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Il “Melo”: politicanti e istituzioni alimentano la guerra tra gli sfruttati

Comunicato della CdC della Federazione Anarchica Livornese

Il “Melo”: politicanti e istituzioni alimentano la guerra tra gli sfruttati.

Le recenti polemiche sorte attorno alla casa famiglia il Melo evidenziano la strumentalizzazione politica in chiave razzista e sessita della vicenda operata dalla Lega Nord e dall’estrema destra alla disperata ricerca di una visibilità politica sul territorio, e la volontà da parte della Prefettura di determinare un’emergenza sociale che scateni un clima di intolleranza.

Nella struttura per minori Il Melo, attualmente ospitante due madri con bambini, vengono inseriti, in spazi separati, cinque minorenni stranieri africani. Le madri presenti nella struttura, una delle quali di provata fede leghista come attestato dal suo profilo fb, danno il via ad una protesta contro l’inserimento dei cinque ragazzi, a loro dire minacciosamente vicini all’età adulta e potenziali molestatori sessuali. Le madri che protestano sono solo due, la cosa potrebbe essere risolta in modo rapido e sensato, eppure assume toni esasperati e a sostenere le madri in questione arriva Salvini in persona, roba che non si è vista né a Roma né a Treviso, dove la protesta ha riguardato interi quartieri.

Sulla vicenda vogliamo fare alcune considerazioni.

– La strumentalizzazione leghista è stata evidentissima ed ha riguardato anche aspetti che andavano oltre la solita gestione razzista delle problematiche di coesistenza abitativa. Non ci si è fermati a ribadire le presunte priorità degli italiani rispetto agli stranieri. Per le madri del Melo si è scelta una rappresentazione forte e quasi belluina del ruolo di madre, intesa come massima espressione della donna, secondo una visione sessista e fascista, si è addirittura tirato in ballo l’aborto, contrapponendo la maternità come unica scelta degna, si è alimentata la polemica su una questione che riguardava unicamente l’assegnazione di spazi, trasformandola in un’oscura e pruriginosa vicenda prefigurante possibili molestie sessuali, banalizzando, come si fa troppo spesso, la questione della violenza sulle donne e riducendola a pretesto.

– I cinque ragazzi sono minori soli, giunti in Italia da diversi mesi, quindi seguiti e conosciuti da altrettanto tempo, eppure le strutture a cui sono affidati non hanno sottolineato questo aspetto, né spiegato il loro percorso, alimentando di fatto attorno ad essi il fumus di persone alla soglia dell’età adulta o forse adulti non dichiarati, sconosciuti e appena giunti in Italia. In questo modo dei minori da proteggere sono stati esposti ad una campagna d’odio

– I cinque ragazzi erano ospitati finora nella struttura per minori “la Quercia” di piazza Mazzini. Il loro tresferimento risponde evidentemente ad una logica di razionalizzazione nella gestione delle strutture che va contestata, come si fa in tutti i casi di taglio del servizio, chiamando in causa l’amministrazione comunale, l’assessorato al sociale e l’istituzione dei servizi alla persona

Il trasferimento dei cinque ragazzi risponde chiaramente ad un’odiosa linea operativa delle Prefetture che vediamo applicata in tutta Italia, soprattutto in questo momento; le responsabilità, oltre che dei singoli prefetti, è evidentemente del monostro dell’interno e di tutto il governo: lo scopo è quella di operare scelte che creino tensione sociale alimentando razzismo, insofferenza e intolleranza, creando situazioni che possono portare problemi di gestione, e offrendo occasioni di visibilità e strumentalizzazione alla destra della peggiore specie.

La Commissione di Corripondenza della Federazione Anarchica Livornese, sicura di interpretare i sentimenti delle anarchice e degli anarchici livornese, esprime solidarietà a tutti coloro che sono esposti a campagne razziste e discriminatorie e ribadisce che nessuna situazione di emergenza sociale può essere sostenuta da chi crea l’emergenza e fa dell’ordine sociale, della difesa della famiglia tradizionale, della discriminazione e dell’odio la propria bandiera.

La Commissione di Corrispondenza

della Federazione Anarchica Livornese

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Turchia: Bombe di Stato contro la ricostruzione di Kobanê strage di giovani socialisti, uccisi anche due anarchici

questo articolo uscirà sul prossimo numero del settimanale anarchico Umanità Nova

 

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Turchia: Bombe di Stato contro la ricostruzione di Kobanê

strage di giovani socialisti, uccisi anche due anarchici

La mattina di lunedì 20 luglio a Suruç nel giardino del centro culturale Amara è esplosa una bomba durante la conferenza stampa dell’organizzazione turca Federazione delle Associazioni dei Giovani Socialisti (SGDF). Circa 30 persone sarebbero rimaste uccise nell’esplosione, oltre 100 giovani invece sarebbero feriti, di cui alcuni in gravi condizioni. Tra le vittime, oltre a numerosi giovani militanti socialisti, vi sono anche due compagni anarchici, entrambi di 19 anni. Evrim Deniz Erol e Alper Sapan, quest’ultimo faceva parte del gruppo Iniziativa Anarchica di Eskişehir ed era obiettore di coscienza al servizio militare.

