubblico impiego. Soldi che lo stato ha risparmiato e che sono serviti a ripagare il debito verso gli speculatori internazionali, a finanziare le spese e le avventure militari all’estero, a salvare le banche. E’ notizia di questi giorni che lo Stato italiano è divenuto il secondo socio per importanza del Monte dei Paschi di Siena grazie ad un prestito, mai restituito, di circa 5 miliardi di euro.
Insomma: un enorme travaso di soldi dalle tasche dei lavoratori, dei pensionati, dei precari a quelle dei capitalisti.

L’esercito nelle strade protegge le politiche antipopolari del governo

Dal marzo scorso anche a Livorno sono stati schierati i soldati nelle strade della città.
A inizio anno infatti è stata ulteriormente prorogata l’Operazione Strade Sicure, inaugurata nel 2008 dall’allora Ministro della Difesa Ignazio La Russa e definita dalla legge 25 del 24 luglio 2008, il cosiddetto “Pacchetto Sicurezza” che prevedeva, insieme ad altre misure repressive, l’utilizzo delle Forze armate per attività di pubblica sicurezza nelle città. In questi anni sono state impiegate soprattutto unità dell’Esercito, ma anche dell’Aeronautica, della Marina e dell’Arma dei Carabinieri. Con la proroga di inizio 2015 si è avuto un rafforzamento dell’operazione con un incremento da 3000 a 4500 nel numero dei militari schierati e con il coinvolgimento di altre città nell’operazione. È così che in alcune città toscane e pure a Livorno sono arrivati i militari nelle strade.

Ad inizio anno il Ministero degli Interni ha chiesto a tutte le prefetture se sui rispettivi territori vi fosse bisogno dell’impiego di un contingente militare per controlli antiterrorismo e per la vigilanza dei cosiddetti siti sensibili. La decisione in questi casi spetta quindi al Ministero e alle prefetture, che possono decidere anche in che modo schierare il contingente, se attraverso presidi fissi o perlustrazioni lungo le strade cittadine.
La Prefettura di Livorno, come in Toscana quella di Lucca, Firenze e Prato, ha deciso di schierare i soldati nelle strade in funzione antiterrorismo, ed il compito è stato assegnato alla Brigata Paracadutisti Folgore. Per questo dalla seconda metà di marzo si vedono per le strade della città paracadutisti in assetto da guerra, a piedi o su mezzi dell’esercito, che imbracciano mitragliatori. Trattandosi di un’operazione antiterrorismo l’ingaggio è militare, dicono dalle prefetture per giustificare le armi da guerra in dotazione alle truppe che girano per le città. Ma la “minaccia islamica” è una menzogna, un pretesto utilizzato anche dalla stampa locale.

In realtà siamo di fronte a politiche di sicurezza fortemente autoritarie condotte in modo trasversale dai governi che si sono susseguiti negli ultimi sette anni. Non si tratta né di una misura d’urgenza adottata dopo gli attentati di Parigi e di Tunisi di inizio 2015, né di “eccezionali esigenze di prevenzione della criminalità” come recitava la legge del 2008 che isitituiva il concorso delle Forze armate nel controllo del territorio. Non stiamo quindi parlando di casi eccezionali, della gestione militare di un’emergenza, che sarebbe comunque una grave forma di militarizzazione, ma di una linea generale in materia di sicurezza, centrata sull’impiego dei militari a scopo di sicurezza interna, adottata dai differenti governi che si sono succeduti.

Con i militari nelle strade si esaspera la percezione della “minaccia” del terrorismo e della criminalità, si tenta di giustificare e normalizzare l’impiego delle Forze armate nel controllo del territorio, ma anche nella repressione di proteste popolari.

