Skip to content


La buona scuola: il jobs act nell’istruzione

Dall’opuscolo: LA GUERRA DEL GOVERNO CONTRO GLI SFRUTTATI

2. La buona scuola: il jobs act nell’istruzione

Una ristrutturazione selvaggia chiamata “riforma”
Dopo che la riforma Gelmini aveva ridotto drasticamente, appena cinque anni fa, posti di lavoro e ore di insegnamento per gli studenti, dopo che le leggi di stabilità hanno imposto ulteriori tagli al settore dell’istruzione, la riforma Renzi- Giannini stucchevolmente denominata “la buona scuola” modifica radicalmente l’assetto della scuola pubblica, che assume un impianto rigidamente aziendalistico, senza eguali nel pubblico impiego:

– immissione in ruolo per un numero di precari assai inferiore alle necessità, con posizione diversificata: alcuni saranno assunti su posto reali, altri con funzioni di tappabuchi su un ambito territoriale non definito.
– perdita della titolarità di sede per il personale di ruolo (in caso di esubero il docente non viene più trasferito secondo una graduatoria, ma deve andare a proporre il proprio curricolo affidandosi alla discrezionalità di un preside che sia disposto ad assumerlo
– chiamata diretta del preside , che può assumere discrezionalmente senza seguire criteri omogenei
– valutazione del personale, anche per l’attribuzione di eventuali premi salariali, affidata anche a soggetti esterni al rapporto di lavoro
– intervento del privato (sponsor) con finanziamenti e donazioni
– introduzione massiccia dell’apprendistato (fino a 400 ore annue, pari a circa 12 settimane di scuola in cui lo studente cessa di essere tale per divenire un apprendista affittato al mercato della precarietà).

Oltre agli effetti diretti di queste misure, la riforma punta anche un potenziamento della gerarchia già presente nella scuola, con rigido controllo delle metodologie didattiche, degli stili di apprendimento, degli orientamenti culturali, con la diffusione generalizzata della impostazione competitivo meritocratica e della logica produttivistica sia tra gli studenti che tra i docenti.

Le linee ispiratrici di questa politica sono rintracciabili con chiarezze nelle indicazioni sistematicamente fornite ai governi da associazioni – una per tutte la famigerata TREELLE- che comprendono nomi di spicco del settore confindustriale, bancario, delle organizzazioni cattoliche, evidenziando un’illuminante convergenza tra destra imprenditoriale e grandi nomi del PD.

Ma ovviamente queste direttrici si intrecciano con quelle più generali, riconducibili agli orientamenti europei che hanno determinato, nel tempo, la ridefinizione del settore scuola sopratutto nella ricerca di uno standard. Lo standard è un elemento fondamentale nella logica produttivistica, basata sulla definizione delle caratteristiche di un prodotto e nella misurazione delle fasi della lavorazione finalizzata a produrre “quel” prodotto. Per misurare occorre segmentare, suddividere in fasi, analizzare il processo produttivo per verificare la qualità del prodotto finale.
Da qui i vari test nazionali ( Invalsi), internazionali per le scuole superiori (OCSE PISA, commissionato, tra lgli altri, da settori economici privati WTO), internazionali per l’università (processo di Bologna) tutti rivolti a valutare qualità e produttività secondo uno standard.

Ma che cosa significa produttività a scuola? Significa favorire il processo di crescita di ciascuno, secondo le proprie caratteristiche e i tempi individuali di maturazione o significa escludere, selezionare, scartare ? E’ più produttivo e quindi meritevole anche di un maggior stipendio l’insegnante che boccia o quello che promuove? Che cosa misuriamo? la quantità di promossi oppure di bocciati? Che cosa significa tendere ad uno standard in un contesto che dovrebbe valorizzare l’individualizzazione dell’insegnamento e lo sviluppo delle potenzialità di ciascuno? E riferirsi ad uno standard, non significa forse escludere totalmente chi è per ovvi motivi fuori standard, come il disabile, lo straniero, l’alunno in svantaggio sociale e culturale ?

Per la sua tipicità, il settore dell’insegnamento non è sensatamente riconducibile ad un sistema di misurazione di produttività. Ed allora, volendo a tutti i costi seguire questa strada, nell’impossibilità di misurare l’essenza della relazione educativa, si agisce sul livello sovrastrutturale surrettiziamente introdotto con la radicalizzazione della gerarchia, la precarizzazione dei posti di lavoro, la figura del preside sceriffo che i criteri se li inventa, per esibire una logica del controllo spacciata per valutazione del merito e della produttività.

Un anno di lotte
L’opposizione alla riforma Renzi-Giannini è stata fin dall’inizio molto vasta ed ha coinvolto, oltre a moltissimi lavoratori, l’intero arco delle sigle sindacali, tanto che il Governo, per arrivare velocemente all’approvazione, ha dovuto rompere ogni contatto con le parti sociali e procedere con tutto l’autoritarismo possibile, niente concedendo nemmeno a banali norme di galateo democratico.

Se l’unità è sempre apprezzabile, va comunque sottolineato che i sindacati di stato hanno promosso nel tempo una serie di interventi che hanno costiuito i presupposti della riforma Renzi, ultimo atto, per ora, di un processo preparato da anni. La logica del merito e della valutazione “oggettiva” è patrimonio innegabile dei sindacati concertativi, così come il potenziamento dell’autorità dei presidi, nato nell’ambito del Regolamento dell’autonomia partorito oltre quindici anni fa da Luigi Berlinguer, ministro caro alla CGIL e portato avanti da un altro ministro amico della sinistra come Tullio De Mauro, nome presente, tra l’altro, nella fondazione TREELLE.

D’altra parte la malafede degli oppositori dell’ultima ora è stata ben visibile recentemente: dopo lo sciopero dello scorso 5 maaggio contro la Buona scuola, nessuna iniziativa è stata intrapresa per sostenere lo sciopero contro l’Invalsi, promosso dai sindacati di base ma di fatto boicottato dai sindacati “maggiormente rappresentativi”. Eppure l’Invalsi è un elemento cardine di quel sistema valutativo contro il quale ci si mobilita…

A fronte delle ambiguità di alcuni vertici sindacali, va però sottolineata la grande mobilitazione che i lavoratori e le lavoratrici della scuola, spesso sostenuti da settori studenteschi, hanno espresso nell’ultimo anno: scioperi, mobilitazioni, appelli, documenti votati da assemblee e organi collegiali, manifestazioni di piazza di vario tipo, occupazioni, blocchi degli scrutini che hanno interferito anche con gli esami di stato. Questo ampio e determinato fronte di lotta deve mantenere la coesione e la solidarietà che lo ha caratterizzato contrastando in modo deciso l’attuazione della riforma, con una mobilitazione decisa, costante e quotidiana, senza lasciarsi fuorviare da miraggi legalitari.

Il bluff della legalità
Il modo in cui si è arrivati all’approvazione della riforma dimostra chiaramente come la legalità democratica sia un bluff.
Il governo, sottraendosi a qualsiasi confronto e/o ricerca di consenso ha proceduto chiedendo la fiducia sul disegno di legge. Il Senato, pur avendo rilevato in commissione l’incostituzionalità di alcuni aspetti della riforma, ha comunque approvato. Il testo approvato in Senato, ulteriormente emendato dalla Camera , non è stato sottoposto all’ultima ratifica del Senato. E il presidente Mattarella, incurante di tutto ciò, ha ovviamente firmato. Di fronte a queste aperte violazioni di regole che l’apparato stesso si è dato, appare del tutto fuori luogo confidare, come molti stanno facendo, in un referendum abrogativo che spazzi via la riforma. Il referendum, qualora fosse fatto, avrebbe probabilmente un risultato contrario alle aspettative dei promotori, visto che a pronunciarsi non sarebbe esclusivamente la categoria. Ed anche in caso di risultato diverso, è sotto gli occhi di tutti come gli esiti referendari siano stravolti e disattesi dalle logiche politiche.

Quindi un eventuale referendum avrebbe il solo risultato di allentare il fronte delle lotte, spostando tutto sul piano del voto e determinando una battuta d’arresto nella mobilitazione. E’ indispensabile radicalizzare l’opposizione alla riforma, contrastarne l’attuazione sui luoghi di lavoro attraverso forme concrete di boicottaggio, senza trascurare le pratiche di solidarietà, tanto più necessarie in un momento di inasprimento autoritario. Altrettanto indispensabile sarà costruire legami più solidi con gli studenti e collegarsi alle lotte dei settori più combattivi delle varie categorie, per opporsi a questa che non è una riforma, ma l’estensione del Job Act nella scuola.
1145541387551

Posted in Anarchismo, General, Generale, Lavoro, Scuola/Università.

Tagged with , , , , , , , , , , , .


Chiarezza e organizzazione per battere il governo della guerra

Dall’opuscolo: LA GUERRA DEL GOVERNO CONTRO GLI SFRUTTATI

1. Chiarezza e organizzazione per battere il governo della guerra

Quanti sono stati gli astenuti alle ultime elezioni regionali? In due regioni, la Toscana e le Marche, il numero degli astenuti supera quello dei votanti, e questo senza tener conto delle schede bianche e nulle; inoltre secondo i dati del Ministero degli Interni la media dei votanti, nelle regioni interessate al voto, è stata del 53,90%. Il numero degli astenuti è di 8 milioni e 748 mila. Non si tratta di otto milioni di rivoluzionari, si tratta di otto milioni di persone che hanno perso fiducia nel sistema democratico, che non si sentono rappresentati dal ceto politico.