Suruç è una cittadina a maggioranza curda in territororio statale turco, che si trova a ridosso del confine con la Siria ed è base per tutte le azioni di solidarietà rivolte verso Kobanê, che dista solo pochi chilometri. Per questo circa 300 membri del SGDF si trovavano presso il centro culturale per una conferenza stampa in cui stavano denunciando la repressione attuata dal governo turco allo scopo di impedire che i giovani militanti passassero il confine per lavorare a progetti di ricostruzione della città. Quasi contemporaneamente un altro attentato a Kobanê, vicino al valico di frontiera di Mürşitpınar, verso Suruç, faceva ulteriori vittime tra le forze curde di autodifesa. L’attentato al centro culturale Amara viene per ora attribuito allo Stato Islamico, in ogni caso è chiaro che l’attacco risponde agli interessi di coloro che vogliono bloccare in ogni modo qualsiasi possibilità di cambiamento sociale rivoluzionario nella regione, a partire dal governo turco e dai suoi sicari. Per comprendere il contesto in cui è avvenuto questo attacco terribile, cerchiamo di ripercorrere gli eventi degli ultimi mesi.

Dopo le note vicende dell’assedio da parte delle milizie dello Stato Islamico alla città di Kobanê nell’autunno-inverno dello scorso anno, la situazione in Rojava è andata progressivamente modificandosi a seguito della liberazione della città, avvenuta nel Gennaio del 2015 per mano delle milizie curde YPG (Unità di Protezione del Popolo) e YPJ (Unità di Protezione delle Donne, milizia femminile) e delle altre forze che combattono al loro fianco.

Il Kurdistan in zona siriana (Rojava) è diviso in tre diversi cantoni. Nella zona nord orientale della Siria si trova il cantone di Cizire, quello geograficamente più grande e popolato. A nord ovest vi è invece il cantone di Efrin. Tra i due cantoni vi è quello di Kobanê. I tre cantoni sino al Giugno del 2015 hanno avuto degli ingenti problemi di collegamento, data la presenza di truppe dello Stato Islamico e di altri gruppi che bloccavano ogni possibilità di scambio tra le regioni.

I combattimenti nelle zone intermedie tra i tre diversi cantoni si sono difatti susseguiti ininterrottamente dal 2013 sino a oggi. Oltre ciò, non minore importanza ha avuto la chiusura ufficiale, predisposta dalla Turchia, di svariati valichi di confine con i territori controllati dalle forze curde. Azione che ha isolato ulteriormente le zone sotto il controllo dei curdi e che ha impedito ed impedisce anche oggi l’arrivo di qualsiasi assistenza ai territori martoriati dai continui attacchi dello Stato Islamico, bloccando a tempo indeterminato anche il flusso regolare di profughi in fuga. Va ricordato che nel periodo in cui le forze curde ancora non controllavano completamente alcune delle zone settentrionali della Siria, che allora erano nella maggior parte dei casi in mano a forze legate a gruppi islamisti che si sarebbero uniti successivamente allo Stato Islamico, lo stato turco tenne alcuni valichi di frontiera aperti a “tempi alterni”. Tale azione venne giustificata dall’esigenza di mantenere una continuità commerciale con il territorio siriano, aprendo e chiudendo, svariate volte e con violenza, l’accesso in Turchia ai profughi in fuga dagli scontri violentissimi tra varie fazioni. Attraverso questi valichi di frontiera sono transitati nel tempo rifornimenti per Al-Nusra e lo Stato Islamico. Non si è certo trattato di semplice negligenza nei controlli di frontiera da parte della Turchia, dal momento che il governo turco ha in numerose occasioni dimostrato il proprio sostegno a forze controrivoluzionarie come lo Stato Islamico sia in Siria sia all’interno del territorio turco, utilizzando formazioni paramilitari fasciste e religiose nella repressione dei rivoluzionari e dei militanti curdi.

L’atteggiamento del governo turco è sempre stato chiaro. Il confine sotto il controllo turco tra il paese anatolico e la Siria apre e chiude le sue porte in base all’utilità politica della situazione interna alla Turchia ed a quella del nord della Siria. Da un lato l’apertura e l’accoglienza apparente verso i profughi in determinati periodi dell’anno, dall’altra il blocco e la repressione violenta con la volontà d’interrompere ogni collegamento tra le due sponde quando la situazione politica nei due territori minaccia la stabilità politica del territorio turco. Al contempo i combattenti dello Stato Islamico attraversano tranquillamente il confine sotto gli occhi dei militari turchi. Un esempio lampante di tali politiche lo si è avuto con la repressione violenta esercitata dall’esercito turco e la Jandarma (polizia militare turca) durante l’assedio da parte dello Stato Islamico a Kobanê del 2014. Allora migliaia di persone in fuga dalla città, soprattutto curde, vennero duramente attaccate dalle autorità turche che ne stavano impedendo il passaggio. Fu di molti feriti e qualche morto il bilancio di quelle settimane.

Nel Giugno di questo anno, le YPG e le YPJ, hanno condotto un’operazione per tentare di riunificare il cantone di Kobane a quello di Cizire, cercando di liberare dallo Stato Islamico una delle città più importanti della zona settentrionale della Siria, Tall Abyad e la zona circostante.