Ad aprire la strada all’Operazione Strade Sicure è stata la gestione militare dell’emergenza rifiuti in Campania del 2008. Il governo allora decise, dopo una grande campagna mediatica, di gestire l’emergenza manu militari, per fronteggiare la determinata opposizione della popolazione. Venne proclamato lo stato di emergenza, venne nominato Sottosegretario per l’emergenza rifiuti Guido Bertolaso allora Capo del Dipartimento della Protezione Civile, infine le discariche vennero dichiarate siti di interesse strategico, da tutelare quindi anche attraverso l’impiego delle Forze armate. Questi provvedimenti, previsti in un decreto del maggio 2008, divennero legge nel luglio dello stesso anno, una decina di giorni prima dell’approvazione del pacchetto sicurezza che dette il via all’Operazione Strade Sicure.

Ma l’esempio più eclatante dell’utilizzo delle Forze armate a scopo di repressione interna si ha in Val di Susa. Dal primo gennaio 2012 è stata dichiarata area di interesse strategico nazionale La Maddalena di Chiomonte, dove sorge il cantiere per il tunnel geognostico della linea Torino-Lione della TAV, a cui si oppone il vasto movimento NO TAV, radicato a livello locale nella popolazione e diffuso a livello nazionale. Già da anni la Val di Susa era di fatto militarizzata da polizia e carabinieri, impiegati dal governo per fronteggiare la determinazione del movimento di opposizione alla linea TAV. Lo schieramento delle Forze armate ha aumentato enormemente la militarizzazione, trasformando la Valle in terra d’occupazione, in fronte di guerra. A Chiomonte c’è un soldato ogni due abitanti, sono stati schierati contro i manifestanti gli alpini reduci dell’Afghanistan, ci sono posti di blocco, pattugliamenti, elicotteri, uomini e mezzi schierati nelle strade e nei boschi.

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La gestione militare dell’emergenza rifiuti in Campania e la militarizzazione della Val di Susa ben rappresentano la linea politica volta all’impiego delle Forze armate a scopo di repressione interna portata avanti dai governi che si sono succeduti negli ultimi anni. L’Operazione Strade Sicure, con il coinvolgimento dei soldati nel controllo delle città serve quindi a normalizzare l’uso repressivo delle Forze armate. Una militarizzazione della sicurezza interna e una sovrapposizione dei ruoli degli apparati dello Stato, che avviene in parallelo ai cambiamenti che da circa un decennio sono in atto nelle Forze armate e nei Corpi dello Stato, orientati principalmente ad una riorganizzazione in senso di coesione, specializzazione e operatività. Questo avviene nelle Forze armate, ad esempio con la creazione di unità di intervento rapido, e avviene nella Polizia e negli altri Corpi come una forma di rimilitarizzazione.

Il vero problema non sta nel tipo di divisa che indossa chi esercita nelle strade la repressione dello Stato, ma nel fatto che ci troviamo di fronte ad una guerra del governo contro i lavoratori e le lavoratrici, contro gran parte della popolazione. È una guerra che c’è sempre stata, ma che recentemente si è fatta più aspra e diretta. Per questo si schierano anche i soldati nelle strade e le truppe occupano quei territori in cui la protesta popolare si fa più determinata.

Negli ultimi anni i governi che si sono succeduti hanno infatti condotto una vera e propria guerra sociale contro la classe lavoratrice. Nel 2012, quando ancora era alla guida del governo, Monti disse che per l’Italia si prospettava un “percorso di guerra”, riferendosi alle cosiddette politiche di austerità. L’imposizione senza appello di politiche di attacco alla classe lavoratrice, di difesa degli interssi padronali e dei grandi privilegi infatti non può essere gestita che in modo militare.
Quindi opporsi alla repressione ed in particolare alla militarizzazione e all’impiego delle Forze armate nella sicurezza interna è una parte indispensabile della lotta contro le politiche del governo.

È necessario rilanciare e diffondere l’antimilitarismo, smascherando la sempre più stretta continuità tra la guerra condotta dentro i confini nazionalie quella condotta al di fuori di essi. In entrambi i casi si bombarda, si pratica la repressione, l’occupazione militare e il saccheggio per assicurare gli interessi dei potenti e del grande capitale.

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