Da tempo governi, organizzazioni sovranazionali e agenzie private cercano di gestire quella che chiamano “crisi di legittimità”. Una crisi di fiducia e di consenso nel sistema politico che attanaglia le grandi potenze imperialiste. Questa crisi è aggravata dalla crisi economica e dalle politiche di austerità con cui le classi privilegiate cercano di scaricare i costi sui ceti popolari e sugli sfruttati. Prima dell’introduzione dell’euro, la Commissione Europea e i governi ad essa collegati studiarono attentamente le conseguenze economiche delle politiche restrittive sui bilanci, e delle conseguenze disastrose, di cui erano perfettamente consapevoli, sull’occupazione e sui redditi dei ceti più bassi. Erano anche consapevoli delle potenziali conseguenze in termini di ordine pubblico di quelle politiche. La crisi di fiducia costituisce un rischio sistemico, ed emerge quando appare evidente che le protezioni politiche e legali date dal governo agli attori economici, e in particolare ai membri dell’elite economica, vengono usate per arricchirsi, anzi che questa è la funzione della struttura politico-legale, e l’elite politica non intraprende nessuna azione per proteggere le vere vittime della crisi.

Secondo le agenzie private di analisi politica che lavorano per i governi, le moderne nazioni possono essere rappresentate come composte di tre sistemi fondamentali, quello politico, quello economico e quello militare. Ciascuno di questi sistemi è gestito da elites; i tre sistemi intergiscono fra di loro, così che quando uno è in difficoltà, attraversa una crisi, gli altri compensano le difficoltà del primo. Quando la crisi economica mette in difficoltà l’elite finanziaria, e l’azione del governo volta a sostenerla genera un rischio sistemico, spetta all’apparato militare e alla sua elite farsi carico della salvezza del sistema.
Questo genere di analisi, rivolta all’attenzione di governi e organizzazioni sovranazionali, teorizza e giustifica l’uscita dell’azione governativa dall’ambito della legittimità democratica e il ricorso a mezzi autoritari per l’imposizione di politiche fortemente antipopolari.
E’ ciò che sta esplodendo in Grecia, ma sono fenomeni che in questi anni tutti i paesi dell’Europa stanno vedendo; è l’Europa il centro del rischio sistemico, a livello di stati nazionali, a livello di Eurozona, e a livello di Unione Europea.

La cosiddetta “crisi di legittimità” quindi, prima di portare ad uno sbocco rivoluzionario, porta alla crescente militarizzazione della società. Assumono allora un significato diverso sia l’amplificazione della minaccia terrorista, sia il crescente schieramento delle forze armate nelle nostre città. I governi esasperano il conflitto sociale e inaspriscono la repressione, in modo da mettere in condizione di non nuocere gli elementi più combattivi, prima che si sviluppi una maggiore presa di coscienza rivoluzionaria, una maggiore organizzazione tra gli sfruttati, la pratica di obiettivi di trasformazione sociale.

Il crescere del malcontento sociale, il crescere dell’astensionismo, prima di portare ad un augurabile sbocco rivoluzionario, porta alla crescita della tensione sociale, dell’aggressività delle classi privilegiate e del Governo. Così si spiegano i continui atteggiamenti provocatori delle istituzioni, l’atteggiamento irridente verso le rivendicazioni popolari, l’esibizione dell’autorità fino alla prepotenza più brutale, l’aperta rapina a danno dei lavoratori e dei pensionati, a vantaggio degli speculatori e dei banchieri, il dispregio per le stesse sentenze della magistratura, quando eccezionalmente si rivolgono contro i potenti.

Un governo che si comporta in questo modo punta a provocare la risposta popolare, sicuro della fedeltà dei propri sgherri, prima che il popolo si organizzi e si dia obiettivi concreti; è un governo che vede nell’uso della violenza l’unica ancora di salvezza, un uso della violenza che non ha intenzione di arretrare nemmeno di fronte alla guerra civile.

Gli anarchici sono contro la guerra, sono contro la violenza, ma di fronte alle provocazioni delle istituzioni saranno al loro posto.
Gli attivisti, le minoranze coscienti, gli organismi di base e i movimenti di massa possono vincere la lotta contro l’autoritarismo del governo, contro il peggioramento delle condizioni dei ceti popolari se, anziché rivolgersi al ceto politico e alle sue componenti critiche, si rivolgono alla maggioranza che non ha più fiducia, per orientarla ed organizzarla. Si tratta di un lavoro di organizzazione e di crescita che deve essere condotto nelle lotte particolari che portiamo avanti, ma che non si esaurisce in queste lotte.

catvote-470x260

Posted in Anarchismo, Antimilitarismo, Generale, Repressione.

Tagged with , , , , , , , , , .


OPUSCOLO: LA GUERRA DEL GOVERNO CONTRO GLI SFRUTTATI

LA GUERRA
DEL GOVERNO
CONTRO GLI SFRUTTATI

1. Chiarezza e organizzazione per battere il governo della guerra

2. La buona scuola: il jobs act nell’istruzione

3. Blocco contratti del pubblico impiego: derubare i lavoratori per ingrassare i capitalisti

4. L’esercito nelle strade protegge le politiche antipopolari del governo

Opuscolo a cura della Federazione Anarchica Livornese e del Collettivo Anarchico Libertario

Livorno, agosto 2015


Chiarezza e organizzazione per battere il governo della guerra

Quanti sono stati gli astenuti alle ultime elezioni regionali? In due regioni, la Toscana e le Marche, il numero degli astenuti supera quello dei votanti, e questo senza tener conto delle schede bianche e nulle; inoltre secondo i dati del Ministero degli Interni la media dei votanti, nelle regioni interessate al voto, è stata del 53,90%. Il numero degli astenuti è di 8 milioni e 748 mila. Non si tratta di otto milioni di rivoluzionari, si tratta di otto milioni di persone che hanno perso fiducia nel sistema democratico, che non si sentono rappresentati dal ceto politico.

Da tempo governi, organizzazioni sovranazionali e agenzie private cercano di gestire quella che chiamano “crisi di legittimità”. Una crisi di fiducia e di consenso nel sistema politico che attanaglia le grandi potenze imperialiste. Questa crisi è aggravata dalla crisi economica e dalle politiche di austerità con cui le classi privilegiate cercano di scaricare i costi sui ceti popolari e sugli sfruttati. Prima dell’introduzione dell’euro, la Commissione Europea e i governi ad essa collegati studiarono attentamente le conseguenze economiche delle politiche restrittive sui bilanci, e delle conseguenze disastrose, di cui erano perfettamente consapevoli, sull’occupazione e sui redditi dei ceti più bassi. Erano anche consapevoli delle potenziali conseguenze in termini di ordine pubblico di quelle politiche. La crisi di fiducia costituisce un rischio sistemico, ed emerge quando appare evidente che le protezioni politiche e legali date dal governo agli attori economici, e in particolare ai membri dell’elite economica, vengono usate per arricchirsi, anzi che questa è la funzione della struttura politico-legale, e l’elite politica non intraprende nessuna azione per proteggere le vere vittime della crisi.

Secondo le agenzie private di analisi politica che lavorano per i governi, le moderne nazioni possono essere rappresentate come composte di tre sistemi fondamentali, quello politico, quello economico e quello militare. Ciascuno di questi sistemi è gestito da elites; i tre sistemi intergiscono fra di loro, così che quando uno è in difficoltà, attraversa una crisi, gli altri compensano le difficoltà del primo. Quando la crisi economica mette in difficoltà l’elite finanziaria, e l’azione del governo volta a sostenerla genera un rischio sistemico, spetta all’apparato militare e alla sua elite farsi carico della salvezza del sistema.
Questo genere di analisi, rivolta all’attenzione di governi e organizzazioni sovranazionali, teorizza e giustifica l’uscita dell’azione governativa dall’ambito della legittimità democratica e il ricorso a mezzi autoritari per l’imposizione di politiche fortemente antipopolari.
E’ ciò che sta esplodendo in Grecia, ma sono fenomeni che in questi anni tutti i paesi dell’Europa stanno vedendo; è l’Europa il centro del rischio sistemico, a livello di stati nazionali, a livello di Eurozona, e a livello di Unione Europea.

La cosiddetta “crisi di legittimità” quindi, prima di portare ad uno sbocco rivoluzionario, porta alla crescente militarizzazione della società. Assumono allora un significato diverso sia l’amplificazione della minaccia terrorista, sia il crescente schieramento delle forze armate nelle nostre città. I governi esasperano il conflitto sociale e inaspriscono la repressione, in modo da mettere in condizione di non nuocere gli elementi più combattivi, prima che si sviluppi una maggiore presa di coscienza rivoluzionaria, una maggiore organizzazione tra gli sfruttati, la pratica di obiettivi di trasformazione sociale.