La città di Tall Abyad, dopo la riconquista da parte delle YPG/YPJ della città di Kobanê, ha assunto per lo Stato Islamico un ruolo strategico e politico centrale. Tall Abyad difatti, conquistata dallo Stato Islamico nel Giugno del 2014, è rimasta sino a qualche mese fa, l’unico valico di frontiera nel nord est della Siria sotto il controllo dello Stato Islamico, permettendo ad esse di ricevere un regolare flusso di aiuti e combattenti provenienti dal territorio turco; il tutto come sempre sotto l’occhio accondiscendente dello stato turco.

Durante tutto l’arco del 2014, le milizie dello Stato Islamico hanno condotto nella zona un’ingente operazione di riassestamento demografico, minacciando di morte i curdi dell’area mediante un’operazione di allontanamento forzato dall’area. Durante l’estate del 2014 sono state molte le famiglie curde, turcomanne ed anche arabe che hanno abbandonato la zona per paura di ripercussioni.

Nel giugno scorso le operazioni delle YPG e delle YPJ hanno portato nel giro di qualche giorno alla liberazione della città di Tall Abyad. Durante lo stesso mese, in Turchia, si sono tenute le elezioni per rinnovare il parlamento ed eleggere il primo ministro della Repubblica, in un contesto politico nel paese fortemente conflittuale. Il partito di Erdoğan non è riuscito ad ottenere la maggioranza, mentre il partito a base curda HDP (Partito Democratico dei Popoli) ha conseguito più del 13% dei voti, entrando di diritto nel parlamento della Repubblica Turca. Questo è avvenuto nonostante il blocco di potere al governo, guidato dal partito conservatore-religioso AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo), abbia tentato con ogni mezzo di ostacolare l’opposizione. Le elezioni infatti furono insanguinate da aggressioni contro attivisti curdi e dei partiti di sinistra, attacchi che culminarono con le bombe di stato ad Amed (Diyarbakir) il 5 giugno che provocarono 4 morti durante un comizio dell’HDP. L’esito delle elezioni, accompagnato dalle continue vittorie sul campo delle forze curde in territorio siriano e da un progressivo radicamento delle forze della sinistra rivoluzionaria in tutto il paese anatolico, hanno condotto il governo di Ankara ad aumentare la violenza della repressione interna.

Ankara non ha digerito la doppia sconfitta ed ha dichiarato, durante un incontro del Consiglio Nazionale di Sicurezza Turco (MGK), la decisione di implementare la sua presenza lungo il confine turco-siriano, in particolar modo in quei territori confinanti con le zone gestite dalle forze curde. Le dichiarazioni del MGK, presieduto dal Presidente della Repubblica Turca Erdoğan, si sono fatte molto dure, arrivando ad affermare che la Turchia “non permetterebbe mai la formazione di uno stato curdo lungo i propri confini meridionali”, ipotizzando la concretezza di un’invasione impellente da parte della Turchia in Siria. Tali affermazioni arrivano anche a margine delle accuse dello stesso Presidente Erdoğan nei confronti delle forze curde di aver perpetrato azioni di pulizia etnica nei confronti della popolazione araba e turcomanna di Tall Abyad. La stessa popolazione al quale lo stesso Erdoğan, tramite i fucili delle proprie truppe ed i gas delle proprie guardie, non aveva permesso l’attraversamento del confine durante gli scontri tra YPG/YPJ e Stato Islamico nei dintorni della città. Tale atto riprende il medesimo atteggiamento repressivo avuto nei confronti dei curdi di Kobanê nell’Ottobre dell’anno precedente, lasciando intendere una continuità d’intenti negli ultimi mesi.

Le dichiarazioni dell’MGK e la decisione di governo turco di prepararsi ad un’invasione della Siria, schierando un maggior numero di mezzi e truppe lungo il confine, sono arrivate lo stesso giorno in cui si è concluso l’attacco sferrato dallo Stato Islamico il 25 giugno a Kobanê .

Il 25 giugno, dopo l’esplosione di tre autobomba lungo il confine con la Turchia a Kobanê, circa un centinaio di combattenti appartenenti alle forze dello Stato Islamico, entrati in città prima che facesse giorno indossando divise delle YPG e dell’FSA, sferrano un feroce attacco rivolto soprattutto contro la popolazione civile. Dopo quattro giorni di battaglia, il 29 giugno finiscono i combattimenti nelle strade, ma appare subito chiaro, come afferma anche un portavoce delle YPG, che l’attacco dello Stato Islamico non aveva certo lo scopo di occupare e controllare la città di Kobanê o anche solo alcune zone di essa. Si trattava invece un attacco suicida collettivo con lo scopo di uccidere il maggior numero di civili. Infatti alla fine dell’attacco si contano 223 morti e 300 feriti tra i civili, uno dei più gravi massacri compiuti dallo Stato Islamico in Siria.

Sia le forze curde di Kobanê sia il governo siriano hanno affermato che le autobomba venivano dal territorio turco e che avevano quindi attraversato i valichi di frontiera controllati dallo stato turco. Inoltre Figen Yüksekdağ, cosegretaria dell’HDP, ha dichiarato che il governo turco ha supportato per anni lo Stato Islamico e il massacro è parte di questa politica di supporto.

Probabilmente il governo turco voleva che l’attacco a Kobanê servisse a dimostrare che le forze riunite attorno alle YPG/YPJ non erano capaci di controllare la città e soprattutto di proteggere i civili, e che potesse quindi rafforzare la presa di posizione dell’MGK riguardo alla “pulizia etnica” antiaraba a Tall Abyad contribuendo così a giustificare un eventuale intervento di terra in Siria o comunque l’invio di ulteriori truppe lungo il confine.

È ancora troppo presto forse per parlare di un cambio di strategia della Repubblica Turca nel conflitto, anche perché il fatto che dalle elezioni di inizio giugno ancora non sia stato insediato un nuovo governo e tuttora siano in atto le consultazioni per trovare una maggioranza, rende incerta la situazione politica interna alla Turchia. Sembra ad ogni modo che dopo la liberazione di Tall Abyad abbiano iniziato ad assumere un peso maggiore quegli elementi ai vertici dell’establishment turco che vogliono un intervento militare diretto in Siria contro la popolazione curda e le forme di organizzazione sociale che si sta dando in Rojava.

Le accuse rivolte dall’MGK e dallo stesso Presidente della Repubblica Erdoğan alle forze curde sono quindi da interpretarsi fondamentalmente come propaganda a sostegno della linea politica e militare che il governo turco conduce nel conflitto.

Tuttavia la giusta opera di demistificazione e la lotta contro la propaganda del governo turco non deve portarci ad ignorare o rifiutare la realtà della guerra. In questo conflitto, l’intervento diretto e indiretto delle principali potenze mondiali e regionali, che inviano armi e combattenti, bombardano e cercano di spartirsi il territorio e le sue risorse, porta ad una recrudescenza della violenza tipica della guerra imperialista. In questo contesto, anche per chi combatte per difendere una prospettiva alternativa al dominio imperialista e capitalista può essere facile cadere nella trappola della guerra, commettendo eccessi o comunque perdendo di vista il fine per il quale si lotta.

Ignorare i rischi che si presentano in una situazione di guerra come questa può portare ad una sconfitta non solo militare, ma anche e soprattutto politica. Una sconfitta politica può assumere anche la tragica forma dell’abbandono della prospettiva rivoluzionaria per ottenere una vittoria militare grazie al sostegno di quelle potenze interessate all’instaurazione di una forma di governo disponibile a non mettere in discussione gli interessi degli stati e del capitalismo globale nella regione. Questo, ancor più di una disfatta militare, costituirebbe una tragedia per la popolazione che nella Rojava sta cercando di darsi gli strumenti per un cambiamento sociale in senso rivoluzionario, perché bloccherebbe adesso e per gli anni a venire ogni prospettiva di reale liberazione sociale, ripristinando le vecchie condizioni di sfruttamento ed oppressione e creandone di nuove.

Per ora il protagonismo della popolazione nella sua pluralità, la presenza radicata di gruppi rivoluzionari, l’autodifesa popolare e la mancanza di un governo dotato di apparati repressivi hanno reso possibile l’inizio di un processo rivoluzionario.

Solo facendo leva su questi punti di forza è possibile vincere questa lotta sul piano politico, senza cedere ai ricatti delle potenze e senza cadere nelle trappole della guerra.

In questa prospettiva è fondamentale la questione della ricostruzione di Kobanê e della Rojava. Perché oltre al bisogno di aiuti immediati, di ricostruire infrastrutture, case ed ospedali, c’è anche bisogno di discutere di come dovrà essere la città, di come ricostruire la società, su quali basi. Ci sono chiaramente diverse posizioni e differenti progetti, da una parte ci sono speculatori che aspettano di fare l’affare del secolo, mentre dall’altra ci sono rivoluzionari che vogliono far sorgere dalle macerie una società libera dalla proprietà privata.

In questi mesi si sta avviando un’ampia campagna per la ricostruzione di Kobanê. Oltre all’appello internazionale lanciato dal KRB, il tavolo per la ricostruzione della città, vi sono campagne e progetti specifici portati avanti dalle forze politiche che hanno sostenuto fino ad oggi la resistenza.

Queste iniziative sono tutte orientate a dare alla ricostruzione un forte senso politico; i lavori infatti non saranno affidati alle multinazionali o ai grandi speculatori, ma sarà organizzata e gestita attraverso la partecipazione dei diretti interessati.

In questo contesto anche il movimento anarchico, in particolare il gruppo DAF (Azione Anarchica Rivoluzionaria) di Istanbul, radicato anche in Kurdistan, dà il proprio contributo specifico alla ricostruzione, nel senso della ricostruzione della vita, di una società nuova, libera, senza stati né classi.

Quanto sia importante la ricostruzione ed in particolare l’intervento dei gruppi rivoluzionari per sostenere il processo di trasformazione sociale in atto, è reso ancora più chiaro dalla ferocia con cui i militanti che si occupano dei progetti di ricostruzione vengono attaccati dal governo turco, dai suoi alleati e dai suoi sicari.

L’attentato esplosivo che ha ucciso i giovani militanti della SGDF a Suruç la mattina di lunedì 20 luglio è un colpo diretto ai gruppi rivoluzionari che sostengono la Rojava. Non è terrorismo indiscriminato ma un massacro mirato di militanti, che ha come scopo l’eliminazione fisica di giovani rivoluzionari e l’intimidazione nei confronti di tutte le altre forze che sostengono i progetti di ricostruzione. Le dichiarazioni di Erdoğan dopo l’attacco sono di fatto un’ulteriore minaccia di invasione della Rojava. Il Presidente della Repubblica Turca ha infatti affermato che l’attentato sarebbe la risposta alle recenti disposizioni di rafforzamento del controllo militare lungo il confine da parte dell’esercito turco.