Il crescere del malcontento sociale, il crescere dell’astensionismo, prima di portare ad un augurabile sbocco rivoluzionario, porta alla crescita della tensione sociale, dell’aggressività delle classi privilegiate e del Governo. Così si spiegano i continui atteggiamenti provocatori delle istituzioni, l’atteggiamento irridente verso le rivendicazioni popolari, l’esibizione dell’autorità fino alla prepotenza più brutale, l’aperta rapina a danno dei lavoratori e dei pensionati, a vantaggio degli speculatori e dei banchieri, il dispregio per le stesse sentenze della magistratura, quando eccezionalmente si rivolgono contro i potenti.

Un governo che si comporta in questo modo punta a provocare la risposta popolare, sicuro della fedeltà dei propri sgherri, prima che il popolo si organizzi e si dia obiettivi concreti; è un governo che vede nell’uso della violenza l’unica ancora di salvezza, un uso della violenza che non ha intenzione di arretrare nemmeno di fronte alla guerra civile.

Gli anarchici sono contro la guerra, sono contro la violenza, ma di fronte alle provocazioni delle istituzioni saranno al loro posto.
Gli attivisti, le minoranze coscienti, gli organismi di base e i movimenti di massa possono vincere la lotta contro l’autoritarismo del governo, contro il peggioramento delle condizioni dei ceti popolari se, anziché rivolgersi al ceto politico e alle sue componenti critiche, si rivolgono alla maggioranza che non ha più fiducia, per orientarla ed organizzarla. Si tratta di un lavoro di organizzazione e di crescita che deve essere condotto nelle lotte particolari che portiamo avanti, ma che non si esaurisce in queste lotte.

La buona scuola: il jobs act nell’istruzione

Una ristrutturazione selvaggia chiamata “riforma”
Dopo che la riforma Gelmini aveva ridotto drasticamente, appena cinque anni fa, posti di lavoro e ore di insegnamento per gli studenti, dopo che le leggi di stabilità hanno imposto ulteriori tagli al settore dell’istruzione, la riforma Renzi- Giannini stucchevolmente denominata “la buona scuola” modifica radicalmente l’assetto della scuola pubblica, che assume un impianto rigidamente aziendalistico, senza eguali nel pubblico impiego:

– immissione in ruolo per un numero di precari assai inferiore alle necessità, con posizione diversificata: alcuni saranno assunti su posto reali, altri con funzioni di tappabuchi su un ambito territoriale non definito.
– perdita della titolarità di sede per il personale di ruolo (in caso di esubero il docente non viene più trasferito secondo una graduatoria, ma deve andare a proporre il proprio curricolo affidandosi alla discrezionalità di un preside che sia disposto ad assumerlo
– chiamata diretta del preside , che può assumere discrezionalmente senza seguire criteri omogenei
– valutazione del personale, anche per l’attribuzione di eventuali premi salariali, affidata anche a soggetti esterni al rapporto di lavoro
– intervento del privato (sponsor) con finanziamenti e donazioni
– introduzione massiccia dell’apprendistato (fino a 400 ore annue, pari a circa 12 settimane di scuola in cui lo studente cessa di essere tale per divenire un apprendista affittato al mercato della precarietà).

Oltre agli effetti diretti di queste misure, la riforma punta anche un potenziamento della gerarchia già presente nella scuola, con rigido controllo delle metodologie didattiche, degli stili di apprendimento, degli orientamenti culturali, con la diffusione generalizzata della impostazione competitivo meritocratica e della logica produttivistica sia tra gli studenti che tra i docenti.

Le linee ispiratrici di questa politica sono rintracciabili con chiarezze nelle indicazioni sistematicamente fornite ai governi da associazioni – una per tutte la famigerata TREELLE- che comprendono nomi di spicco del settore confindustriale, bancario, delle organizzazioni cattoliche, evidenziando un’illuminante convergenza tra destra imprenditoriale e grandi nomi del PD.

Ma ovviamente queste direttrici si intrecciano con quelle più generali, riconducibili agli orientamenti europei che hanno determinato, nel tempo, la ridefinizione del settore scuola sopratutto nella ricerca di uno standard. Lo standard è un elemento fondamentale nella logica produttivistica, basata sulla definizione delle caratteristiche di un prodotto e nella misurazione delle fasi della lavorazione finalizzata a produrre “quel” prodotto. Per misurare occorre segmentare, suddividere in fasi, analizzare il processo produttivo per verificare la qualità del prodotto finale.
Da qui i vari test nazionali ( Invalsi), internazionali per le scuole superiori (OCSE PISA, commissionato, tra lgli altri, da settori economici privati WTO), internazionali per l’università (processo di Bologna) tutti rivolti a valutare qualità e produttività secondo uno standard.

Ma che cosa significa produttività a scuola? Significa favorire il processo di crescita di ciascuno, secondo le proprie caratteristiche e i tempi individuali di maturazione o significa escludere, selezionare, scartare ? E’ più produttivo e quindi meritevole anche di un maggior stipendio l’insegnante che boccia o quello che promuove? Che cosa misuriamo? la quantità di promossi oppure di bocciati? Che cosa significa tendere ad uno standard in un contesto che dovrebbe valorizzare l’individualizzazione dell’insegnamento e lo sviluppo delle potenzialità di ciascuno? E riferirsi ad uno standard, non significa forse escludere totalmente chi è per ovvi motivi fuori standard, come il disabile, lo straniero, l’alunno in svantaggio sociale e culturale ?

Per la sua tipicità, il settore dell’insegnamento non è sensatamente riconducibile ad un sistema di misurazione di produttività. Ed allora, volendo a tutti i costi seguire questa strada, nell’impossibilità di misurare l’essenza della relazione educativa, si agisce sul livello sovrastrutturale surrettiziamente introdotto con la radicalizzazione della gerarchia, la precarizzazione dei posti di lavoro, la figura del preside sceriffo che i criteri se li inventa, per esibire una logica del controllo spacciata per valutazione del merito e della produttività.

Un anno di lotte
L’opposizione alla riforma Renzi-Giannini è stata fin dall’inizio molto vasta ed ha coinvolto, oltre a moltissimi lavoratori, l’intero arco delle sigle sindacali, tanto che il Governo, per arrivare velocemente all’approvazione, ha dovuto rompere ogni contatto con le parti sociali e procedere con tutto l’autoritarismo possibile, niente concedendo nemmeno a banali norme di galateo democratico.

Se l’unità è sempre apprezzabile, va comunque sottolineato che i sindacati di stato hanno promosso nel tempo una serie di interventi che hanno costiuito i presupposti della riforma Renzi, ultimo atto, per ora, di un processo preparato da anni. La logica del merito e della valutazione “oggettiva” è patrimonio innegabile dei sindacati concertativi, così come il potenziamento dell’autorità dei presidi, nato nell’ambito del Regolamento dell’autonomia partorito oltre quindici anni fa da Luigi Berlinguer, ministro caro alla CGIL e portato avanti da un altro ministro amico della sinistra come Tullio De Mauro, nome presente, tra l’altro, nella fondazione TREELLE.

D’altra parte la malafede degli oppositori dell’ultima ora è stata ben visibile recentemente: dopo lo sciopero dello scorso 5 maaggio contro la Buona scuola, nessuna iniziativa è stata intrapresa per sostenere lo sciopero contro l’Invalsi, promosso dai sindacati di base ma di fatto boicottato dai sindacati “maggiormente rappresentativi”. Eppure l’Invalsi è un elemento cardine di quel sistema valutativo contro il quale ci si mobilita…

A fronte delle ambiguità di alcuni vertici sindacali, va però sottolineata la grande mobilitazione che i lavoratori e le lavoratrici della scuola, spesso sostenuti da settori studenteschi, hanno espresso nell’ultimo anno: scioperi, mobilitazioni, appelli, documenti votati da assemblee e organi collegiali, manifestazioni di piazza di vario tipo, occupazioni, blocchi degli scrutini che hanno interferito anche con gli esami di stato. Questo ampio e determinato fronte di lotta deve mantenere la coesione e la solidarietà che lo ha caratterizzato contrastando in modo deciso l’attuazione della riforma, con una mobilitazione decisa, costante e quotidiana, senza lasciarsi fuorviare da miraggi legalitari.

Il bluff della legalità
Il modo in cui si è arrivati all’approvazione della riforma dimostra chiaramente come la legalità democratica sia un bluff.
Il governo, sottraendosi a qualsiasi confronto e/o ricerca di consenso ha proceduto chiedendo la fiducia sul disegno di legge. Il Senato, pur avendo rilevato in commissione l’incostituzionalità di alcuni aspetti della riforma, ha comunque approvato. Il testo approvato in Senato, ulteriormente emendato dalla Camera , non è stato sottoposto all’ultima ratifica del Senato. E il presidente Mattarella, incurante di tutto ciò, ha ovviamente firmato. Di fronte a queste aperte violazioni di regole che l’apparato stesso si è dato, appare del tutto fuori luogo confidare, come molti stanno facendo, in un referendum abrogativo che spazzi via la riforma. Il referendum, qualora fosse fatto, avrebbe probabilmente un risultato contrario alle aspettative dei promotori, visto che a pronunciarsi non sarebbe esclusivamente la categoria. Ed anche in caso di risultato diverso, è sotto gli occhi di tutti come gli esiti referendari siano stravolti e disattesi dalle logiche politiche.