La sera stessa della strage in molte città della Turchia si sono tenute manifestazioni, nella maggior parte dei casi la polizia ha attaccato i dimostranti e gli scontri si sono protratti nella notte.

Ad Istanbul migliaia di persone hanno marciato verso Taksim fino a quando la polizia non ha attaccato il corteo con lacrimogeni e proiettili di gomma. Ad Amed e Yüksekova ci sono stati durissimi scontri. A Suruç, dove la polizia era già intervenuta con i blindati subito dopo la strage, l’intervento repressivo contro i manifestanti nel tardo pomeriggio ha provocato numerosi feriti.

Dopo questi fatti è ancora più importante appoggiare la ricostruzione della città di Kobanê, sostenendo gli anarchici del DAF e tutte quelle forze che contribuiscono ad uno sviluppo del processo che in quella regione sta aprendo la strada alla rivoluzione sociale.

Giacomo Sini

Dario Antonelli

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PRESIDIO PER SURUÇ h 19 in Terrazza Mascagni

STRAGE IN TURCHIA

LE BOMBE DI STATO FANNO 32 MORTI E 100 FERITI

Martedì 21 luglio

h 19:00 Terrazza Mascagni-Viale Italia

PRESIDIO per Suruç

Lunedì 20 luglio a Suruç, cittadina curda in territorio turco, un attentato esplosivo provoca una strage ad una conferenza stampa della Federazione delle Associazioni di Giovani Socialisti (SGDF).

Suruç si trova a pochi chilometri dal confine con il territorio siriano controllato dai curdi, vicino alla città di Kobanê, completamente distrutta dopo l’assedio dello Stato Islamico. I militanti della SGDF, che avrebbero dovuto partecipare a dei progetti di ricostruzione della città di Kobanê, si trovavano a Suruç perché questa cittadina è base per ogni attività di aiuto oltre il confine. Lo stato turco però aveva impedito domenica 19 il passaggio del confine ai militanti della SGDF, e la bomba esplode proprio durante la conferenza stampa organizzata per denunciare la repressione del governo turco.

Secondo i numeri ufficiali sono 32 le vittime della strage, sembra però che i morti siano già 50. La maggior parte sono giovani socialisti, ma vi sono anche due anarchici di 19 anni. Oltre 100 i feriti di cui molti gravemente.

Non si tratta di un atto di terrorismo indiscriminato ma di un massacro mirato che punta ad eliminare fisicamente giovani militanti così come ad intimidire quelle forze che sostengono la resistenza della Rojava (Kurdistan occidentale in territorio siriano) e in particolare la ricostruzione di Kobanê. La responsabilità della strage è del governo turco che in Siria foraggia lo Stato Islamico e nello stesso territorio turco supporta gruppi paramilitari fascisti e religiosi per eliminare ogni potenzialità rivoluzionaria in Rojava così come in Turchia.

Il governo turco attraverso i suoi sicari attacca chi lavora alla ricostruzione di Kobanê perché è attraverso la ricostruzione, che non serve solo a costruire strade e edifici ma anche a gettare le basi della nuova società libera che può avviarsi un processo rivoluzionario.

Scendiamo in piazza anche a Livorno. Partecipiamo alla manifestazione a Pisa di giovedì 23 luglio (ore 17 piazza vittorio emanuele – Pisa)

SOSTENIAMO LA RICOSTRUZIONE DI KOBANÊ

SOSTENIAMO LA RESISTENZA E LA RIVOLUZIONE IN ROJAVA

CON LE COMPAGNE E I COMPAGNI COLPITI DAL TERRORISMO DELLO STATO TURCO

Collettivo Anarchico Libertario

Communia Livorno

Federazione Anarchica Livornese

Partito Comunista dei Lavoratori

[il testo è aperto alle adesioni]

 

manif istanbul per suruc

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Turchia: Bombe di Stato e elezioni

questo articolo sarà pubblicato su Umanità Nova

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Turchia: Bombe di Stato e elezioni

Lo scorso 5 giugno a Diyarbakir (Amed in lingua curda), la città principale del Kurdistan in territorio statale turco, un grave attentato esplosivo ha provocato morti e feriti durante un comizio elettorale del Partito Democratico dei Popoli (HDP) che sostiene i diritti del popolo curdo.
Due bombe piazzate rispettivamente in un cestino dell’immondizia e vicino alla cabina di un trasformatore elettrico sono esplose nella piazza gremita di sostenitori dell’HDP, facendo 4 morti e 243 feriti di cui alcuni molto gravi. Gli ordigni erano fatti per uccidere, erano infatti pieni di sfere di metallo che al momento dell’esplosione hanno avuto un effetto devastante. Subito dopo le esplosioni è intervenuta la polizia con mezzi blindati e idranti per attaccare i manifestanti, durante il violento intervento della polizia sono stati colpiti anche alcuni che erano stati feriti nell’esplosione mentre i soccorritori venivano bersagliati con i lacrimogeni. La responsabilità, anche materiale, dell’attentato è da attribuire allo Stato e alla polizia. Infatti la polizia aveva comunicato agli ospedali di prepararsi a ricevere morti e aveva dato indicazioni affinché un liceo islamico che si affaccia sulla piazza in cui è avvenuto l’attentato fosse evacuato attraverso l’ingresso posto su un’altra strada. Inoltre dopo l’attentato un mezzo dell’HDP che stava raggiungendo l’ospedale Veni Vedi di Diyarbakir dove erano stati condotti alcuni feriti, è stato colpito da nove proiettili sparati dalla polizia proprio di fronte alla struttura sanitaria, per fortuna in questo caso non ci sono state vittime. Questa strage di Stato aveva lo scopo di terrorizzare la popolazione e di provocare uno stato d’emergenza che avrebbe impedito lo svolgimento delle elezioni. La strage di Diyarbakir è solo l’atto di violenza più brutale degli ultimi mesi, nel corso della campagna elettorale infatti la repressione della polizia è aumentata e i gruppi fascisti e paramilitari, che negli ultimi anni avevano moderato la propria violenza, sono tornati ad attaccare anche con armi i militati di sinistra e rivoluzionari, ma soprattutto i sostenitori dell’HDP.

In un contesto di forte tensione, domenica 7 giugno si sono tenute in Turchia le elezioni legislative. Già da molte settimane questo voto veniva annunciato come “storico” per la possibilità per l’HDP di entrare in parlamento, e perché determinante per la prosecuzione del progetto di riforma della costituzione portato avanti dal Presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdoğan e dal suo Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) fino ad oggi al governo. Nel momento in cui scriviamo, ad un giorno dalle consultazioni, l’unica certezza sembra per adesso costitutita dagli esiti del voto, anche se non ancora ufficializzati dal Consiglio Elettorale Supremo (YSK). I risultati delle elezioni hanno segnato un brusco arresto nell’ascesa dell’AKP e quindi dello stesso Erdoğan, il partito conservatore religioso ha infatti raggiunto solo il 40,93% dei consensi, registrando un forte calo rispetto alle precedenti elezioni legislative del 2011 in cui aveva raggiunto il 49,83%. Il Partito Popolare Repubblicano (CHP), erede del nazionalismo kemalista, che rappresenta un centro-sinistra autoritario e laico, resta più o meno stabile rispetto alle elezioni precedenti, attestandosi attorno al 25%. Il Partito del Movimento Nazionalista (MHP), ultranazionalista e fascista, è cresciuto sensibilmente passando dal 13,01% del 2011 al 16, 34%. L’HDP è riuscito a superare la soglia di sbarramento del 10%, entrando per la prima volta in parlamento con il 13,15% dei voti. L’affluenza alle urne è stata dell’86,49%, più alta di quella registrata per le elezioni legislative del 2011, quando andarono a votare l’83,16% degli elettori. Dal rinnovo del parlamento turco non emerge quindi una maggioranza di governo, ed anche il maggior partito, l’AKP, potrà governare solo in coalizione con altri partiti.

Per molti questo risultato, segnato dall’arretramento dell’AKP, già costituisce una vittoria, e l’ingresso dell’HDP in parlamento viene definito da alcuni come una “rivoluzione”. L’HDP in effetti nasce con l’intento di riunire i partiti rivoluzionari e le associazioni democratiche sia turchi, sia curdi, sia di altre minoranze, attorno alla lotta del popolo curdo. Per questo durante il periodo pre elettorale anche alcuni partiti rivoluzionari hanno dato indicazione di votare per l’HDP, pure alcune personalità intellettuali che si definiscono anarchiche hanno dichiarato che avrebbero votato per quel partito. Il fatto che il parlamentarismo non può essere considerato un mezzo per la rivoluzione, e la componente di borghesia curda presente nell’HDP mostrano la contedditorietà di queste posizioni. Il movimento anarchico turco ha invece avuto di fronte alle elezioni una posizione chiara e coerente. Il gruppo Azione Anarchica Rivoluzionaria (DAF) di Istanbul ha mantenuto una posizione antielettorale ed è restato al fianco dei lavoratori e di tutti gli oppressi, in particolare del popolo curdo che in questi mesi ha subito ancora di più la violenza assassina dello Stato.

Certo non può essere ignorato il rilievo storico dell’ingresso di un partito come l’HDP nel parlamento turco. Ma è chiaro che questo risultato elettorale registra una situazione politica e sociale che si è sviluppata fuori dal parlamento, in cui lo Stato spesso è intervenuto violando le sue stesse leggi. Il movimento nato da Gezi Park represso con il terrore dal governo; la lotta nei territori curdi contro le basi militari e lo sviluppo in Turchia di un movimento di solidarietà con la resistenza e la rivoluzione della Rojava; la strage della miniera a Soma e le lotte operaie degli ultimi mesi. Sono lotte che anche quando si sono limitate a chiedere piccoli miglioramenti interni al sistema, si sono scontrate con la repressione violenta dello Stato. Sono tutti processi che hanno indebolito il consenso nei confronti del governo e che hanno spesso portato i lavoratori e il popolo a scontrarsi con il terrore di Stato imposto dal governo, suscitando una profonda volontà di cambiamento. Ma la strage di Diyarbakir ci mostra come lo Stato sia disposto ad utilizzare ogni mezzo per fermare questa volontà di cambiamento, non c’è legalità e non c’è pietà quando le strutture del potere e i privilegi acquisiti vengono messi seriamente in discussione. I risultati elettorali quindi, pur testimoniando il consenso nei confronti dei diversi partiti di una larga maggioranza della popolazione, fotografano una situazione politica che è frutto di un processo che non avrà soluzione attraverso le vie parlamentari, attraverso la costituzione di un nuovo governo o la promulgazione di nuove leggi, perché la posta in gioco è troppo alta e il conflitto scatenato dal potere e dal privilegio contro la volontà di libertà e giustizia si combatte al di fuori delle regole della democrazia parlamentare. Questo processo potrà trovare soluzione solo attraverso delle reali conquiste sociali, che saranno possibili unicamente con l’abbattimento di quel gigantesco apparato militare-repressivo che in Turchia è sempre stato un micidiale strumento, spesso difficilmente controllabile, di repressione e sopraffazione, prima per i governi “laici” e poi per i governi “religiosi”.