Quindi un eventuale referendum avrebbe il solo risultato di allentare il fronte delle lotte, spostando tutto sul piano del voto e determinando una battuta d’arresto nella mobilitazione. E’ indispensabile radicalizzare l’opposizione alla riforma, contrastarne l’attuazione sui luoghi di lavoro attraverso forme concrete di boicottaggio, senza trascurare le pratiche di solidarietà, tanto più necessarie in un momento di inasprimento autoritario. Altrettanto indispensabile sarà costruire legami più solidi con gli studenti e collegarsi alle lotte dei settori più combattivi delle varie categorie, per opporsi a questa che non è una riforma, ma l’estensione del Job Act nella scuola.


Blocco contratti del pubblico impiego: derubare i lavoratori per ingrassare i capitalisti

Nella lettera che la BCE scrisse, con firma congiunta Trichet e Draghi, al governo italiano nell’agosto 2011 indicando le misure che dovevano essere prese per risanare il bilancio statale si leggeva fra l’altro:
E’ possibile intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l’età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo dei risparmi già nel 2012. Inoltre, il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover e, se necessario, riducendo gli stipendi.

Il governo Berlusconi aveva in realtà già provveduto a bloccare i contratti degli impiegati pubblici fin dall’anno prima, riducendo di fatto gli stipendi agli statali. Stipendi che di fatto erano già fermi visto che ormai da almeno 10 anni il rinnovo contrattuale nel pubblico impiego si limitava a reintegrare solo l’inflazione programmata dal governo (e quindi neppure quella reale, sempre superiore) e quindi non comportava di fatto aumenti reali. Il blocco deciso da Berlusconi verrà poi confermata sia dal governo Monti, il “sobrio” tecnico inviatoci dai poteri forti della finanza europea, che da quello Letta, un altro politico molto ben visto in tali ambienti, che da quello Renzi, lo scendiletto di Francoforte e Bruxelles.
Seguendo le indicazioni della BCE (si scrive indicazioni si legge diktat), il governo Monti operò un blocco degli aumenti delle pensioni superiori ai 1500 euro lordi, in pratica operando lo stesso meccanismo già sperimentato sui contratti pubblici.

Dopo le sentenze della Corte Costituzionale che ha sancito l’incostituzionalità sia del blocco delle pensioni che di quello dei contratti statali, sappiamo che buona parte del “risanamento” operato dai vari governi succedutesi negli ultimi anni è stato fatto sulla pelle di queste due categorie: 50 miliardi di euro che il governo ha risparmiato e che vanno aggiunti ai tagli sulla sanità, sulla scuola, sui servizi sociali. Segni indelebili sulla società italiana a cui vanno sommati la disoccupazione giovanile di massa, la precarizzazione dei rapporti di lavoro, i licenziamenti, ecc. al fine di realizzare quella contrazione della domanda interna (per diminuire le importazioni e favorire le esportazioni, panacea di tutti i mali, secondo le sanguisughe della finanza mondiale).
E’ evidente come i governi violino ormai abitualmente le leggi dello Stato: la Corte costituzionale ha evidenziato la illegittimità dei provvedimenti sul contratto degli statali e sul blocco delle pensioni, ma è recente la decisione di far riaprire con un decreto legge governativo gli stabilimenti di Monfalcone e Taranto, bloccati da provvedimenti della magistratura dopo gravi inadempienze delle Società Fincantieri e Ilva. Il tutto con la scusa di salvaguardare i posti di lavoro!

Per tornare ai dipendenti pubblici è stato calcolato che il blocco dei contratti sia costato, in media, circa il 10% dei loro salari per un totale di circa 35 miliardi di euro in cinque anni, mentre negli ultimi anni si sono persi 221mila posti di lavoro nel pubblico impiego. Soldi che lo stato ha risparmiato e che sono serviti a ripagare il debito verso gli speculatori internazionali, a finanziare le spese e le avventure militari all’estero, a salvare le banche. E’ notizia di questi giorni che lo Stato italiano è divenuto il secondo socio per importanza del Monte dei Paschi di Siena grazie ad un prestito, mai restituito, di circa 5 miliardi di euro.
Insomma: un enorme travaso di soldi dalle tasche dei lavoratori, dei pensionati, dei precari a quelle dei capitalisti.

L’esercito nelle strade protegge le politiche antipopolari del governo

Dal marzo scorso anche a Livorno sono stati schierati i soldati nelle strade della città.
A inizio anno infatti è stata ulteriormente prorogata l’Operazione Strade Sicure, inaugurata nel 2008 dall’allora Ministro della Difesa Ignazio La Russa e definita dalla legge 25 del 24 luglio 2008, il cosiddetto “Pacchetto Sicurezza” che prevedeva, insieme ad altre misure repressive, l’utilizzo delle Forze armate per attività di pubblica sicurezza nelle città. In questi anni sono state impiegate soprattutto unità dell’Esercito, ma anche dell’Aeronautica, della Marina e dell’Arma dei Carabinieri. Con la proroga di inizio 2015 si è avuto un rafforzamento dell’operazione con un incremento da 3000 a 4500 nel numero dei militari schierati e con il coinvolgimento di altre città nell’operazione. È così che in alcune città toscane e pure a Livorno sono arrivati i militari nelle strade.

Ad inizio anno il Ministero degli Interni ha chiesto a tutte le prefetture se sui rispettivi territori vi fosse bisogno dell’impiego di un contingente militare per controlli antiterrorismo e per la vigilanza dei cosiddetti siti sensibili. La decisione in questi casi spetta quindi al Ministero e alle prefetture, che possono decidere anche in che modo schierare il contingente, se attraverso presidi fissi o perlustrazioni lungo le strade cittadine.
La Prefettura di Livorno, come in Toscana quella di Lucca, Firenze e Prato, ha deciso di schierare i soldati nelle strade in funzione antiterrorismo, ed il compito è stato assegnato alla Brigata Paracadutisti Folgore. Per questo dalla seconda metà di marzo si vedono per le strade della città paracadutisti in assetto da guerra, a piedi o su mezzi dell’esercito, che imbracciano mitragliatori. Trattandosi di un’operazione antiterrorismo l’ingaggio è militare, dicono dalle prefetture per giustificare le armi da guerra in dotazione alle truppe che girano per le città. Ma la “minaccia islamica” è una menzogna, un pretesto utilizzato anche dalla stampa locale.

In realtà siamo di fronte a politiche di sicurezza fortemente autoritarie condotte in modo trasversale dai governi che si sono susseguiti negli ultimi sette anni. Non si tratta né di una misura d’urgenza adottata dopo gli attentati di Parigi e di Tunisi di inizio 2015, né di “eccezionali esigenze di prevenzione della criminalità” come recitava la legge del 2008 che isitituiva il concorso delle Forze armate nel controllo del territorio. Non stiamo quindi parlando di casi eccezionali, della gestione militare di un’emergenza, che sarebbe comunque una grave forma di militarizzazione, ma di una linea generale in materia di sicurezza, centrata sull’impiego dei militari a scopo di sicurezza interna, adottata dai differenti governi che si sono succeduti.

Con i militari nelle strade si esaspera la percezione della “minaccia” del terrorismo e della criminalità, si tenta di giustificare e normalizzare l’impiego delle Forze armate nel controllo del territorio, ma anche nella repressione di proteste popolari.

Ad aprire la strada all’Operazione Strade Sicure è stata la gestione militare dell’emergenza rifiuti in Campania del 2008. Il governo allora decise, dopo una grande campagna mediatica, di gestire l’emergenza manu militari, per fronteggiare la determinata opposizione della popolazione. Venne proclamato lo stato di emergenza, venne nominato Sottosegretario per l’emergenza rifiuti Guido Bertolaso allora Capo del Dipartimento della Protezione Civile, infine le discariche vennero dichiarate siti di interesse strategico, da tutelare quindi anche attraverso l’impiego delle Forze armate. Questi provvedimenti, previsti in un decreto del maggio 2008, divennero legge nel luglio dello stesso anno, una decina di giorni prima dell’approvazione del pacchetto sicurezza che dette il via all’Operazione Strade Sicure.

Ma l’esempio più eclatante dell’utilizzo delle Forze armate a scopo di repressione interna si ha in Val di Susa. Dal primo gennaio 2012 è stata dichiarata area di interesse strategico nazionale La Maddalena di Chiomonte, dove sorge il cantiere per il tunnel geognostico della linea Torino-Lione della TAV, a cui si oppone il vasto movimento NO TAV, radicato a livello locale nella popolazione e diffuso a livello nazionale. Già da anni la Val di Susa era di fatto militarizzata da polizia e carabinieri, impiegati dal governo per fronteggiare la determinazione del movimento di opposizione alla linea TAV. Lo schieramento delle Forze armate ha aumentato enormemente la militarizzazione, trasformando la Valle in terra d’occupazione, in fronte di guerra. A Chiomonte c’è un soldato ogni due abitanti, sono stati schierati contro i manifestanti gli alpini reduci dell’Afghanistan, ci sono posti di blocco, pattugliamenti, elicotteri, uomini e mezzi schierati nelle strade e nei boschi.

alpini-scudati-2

La gestione militare dell’emergenza rifiuti in Campania e la militarizzazione della Val di Susa ben rappresentano la linea politica volta all’impiego delle Forze armate a scopo di repressione interna portata avanti dai governi che si sono succeduti negli ultimi anni. L’Operazione Strade Sicure, con il coinvolgimento dei soldati nel controllo delle città serve quindi a normalizzare l’uso repressivo delle Forze armate. Una militarizzazione della sicurezza interna e una sovrapposizione dei ruoli degli apparati dello Stato, che avviene in parallelo ai cambiamenti che da circa un decennio sono in atto nelle Forze armate e nei Corpi dello Stato, orientati principalmente ad una riorganizzazione in senso di coesione, specializzazione e operatività. Questo avviene nelle Forze armate, ad esempio con la creazione di unità di intervento rapido, e avviene nella Polizia e negli altri Corpi come una forma di rimilitarizzazione.

Il vero problema non sta nel tipo di divisa che indossa chi esercita nelle strade la repressione dello Stato, ma nel fatto che ci troviamo di fronte ad una guerra del governo contro i lavoratori e le lavoratrici, contro gran parte della popolazione. È una guerra che c’è sempre stata, ma che recentemente si è fatta più aspra e diretta. Per questo si schierano anche i soldati nelle strade e le truppe occupano quei territori in cui la protesta popolare si fa più determinata.

Negli ultimi anni i governi che si sono succeduti hanno infatti condotto una vera e propria guerra sociale contro la classe lavoratrice. Nel 2012, quando ancora era alla guida del governo, Monti disse che per l’Italia si prospettava un “percorso di guerra”, riferendosi alle cosiddette politiche di austerità. L’imposizione senza appello di politiche di attacco alla classe lavoratrice, di difesa degli interssi padronali e dei grandi privilegi infatti non può essere gestita che in modo militare.
Quindi opporsi alla repressione ed in particolare alla militarizzazione e all’impiego delle Forze armate nella sicurezza interna è una parte indispensabile della lotta contro le politiche del governo.

È necessario rilanciare e diffondere l’antimilitarismo, smascherando la sempre più stretta continuità tra la guerra condotta dentro i confini nazionalie quella condotta al di fuori di essi. In entrambi i casi si bombarda, si pratica la repressione, l’occupazione militare e il saccheggio per assicurare gli interessi dei potenti e del grande capitale.

Posted in Anarchismo, Antimilitarismo, Generale, Lavoro, Nocività-Salute, Repressione, Scuola/Università.

Tagged with , , , , , , , , , , , , , .


Orti Urbani: comunicato della Federazione Anarchica Livornese

bandiera_FAI

Orti Urbani: comunicato della Federazione Anarchica Livornese

La Federazione Anarchica Livornese ritiene che la mobilitazione sostenuta dai cittadini degli Orti Urbani rappresenti un importante momento di contrasto alla speculazione edilizia e alla proprietà privata attuato tramite la riappropriazione popolare di spazi sottratti alla collettività.

L’esperienza degli Orti Urbani, condotta attraverso la gestione collettiva e la sperimentazione di pratiche autogestionarie, è un elemento da valorizzare nel contesto cittadino e nell’ambito delle più generali lotte condotte dal basso e in forma autoorganizzata in contrasto con le istituzioni che da sempre garantiscono gli interessi e i privilegi di chi sfrutta persone e territori.

La questione ambientale è un elemento centrale delle lotte sociali. Ovunque, dal Piemonte alla Sicilia, si evidenzia l’inconciliabilità tra le esigenze delle popolazioni e la volontà di profitto, come mostrano le lotte NO TAV e NO MUOS. Ovunque è evidente come i governi e le amministrazioni si rendano responsabili di devastazioni e saccheggi dei territori, spesso imposti anche attraverso l’uso della forza e dell’esercito. Ed è anche sempre più evidente come la pratica legalitaria non offra alcuna garanzia: lo spregio assoluto dell’esito del referendum sull’acqua e delle sentenze che impongono la chiusura dell’Ilva di Taranto sono due esempi significativi dell’inefficacia del percorso istituzionale e legale. Solo l’autoorganizzazione e l’autogestione rappresentano una risposta in grado di garantire gli interessi collettivi.

Federazione Anarchica Livornese

Livorno, 1.8.2015

Posted in Anarchismo, Generale, Nocività-Salute.

Tagged with , , , , , , .


Dove si può trovare Umanità Nova a Livorno? Punti di diffusione aggiornati

newswire_logo

Il settimanale anarchico Umanità Nova si può trovare anche a Livorno presso le edicole di Via Garibaldi 7, di Piazza Damiano Chiesa, di Piazza Grande (angolo Bar Sole), di Viale Carducci (angolo Via del Risorgimento), di Viale di Antignano 110, di Piazza Micheli (lato Quattro mori), presso il Bar Dolcenera in Via della Madonna (angolo Viale degli Avvalorati), la Libreria Belforte in Via Roma 69 e presso la sede della Federazione Anarchica Livornese in Via degli Asili 33 (apertura ogni giovedì dalle ore 18 alle ore 20).

Posted in Anarchismo, Generale.

Tagged with , .


Giornata in memoria di Filippo Filippetti – anarchico livornese, antifascista, ucciso dai fascisti

Giornata in memoria di Filippo Filippetti
anarchico livornese, antifascista, ucciso dai fascisti

Domenica 2 agosto 2015

ore 18:30 Commemorazione presso la lapide
Via Provinciale Pisana 354, Livorno (andando verso Via Firenze, alla ex-scuola di fronte al circolo ARCI “Tamberi”)
dalle ore 21:00 Mostre, distribuzione stampa e materiale anarchico
presso il Teatro Officina Refugio, Scali del Refugio, Livorno

FILIPPETTI

Filippo Filipetti, giovane anarchico, viene ucciso il 2 agosto 1922 dai fascisti mentre si oppone, assieme ad altri antifascisti, ad una spedizione punitiva contro Livorno.
Il 2 Agosto 1922 un gruppo di giovani antifascisti, tra i quali alcuni anarchici, ingaggia uno scontro armato nei pressi di Pontarcione con i camion dei fascisti. Muore nella sparatoria Filippo Filippetti, membro degli Arditi del Popolo, sindacalista dell’USI per il settore edile.

Nell’estate del 1922 si giocano le ultime carte per fermare la reazione antiproletaria: il paese è attraversato da un crescendo di aggressioni compiute dai fascisti nei confronti delle organizzazioni del movimento operaio e dei singoli militanti; si contano decine di morti fra gli antifascisti.
Da mesi l’Unione Anarchica Italiana e il giornale “Umanità Nova” si battono a sostegno del movimento degli Arditi del Popolo, per costituire un fronte unico proletario che organizzi la difesa.
Su iniziativa del Sindacato Ferrovieri Italiano è costituita l’Alleanza del Lavoro, a cui partecipano tutti i sindacati, con l’appoggio dell’Unione Anarchica, del Partito Repubblicano, del Partito Comunista e del Partito Socialista.

L’Alleanza del Lavoro indice uno sciopero generale ad oltranza per fermare le violenze fasciste a partire dalla mezzanotte del 31 luglio.
I fascisti finanziati da agrari e industriali, armati da Carabinieri ed Esercito, protetti dalla monarchia e dalla chiesa, aggrediscono le roccaforti operaie.
In molte città, fra cui Piombino, Ancona, Parma, Civitavecchia, Bari i fascisti vengono respinti anche grazie all’azione degli Arditi del Popolo. Nel momento in cui la resistenza operaia cresce, CGL e PSI, sperando in un ennesimo compromesso, si ritireranno dalla lotta, aprendo la strada alla rappresaglia armata del Governo.

Livorno è uno dei centri dello scontro. Tra il 1° e il 2 Agosto 1922 squadre fasciste provenienti da tutta la Toscana lanciano la caccia agli antifascisti livornesi, facendo irruzione nei quartieri popolari che resistono all’invasione.
Molti furono gli assassinati in quei giorni. Popolani, militanti comunisti, anarchici, repubblicani e socialisti, tra i quali Luigi Gemignani, Gilberto Catarsi, Pietro Gigli, Pilade Gigli, Oreste Romanacci, Bruno Giacomini e Genoveffa Pierozzi.

Negli scontri in periferia viene ucciso il giovane anarchico Filippo Filippetti.
Gli anarchici invitano tutti gli antifascisti a partecipare alla commemorazione.

Federazione Anarchica Livornese
cdcfedanarchicalivornese@virgilio.it

Collettivo Anarchico Libertario
collettivoanarchico@hotmail.it
http://collettivoanarchico.noblogs.org/
fip 21-07-15

Posted in Anarchismo, Antifascismo, Generale, Iniziative.

Tagged with , , , , , , , , , , .


IL NOSTRO DOLORE SARÀ LA NOSTRA RABBIA, KOBANÊ SARÀ RICOSTRUITA

suruc istanbul daf

Comunicato del gruppo anarchico DAF sulla strage di Suruç:

IL NOSTRO DOLORE SARÀ LA NOSTRA RABBIA, KOBANÊ SARÀ RICOSTRUITA

Ieri circa trecento persone sono partite da diverse città per rispondere all’appello della Federazione delle Associazioni di Giovani Socialisti con lo scopo di ricostruire Kobanê, che lo Stato Islamico aveva provato a saccheggiare. Oggi, arrivando a Suruç (Pîrsus), proprio prima di partire per Kobanê, questi giovani hanno fatto una conferenza stampa di fronte al Centro Culturale Amara a Suruç (Pîrsus). Alla fine della conferenza stampa, una bomba, esplodendo in mezzo alla folla, ha fatto cessare il battito di molti cuori che battevano con la speranza della ricostruzione.