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A due anni da Gezi Park, la rivolta non è finita

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A due anni da Gezi Park, la rivolta non è finita

Due anni fa iniziava in Turchia il movimento antigovernativo passato ormai alla storia come “rivolta di Gezi Park”, dal nome del parco nel centro della città di Istanbul che fu l’epicentro della protesta. Il 31 maggio del 2013, all’alba, le poche decine di manifestanti che avevano occupato il parco da due giorni per protestare contro un progetto di costruzione che avrebbe distrutto l’intera area verde, vengono sgomberati con la violenza dalla polizia che, accompagnata dalle ruspe, fa largo uso di lacrimogeni e idranti. Questa brutale aggressione poliziesca scatenerà una reazione di massa, una vera e propria rivolta, con manifestazioni in tutta la Turchia per oltre due settimane, dando uno sbocco sia alla rabbia contro la brutalità e l’arroganza della polizia, sia al malcontento contro le politiche del governo conservatore-religioso dell’AKP.

La rivolta del 2013 ha costituito un punto di svolta per la storia della Turchia.
Una nuova generazione di giovani ha trovato nel movimento di protesta spazi di partecipazione e di azione diretta, questo è accaduto sia nei grandi centri come Istanbul, Ankara e Izmir, sia nelle città della provincia. Il movimento ha portato nel dibattito pubblico temi forti come l’ecologia, la democrazia radicale, la questione lgbt; temi maturati negli anni precedenti in Turchia grazie soprattutto al contributo del movimento anarchico e che sono stati cardini del movimento di Gezi Park.
Il movimento inoltre ha creato nuovi equilibri tra le diverse forze di opposizione al governo, ridisegnando di fatto il complesso delle relazioni tra partiti, gruppi e movimenti, creando nuovi obiettivi comuni attorno ai quali aggregare le forze e creando nuove discriminanti politiche. In effetti il movimento nato a Gezi ha visto la partecipazione di componenti assai diverse tra loro: organizzazioni sindacali, ordini professionali, associazioni della società civile, gruppi e partiti della sinistra rivoluzionaria e radicale, gruppi anarchici e organizzazioni studentesche, partiti parlamentari di matrici anche molto diverse, come ad esempio i nazionalisti turchi kemalisti del CHP ed il partito HDP che sostiene i diritti dei curdi.

Negli articoli scritti nei giorni della rivolta e nelle analisi immediatamente successive alle settimane segnate dalle proteste più dure, molti indicavano due grossi limiti del movimento di Gezi, l’assenza della classe operaia e l’assenza dei curdi dalle proteste, bollandolo quasi come un semplice movimento giovanile di contestazione.
Questa lettura era in gran parte superficiale.

Se da una parte è vero che molti dei giovani che occupavano i parchi nel centro di Istanbul e Ankara fossero appartenenti alla classe media o studenti, non può essere negata la complessità della composizione sociale del movimento. La protesta infatti era radicata anche nei principali quartieri proletari di Istanbul, da cui partivano imponenti cortei per raggiungere il centro, che la polizia cercava di bloccare con ogni mezzo. È vero che i lavoratori non hanno partecipato come classe organizzata a questo movimento, anche perché possono farlo solo attraverso lo sciopero. Lo sciopero è ammesso in Turchia solo per motivi vertenziali, non è legalmente possibile lo sciopero generale, tantomeno di carattere politico. L’unico sciopero di supporto alle proteste si è avuto nel settore pubblico, in cui è ammesso lo sciopero “di solidarietà”. Certo è un limite il fatto che le organizzazioni sindacali abbiano scelto di restare nei paletti imposti dalla legge, ma va considerato che in un contesto simile uno sciopero illegale avrebbe assunto probabilente carattere insurrezionale.

Riguardo a quanto è stato scritto sull’assenza dei curdi dalle proteste si può dire che questo è vero solo in parte. Se da un lato è vero che nelle città del Kurdistan in territorio statale turco le manifestazioni sono state poche e con partecipazione scarsa, vanno al contempo ricordati i grandi numeri della diaspora curda interna alla Turchia e la partecipazione attiva del HDP alle proteste. La rivolta di massa ha visto infatti il parziale coinvolgimento dei milioni curdi che vivono nelle regioni non tradizionalmente curde della Turchia, e che in particolare ad Istanbul, Ankara, Izmir, abitano nei quartieri proletari delle metropoli e sono tra i lavoratori che subiscono maggiori condizioni di sfruttamento. Se gran parte del movimento curdo organizzato ha in effetti mantenuto inizialmente una posizione di tiepido appoggio alle proteste, probabilmente a causa della trattativa per il processo di pace, all’epoca ancora aperta tra i servizi turchi del MIT e d il leader incarcerato del PKK Abdullah Ocalan, è stato invece chiaro l’appoggio del partito HDP, nato nel 2012 per riunire forze politiche e sociali radicali sia turche che curde in appoggio al popolo curdo, che ha partecipato attivamente alle diverse fasi della protesta, soprattutto ad Istanbul.