Secondo le informazioni, ad ora 31 persone sarebbero state uccise e centinaia sarebbero state ferite nell’esplosione.

Dopo questa esplosione, oggi noi ascoltiamo i nomi dei caduti dall’ospedale di Suruç (Pîrsus). Quelli che erano partiti da diverse città, quelli che avevano grandi speranze nei loro cuori, sono ora caduti sotto i colpi degli assassini. La gente, che si sta riversando nelle strade per per chiedere loro il conto per i caduti, che aspetta davanti agli ospedali, viene minacciata dai mezzi blindati (TOMA) e dalla polizia che è arrivata al Centro Culturale Amara prima delle ambulanze. A Mersin, a Sert, a Istanbul… La persone che scendono nelle strade stanno fronteggiando la violenza dello Stato assassino e dei collaboratori degli assassini che vogliono massacrarli.

Coloro che hanno massacrato numerose vite, iniziando dal primo giorno della Resistenza di Kobanê, stanno ora cercando di scoraggiarci uccidendo i nostri fratelli.

Noi stiamo cercando di ricostruire una nuova vita contro lo Stato Islamico, contro lo Stato che collabora con lo Stato Islamico, contro la politica di guerra dello Stato che non ha mai fine. Non importa quanto sia alto il prezzo, trasformeremo il nostro dolore nella nostra rabbia, ricostruiremo Kobanê e ricostruiremo la vita in questa geografia saccheggiata.

(Oggi due nostri amici anarchici di nome Alper Sapan dell’Iniziativa Anarchica di Eskişehir e Evrim Deniz Erol di Urfa sono stati uccisi nell’attacco)

Bijî Berxwedana Kobanê! /⁠ Viva la Resistenza di Kobanê!
Bıjî Şoreşa Rojava! /⁠ Viva la Rivoluzione della Rojava!

Azione Anarchica Rivoluzionaria (DAF – Devrimci Anarşist Faaliyet)

Posted in Anarchismo, Antifascismo, Generale, Internazionale, Repressione.

Tagged with , , , , , , , , , .


Il “Melo”: politicanti e istituzioni alimentano la guerra tra gli sfruttati

Comunicato della CdC della Federazione Anarchica Livornese

Il “Melo”: politicanti e istituzioni alimentano la guerra tra gli sfruttati.

Le recenti polemiche sorte attorno alla casa famiglia il Melo evidenziano la strumentalizzazione politica in chiave razzista e sessita della vicenda operata dalla Lega Nord e dall’estrema destra alla disperata ricerca di una visibilità politica sul territorio, e la volontà da parte della Prefettura di determinare un’emergenza sociale che scateni un clima di intolleranza.

Nella struttura per minori Il Melo, attualmente ospitante due madri con bambini, vengono inseriti, in spazi separati, cinque minorenni stranieri africani. Le madri presenti nella struttura, una delle quali di provata fede leghista come attestato dal suo profilo fb, danno il via ad una protesta contro l’inserimento dei cinque ragazzi, a loro dire minacciosamente vicini all’età adulta e potenziali molestatori sessuali. Le madri che protestano sono solo due, la cosa potrebbe essere risolta in modo rapido e sensato, eppure assume toni esasperati e a sostenere le madri in questione arriva Salvini in persona, roba che non si è vista né a Roma né a Treviso, dove la protesta ha riguardato interi quartieri.

Sulla vicenda vogliamo fare alcune considerazioni.

– La strumentalizzazione leghista è stata evidentissima ed ha riguardato anche aspetti che andavano oltre la solita gestione razzista delle problematiche di coesistenza abitativa. Non ci si è fermati a ribadire le presunte priorità degli italiani rispetto agli stranieri. Per le madri del Melo si è scelta una rappresentazione forte e quasi belluina del ruolo di madre, intesa come massima espressione della donna, secondo una visione sessista e fascista, si è addirittura tirato in ballo l’aborto, contrapponendo la maternità come unica scelta degna, si è alimentata la polemica su una questione che riguardava unicamente l’assegnazione di spazi, trasformandola in un’oscura e pruriginosa vicenda prefigurante possibili molestie sessuali, banalizzando, come si fa troppo spesso, la questione della violenza sulle donne e riducendola a pretesto.

– I cinque ragazzi sono minori soli, giunti in Italia da diversi mesi, quindi seguiti e conosciuti da altrettanto tempo, eppure le strutture a cui sono affidati non hanno sottolineato questo aspetto, né spiegato il loro percorso, alimentando di fatto attorno ad essi il fumus di persone alla soglia dell’età adulta o forse adulti non dichiarati, sconosciuti e appena giunti in Italia. In questo modo dei minori da proteggere sono stati esposti ad una campagna d’odio

– I cinque ragazzi erano ospitati finora nella struttura per minori “la Quercia” di piazza Mazzini. Il loro tresferimento risponde evidentemente ad una logica di razionalizzazione nella gestione delle strutture che va contestata, come si fa in tutti i casi di taglio del servizio, chiamando in causa l’amministrazione comunale, l’assessorato al sociale e l’istituzione dei servizi alla persona

Il trasferimento dei cinque ragazzi risponde chiaramente ad un’odiosa linea operativa delle Prefetture che vediamo applicata in tutta Italia, soprattutto in questo momento; le responsabilità, oltre che dei singoli prefetti, è evidentemente del monostro dell’interno e di tutto il governo: lo scopo è quella di operare scelte che creino tensione sociale alimentando razzismo, insofferenza e intolleranza, creando situazioni che possono portare problemi di gestione, e offrendo occasioni di visibilità e strumentalizzazione alla destra della peggiore specie.

La Commissione di Corripondenza della Federazione Anarchica Livornese, sicura di interpretare i sentimenti delle anarchice e degli anarchici livornese, esprime solidarietà a tutti coloro che sono esposti a campagne razziste e discriminatorie e ribadisce che nessuna situazione di emergenza sociale può essere sostenuta da chi crea l’emergenza e fa dell’ordine sociale, della difesa della famiglia tradizionale, della discriminazione e dell’odio la propria bandiera.

La Commissione di Corrispondenza

della Federazione Anarchica Livornese

IMG_2687

Posted in Anarchismo, Antifascismo, Antirazzismo, Generale.

Tagged with , , , , , , , , .


Turchia: Bombe di Stato contro la ricostruzione di Kobanê strage di giovani socialisti, uccisi anche due anarchici

questo articolo uscirà sul prossimo numero del settimanale anarchico Umanità Nova

 

manif istanbul per suruc

Turchia: Bombe di Stato contro la ricostruzione di Kobanê

strage di giovani socialisti, uccisi anche due anarchici

La mattina di lunedì 20 luglio a Suruç nel giardino del centro culturale Amara è esplosa una bomba durante la conferenza stampa dell’organizzazione turca Federazione delle Associazioni dei Giovani Socialisti (SGDF). Circa 30 persone sarebbero rimaste uccise nell’esplosione, oltre 100 giovani invece sarebbero feriti, di cui alcuni in gravi condizioni. Tra le vittime, oltre a numerosi giovani militanti socialisti, vi sono anche due compagni anarchici, entrambi di 19 anni. Evrim Deniz Erol e Alper Sapan, quest’ultimo faceva parte del gruppo Iniziativa Anarchica di Eskişehir ed era obiettore di coscienza al servizio militare.

Suruç è una cittadina a maggioranza curda in territororio statale turco, che si trova a ridosso del confine con la Siria ed è base per tutte le azioni di solidarietà rivolte verso Kobanê, che dista solo pochi chilometri. Per questo circa 300 membri del SGDF si trovavano presso il centro culturale per una conferenza stampa in cui stavano denunciando la repressione attuata dal governo turco allo scopo di impedire che i giovani militanti passassero il confine per lavorare a progetti di ricostruzione della città. Quasi contemporaneamente un altro attentato a Kobanê, vicino al valico di frontiera di Mürşitpınar, verso Suruç, faceva ulteriori vittime tra le forze curde di autodifesa. L’attentato al centro culturale Amara viene per ora attribuito allo Stato Islamico, in ogni caso è chiaro che l’attacco risponde agli interessi di coloro che vogliono bloccare in ogni modo qualsiasi possibilità di cambiamento sociale rivoluzionario nella regione, a partire dal governo turco e dai suoi sicari. Per comprendere il contesto in cui è avvenuto questo attacco terribile, cerchiamo di ripercorrere gli eventi degli ultimi mesi.

Dopo le note vicende dell’assedio da parte delle milizie dello Stato Islamico alla città di Kobanê nell’autunno-inverno dello scorso anno, la situazione in Rojava è andata progressivamente modificandosi a seguito della liberazione della città, avvenuta nel Gennaio del 2015 per mano delle milizie curde YPG (Unità di Protezione del Popolo) e YPJ (Unità di Protezione delle Donne, milizia femminile) e delle altre forze che combattono al loro fianco.

Il Kurdistan in zona siriana (Rojava) è diviso in tre diversi cantoni. Nella zona nord orientale della Siria si trova il cantone di Cizire, quello geograficamente più grande e popolato. A nord ovest vi è invece il cantone di Efrin. Tra i due cantoni vi è quello di Kobanê. I tre cantoni sino al Giugno del 2015 hanno avuto degli ingenti problemi di collegamento, data la presenza di truppe dello Stato Islamico e di altri gruppi che bloccavano ogni possibilità di scambio tra le regioni.

I combattimenti nelle zone intermedie tra i tre diversi cantoni si sono difatti susseguiti ininterrottamente dal 2013 sino a oggi. Oltre ciò, non minore importanza ha avuto la chiusura ufficiale, predisposta dalla Turchia, di svariati valichi di confine con i territori controllati dalle forze curde. Azione che ha isolato ulteriormente le zone sotto il controllo dei curdi e che ha impedito ed impedisce anche oggi l’arrivo di qualsiasi assistenza ai territori martoriati dai continui attacchi dello Stato Islamico, bloccando a tempo indeterminato anche il flusso regolare di profughi in fuga. Va ricordato che nel periodo in cui le forze curde ancora non controllavano completamente alcune delle zone settentrionali della Siria, che allora erano nella maggior parte dei casi in mano a forze legate a gruppi islamisti che si sarebbero uniti successivamente allo Stato Islamico, lo stato turco tenne alcuni valichi di frontiera aperti a “tempi alterni”. Tale azione venne giustificata dall’esigenza di mantenere una continuità commerciale con il territorio siriano, aprendo e chiudendo, svariate volte e con violenza, l’accesso in Turchia ai profughi in fuga dagli scontri violentissimi tra varie fazioni. Attraverso questi valichi di frontiera sono transitati nel tempo rifornimenti per Al-Nusra e lo Stato Islamico. Non si è certo trattato di semplice negligenza nei controlli di frontiera da parte della Turchia, dal momento che il governo turco ha in numerose occasioni dimostrato il proprio sostegno a forze controrivoluzionarie come lo Stato Islamico sia in Siria sia all’interno del territorio turco, utilizzando formazioni paramilitari fasciste e religiose nella repressione dei rivoluzionari e dei militanti curdi.

L’atteggiamento del governo turco è sempre stato chiaro. Il confine sotto il controllo turco tra il paese anatolico e la Siria apre e chiude le sue porte in base all’utilità politica della situazione interna alla Turchia ed a quella del nord della Siria. Da un lato l’apertura e l’accoglienza apparente verso i profughi in determinati periodi dell’anno, dall’altra il blocco e la repressione violenta con la volontà d’interrompere ogni collegamento tra le due sponde quando la situazione politica nei due territori minaccia la stabilità politica del territorio turco. Al contempo i combattenti dello Stato Islamico attraversano tranquillamente il confine sotto gli occhi dei militari turchi. Un esempio lampante di tali politiche lo si è avuto con la repressione violenta esercitata dall’esercito turco e la Jandarma (polizia militare turca) durante l’assedio da parte dello Stato Islamico a Kobanê del 2014. Allora migliaia di persone in fuga dalla città, soprattutto curde, vennero duramente attaccate dalle autorità turche che ne stavano impedendo il passaggio. Fu di molti feriti e qualche morto il bilancio di quelle settimane.

Nel Giugno di questo anno, le YPG e le YPJ, hanno condotto un’operazione per tentare di riunificare il cantone di Kobane a quello di Cizire, cercando di liberare dallo Stato Islamico una delle città più importanti della zona settentrionale della Siria, Tall Abyad e la zona circostante.

La città di Tall Abyad, dopo la riconquista da parte delle YPG/YPJ della città di Kobanê, ha assunto per lo Stato Islamico un ruolo strategico e politico centrale. Tall Abyad difatti, conquistata dallo Stato Islamico nel Giugno del 2014, è rimasta sino a qualche mese fa, l’unico valico di frontiera nel nord est della Siria sotto il controllo dello Stato Islamico, permettendo ad esse di ricevere un regolare flusso di aiuti e combattenti provenienti dal territorio turco; il tutto come sempre sotto l’occhio accondiscendente dello stato turco.

Durante tutto l’arco del 2014, le milizie dello Stato Islamico hanno condotto nella zona un’ingente operazione di riassestamento demografico, minacciando di morte i curdi dell’area mediante un’operazione di allontanamento forzato dall’area. Durante l’estate del 2014 sono state molte le famiglie curde, turcomanne ed anche arabe che hanno abbandonato la zona per paura di ripercussioni.

Nel giugno scorso le operazioni delle YPG e delle YPJ hanno portato nel giro di qualche giorno alla liberazione della città di Tall Abyad. Durante lo stesso mese, in Turchia, si sono tenute le elezioni per rinnovare il parlamento ed eleggere il primo ministro della Repubblica, in un contesto politico nel paese fortemente conflittuale. Il partito di Erdoğan non è riuscito ad ottenere la maggioranza, mentre il partito a base curda HDP (Partito Democratico dei Popoli) ha conseguito più del 13% dei voti, entrando di diritto nel parlamento della Repubblica Turca. Questo è avvenuto nonostante il blocco di potere al governo, guidato dal partito conservatore-religioso AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo), abbia tentato con ogni mezzo di ostacolare l’opposizione. Le elezioni infatti furono insanguinate da aggressioni contro attivisti curdi e dei partiti di sinistra, attacchi che culminarono con le bombe di stato ad Amed (Diyarbakir) il 5 giugno che provocarono 4 morti durante un comizio dell’HDP. L’esito delle elezioni, accompagnato dalle continue vittorie sul campo delle forze curde in territorio siriano e da un progressivo radicamento delle forze della sinistra rivoluzionaria in tutto il paese anatolico, hanno condotto il governo di Ankara ad aumentare la violenza della repressione interna.

Ankara non ha digerito la doppia sconfitta ed ha dichiarato, durante un incontro del Consiglio Nazionale di Sicurezza Turco (MGK), la decisione di implementare la sua presenza lungo il confine turco-siriano, in particolar modo in quei territori confinanti con le zone gestite dalle forze curde. Le dichiarazioni del MGK, presieduto dal Presidente della Repubblica Turca Erdoğan, si sono fatte molto dure, arrivando ad affermare che la Turchia “non permetterebbe mai la formazione di uno stato curdo lungo i propri confini meridionali”, ipotizzando la concretezza di un’invasione impellente da parte della Turchia in Siria. Tali affermazioni arrivano anche a margine delle accuse dello stesso Presidente Erdoğan nei confronti delle forze curde di aver perpetrato azioni di pulizia etnica nei confronti della popolazione araba e turcomanna di Tall Abyad. La stessa popolazione al quale lo stesso Erdoğan, tramite i fucili delle proprie truppe ed i gas delle proprie guardie, non aveva permesso l’attraversamento del confine durante gli scontri tra YPG/YPJ e Stato Islamico nei dintorni della città. Tale atto riprende il medesimo atteggiamento repressivo avuto nei confronti dei curdi di Kobanê nell’Ottobre dell’anno precedente, lasciando intendere una continuità d’intenti negli ultimi mesi.

Le dichiarazioni dell’MGK e la decisione di governo turco di prepararsi ad un’invasione della Siria, schierando un maggior numero di mezzi e truppe lungo il confine, sono arrivate lo stesso giorno in cui si è concluso l’attacco sferrato dallo Stato Islamico il 25 giugno a Kobanê .

Il 25 giugno, dopo l’esplosione di tre autobomba lungo il confine con la Turchia a Kobanê, circa un centinaio di combattenti appartenenti alle forze dello Stato Islamico, entrati in città prima che facesse giorno indossando divise delle YPG e dell’FSA, sferrano un feroce attacco rivolto soprattutto contro la popolazione civile. Dopo quattro giorni di battaglia, il 29 giugno finiscono i combattimenti nelle strade, ma appare subito chiaro, come afferma anche un portavoce delle YPG, che l’attacco dello Stato Islamico non aveva certo lo scopo di occupare e controllare la città di Kobanê o anche solo alcune zone di essa. Si trattava invece un attacco suicida collettivo con lo scopo di uccidere il maggior numero di civili. Infatti alla fine dell’attacco si contano 223 morti e 300 feriti tra i civili, uno dei più gravi massacri compiuti dallo Stato Islamico in Siria.

Sia le forze curde di Kobanê sia il governo siriano hanno affermato che le autobomba venivano dal territorio turco e che avevano quindi attraversato i valichi di frontiera controllati dallo stato turco. Inoltre Figen Yüksekdağ, cosegretaria dell’HDP, ha dichiarato che il governo turco ha supportato per anni lo Stato Islamico e il massacro è parte di questa politica di supporto.

Probabilmente il governo turco voleva che l’attacco a Kobanê servisse a dimostrare che le forze riunite attorno alle YPG/YPJ non erano capaci di controllare la città e soprattutto di proteggere i civili, e che potesse quindi rafforzare la presa di posizione dell’MGK riguardo alla “pulizia etnica” antiaraba a Tall Abyad contribuendo così a giustificare un eventuale intervento di terra in Siria o comunque l’invio di ulteriori truppe lungo il confine.

È ancora troppo presto forse per parlare di un cambio di strategia della Repubblica Turca nel conflitto, anche perché il fatto che dalle elezioni di inizio giugno ancora non sia stato insediato un nuovo governo e tuttora siano in atto le consultazioni per trovare una maggioranza, rende incerta la situazione politica interna alla Turchia. Sembra ad ogni modo che dopo la liberazione di Tall Abyad abbiano iniziato ad assumere un peso maggiore quegli elementi ai vertici dell’establishment turco che vogliono un intervento militare diretto in Siria contro la popolazione curda e le forme di organizzazione sociale che si sta dando in Rojava.

Le accuse rivolte dall’MGK e dallo stesso Presidente della Repubblica Erdoğan alle forze curde sono quindi da interpretarsi fondamentalmente come propaganda a sostegno della linea politica e militare che il governo turco conduce nel conflitto.

Tuttavia la giusta opera di demistificazione e la lotta contro la propaganda del governo turco non deve portarci ad ignorare o rifiutare la realtà della guerra. In questo conflitto, l’intervento diretto e indiretto delle principali potenze mondiali e regionali, che inviano armi e combattenti, bombardano e cercano di spartirsi il territorio e le sue risorse, porta ad una recrudescenza della violenza tipica della guerra imperialista. In questo contesto, anche per chi combatte per difendere una prospettiva alternativa al dominio imperialista e capitalista può essere facile cadere nella trappola della guerra, commettendo eccessi o comunque perdendo di vista il fine per il quale si lotta.

Ignorare i rischi che si presentano in una situazione di guerra come questa può portare ad una sconfitta non solo militare, ma anche e soprattutto politica. Una sconfitta politica può assumere anche la tragica forma dell’abbandono della prospettiva rivoluzionaria per ottenere una vittoria militare grazie al sostegno di quelle potenze interessate all’instaurazione di una forma di governo disponibile a non mettere in discussione gli interessi degli stati e del capitalismo globale nella regione. Questo, ancor più di una disfatta militare, costituirebbe una tragedia per la popolazione che nella Rojava sta cercando di darsi gli strumenti per un cambiamento sociale in senso rivoluzionario, perché bloccherebbe adesso e per gli anni a venire ogni prospettiva di reale liberazione sociale, ripristinando le vecchie condizioni di sfruttamento ed oppressione e creandone di nuove.

Per ora il protagonismo della popolazione nella sua pluralità, la presenza radicata di gruppi rivoluzionari, l’autodifesa popolare e la mancanza di un governo dotato di apparati repressivi hanno reso possibile l’inizio di un processo rivoluzionario.

Solo facendo leva su questi punti di forza è possibile vincere questa lotta sul piano politico, senza cedere ai ricatti delle potenze e senza cadere nelle trappole della guerra.

In questa prospettiva è fondamentale la questione della ricostruzione di Kobanê e della Rojava. Perché oltre al bisogno di aiuti immediati, di ricostruire infrastrutture, case ed ospedali, c’è anche bisogno di discutere di come dovrà essere la città, di come ricostruire la società, su quali basi. Ci sono chiaramente diverse posizioni e differenti progetti, da una parte ci sono speculatori che aspettano di fare l’affare del secolo, mentre dall’altra ci sono rivoluzionari che vogliono far sorgere dalle macerie una società libera dalla proprietà privata.

In questi mesi si sta avviando un’ampia campagna per la ricostruzione di Kobanê. Oltre all’appello internazionale lanciato dal KRB, il tavolo per la ricostruzione della città, vi sono campagne e progetti specifici portati avanti dalle forze politiche che hanno sostenuto fino ad oggi la resistenza.

Queste iniziative sono tutte orientate a dare alla ricostruzione un forte senso politico; i lavori infatti non saranno affidati alle multinazionali o ai grandi speculatori, ma sarà organizzata e gestita attraverso la partecipazione dei diretti interessati.

In questo contesto anche il movimento anarchico, in particolare il gruppo DAF (Azione Anarchica Rivoluzionaria) di Istanbul, radicato anche in Kurdistan, dà il proprio contributo specifico alla ricostruzione, nel senso della ricostruzione della vita, di una società nuova, libera, senza stati né classi.

Quanto sia importante la ricostruzione ed in particolare l’intervento dei gruppi rivoluzionari per sostenere il processo di trasformazione sociale in atto, è reso ancora più chiaro dalla ferocia con cui i militanti che si occupano dei progetti di ricostruzione vengono attaccati dal governo turco, dai suoi alleati e dai suoi sicari.

L’attentato esplosivo che ha ucciso i giovani militanti della SGDF a Suruç la mattina di lunedì 20 luglio è un colpo diretto ai gruppi rivoluzionari che sostengono la Rojava. Non è terrorismo indiscriminato ma un massacro mirato di militanti, che ha come scopo l’eliminazione fisica di giovani rivoluzionari e l’intimidazione nei confronti di tutte le altre forze che sostengono i progetti di ricostruzione. Le dichiarazioni di Erdoğan dopo l’attacco sono di fatto un’ulteriore minaccia di invasione della Rojava. Il Presidente della Repubblica Turca ha infatti affermato che l’attentato sarebbe la risposta alle recenti disposizioni di rafforzamento del controllo militare lungo il confine da parte dell’esercito turco.

La sera stessa della strage in molte città della Turchia si sono tenute manifestazioni, nella maggior parte dei casi la polizia ha attaccato i dimostranti e gli scontri si sono protratti nella notte.

Ad Istanbul migliaia di persone hanno marciato verso Taksim fino a quando la polizia non ha attaccato il corteo con lacrimogeni e proiettili di gomma. Ad Amed e Yüksekova ci sono stati durissimi scontri. A Suruç, dove la polizia era già intervenuta con i blindati subito dopo la strage, l’intervento repressivo contro i manifestanti nel tardo pomeriggio ha provocato numerosi feriti.

Dopo questi fatti è ancora più importante appoggiare la ricostruzione della città di Kobanê, sostenendo gli anarchici del DAF e tutte quelle forze che contribuiscono ad uno sviluppo del processo che in quella regione sta aprendo la strada alla rivoluzione sociale.

Giacomo Sini

Dario Antonelli

Posted in Anarchismo, Antifascismo, Antimilitarismo, Generale, Internazionale, Repressione.

Tagged with , , , , , , , , , , , , .


PRESIDIO PER SURUÇ h 19 in Terrazza Mascagni

STRAGE IN TURCHIA

LE BOMBE DI STATO FANNO 32 MORTI E 100 FERITI

Martedì 21 luglio

h 19:00 Terrazza Mascagni-Viale Italia

PRESIDIO per Suruç

Lunedì 20 luglio a Suruç, cittadina curda in territorio turco, un attentato esplosivo provoca una strage ad una conferenza stampa della Federazione delle Associazioni di Giovani Socialisti (SGDF).

Suruç si trova a pochi chilometri dal confine con il territorio siriano controllato dai curdi, vicino alla città di Kobanê, completamente distrutta dopo l’assedio dello Stato Islamico. I militanti della SGDF, che avrebbero dovuto partecipare a dei progetti di ricostruzione della città di Kobanê, si trovavano a Suruç perché questa cittadina è base per ogni attività di aiuto oltre il confine. Lo stato turco però aveva impedito domenica 19 il passaggio del confine ai militanti della SGDF, e la bomba esplode proprio durante la conferenza stampa organizzata per denunciare la repressione del governo turco.

Secondo i numeri ufficiali sono 32 le vittime della strage, sembra però che i morti siano già 50. La maggior parte sono giovani socialisti, ma vi sono anche due anarchici di 19 anni. Oltre 100 i feriti di cui molti gravemente.

Non si tratta di un atto di terrorismo indiscriminato ma di un massacro mirato che punta ad eliminare fisicamente giovani militanti così come ad intimidire quelle forze che sostengono la resistenza della Rojava (Kurdistan occidentale in territorio siriano) e in particolare la ricostruzione di Kobanê. La responsabilità della strage è del governo turco che in Siria foraggia lo Stato Islamico e nello stesso territorio turco supporta gruppi paramilitari fascisti e religiosi per eliminare ogni potenzialità rivoluzionaria in Rojava così come in Turchia.

Il governo turco attraverso i suoi sicari attacca chi lavora alla ricostruzione di Kobanê perché è attraverso la ricostruzione, che non serve solo a costruire strade e edifici ma anche a gettare le basi della nuova società libera che può avviarsi un processo rivoluzionario.

Scendiamo in piazza anche a Livorno. Partecipiamo alla manifestazione a Pisa di giovedì 23 luglio (ore 17 piazza vittorio emanuele – Pisa)

SOSTENIAMO LA RICOSTRUZIONE DI KOBANÊ

SOSTENIAMO LA RESISTENZA E LA RIVOLUZIONE IN ROJAVA

CON LE COMPAGNE E I COMPAGNI COLPITI DAL TERRORISMO DELLO STATO TURCO

Collettivo Anarchico Libertario

Communia Livorno

Federazione Anarchica Livornese

Partito Comunista dei Lavoratori

[il testo è aperto alle adesioni]

 

manif istanbul per suruc

Posted in Antifascismo, Antimilitarismo, Generale, Iniziative, Internazionale, Repressione.

Tagged with , , , , , , , , , , , .