Certo il movimento del 2013 presentava grossi limiti, ma non era solo espressione di una rivolta generazionale, si trattava invece del primo cortocircuito delle contraddizioni generate dal regime politico ed economico instaurato dall’AKP di Recep Tayyip Erdoğan.

In questi due anni infatti le premesse date dalla rivolta del 2013 si sono sviluppate, superando in parte i limiti iniziali, attraverso passaggi che proviamo a ricostruire:
Il fallimento del tentativo governativo di pacificare il Primo Maggio; le forti proteste dopo strage di Soma nel maggio 2014 in cui morirono oltre 300 minatori; il riaccendersi della conflittualità operaia tra la fine del 2014 e i primi mesi del 2015, che ha raggiunto il culmine con gli scioperi dei metalmeccanici di Bursa lo scorso maggio, caratterizzata da agitazioni e scioperi per aumenti salariali, spesso entrando in aperto contrasto con Turk-İş o comunque con le organizzazioni sindacali più vicine agli interessi padronali
Le dure proteste contro l’installazione di nuove postazioni militari nelle regioni curde, in cui sono stati uccisi alcuni giovanidai proiettili della Jandarma (polizia militare); il fallimento del processo di pace tra lo Stato turco ed il PKK; lo sviluppo di un processo rivoluzionario nella Rojava, il Kurdistan in territorio statale siriano, che può estendersi al di là dei confini imposti dagli stati, coinvolgendo anche regioni dello stato turco; l’ampio movimento di solidarietà con la resistenza curda assediata a Kobanê; l’insurrezione dei primi di ottobre del 2014 contro l’appoggio del governo turco alle truppe dello Stato Islamico in Rojava.

Il secondo anniversario di Gezi Park inoltre assume un forte significato in un contesto di dura tensione politica causata dall’inasprirsi della violenza repressiva della polizia e, con l’approssimarsi delle elezioni legislative del 7 giugno, da un considerevole aumento degli attacchi da parte di membri del partito di governo AKP, di sicari o gruppi fascisti contro sedi e attivisti del HDP.

La rivolta non è finita, per questo lo scorso 31 maggio il governo è tornato ancora una volta a sospendere i trasporti pubblici ad Istanbul e a chiudere tutta l’area vicina a Gezi Park con uno schieramento imponente di agenti e mezzi della polizia per impedire che le manifestazioni si avvicinassero al parco.
La rivolta del 2013 ha quindi aperto una fase che, ben lontana dall’essersi conclusa, forse giunge a maturazione proprio in questi mesi.

DA

Articolo pubblicato su Umanità Nova

A Livorno puoi acquistare il settimanale anarchico Umanità Nova presso le edicole di Via Garibaldi 7, Piazza Damiano Chiesa, di Piazza Grande (angolo Bar Sole) e di Piazza G. Micheli (lato 4 Mori), presso l’edicola Dharma Viale di Antignano 110, la Libreria Belforte in Via Roma 69, il bar Dolcenera all’angolo tra Via della Madonna e Viale degli Avvalorati e presso la sede della Federazione Anarchica Livornese in Via degli Asili 33 (apertura ogni giovedì dalle 18 alle 20)

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Elezioni regionali: renzi, ora si viene!

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La tabella mostra i risultati elettorali, divisi per regione, dei due più importanti fenomeni delle ultime elezioni. Entrambe le fomazioni si sono proposte esplicitamente per raccogliere il malcontento provocato dalle politiche dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni. Il risultato della Lega Nord è calcolato rispetto alle precedenti regionali (2010), e per le regioni in cui è possibile fare un raffornto. Particolarmente significativo il dato del Veneto, dove la Lega Nord ha perso quasi quattrocentosessantamila voti. Il raffronto, per il M5S, è con le elezioni per la camera dei deputati (nelle stesse circoscrizioni) del 2013. Questi dati testimoniano che l’operazione di convogliare il malcontento popolare nelle liste dell’opposizione è fallito, anzi si può dire che questo malcontento si è rivolto sia contro le liste che a vario titolo hanno partecipato o sostenuto i governi di questi ultimi anni, sia contro quelle di opposizione. Forse per questo, dopo i risultati elettorali, Renzi è fuggito ad Herat, forse si sentiva più sicuro lì.

 

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NON VOTATE!

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“Lo sciopero armato” presentazione del terzo volume delle Opere Complete di Errico Malatesta

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Venerdì 5 giugno, alle ore 18,00
presso la Federazione Anarchica Livornese, Via degli Asili 33

Presentazione del terzo volume delle Opere Complete di Errico Malatesta
“LO SCIOPERO ARMATO”
parteciperà il curatore Davide Turcato

L’alba del ventesimo secolo, dopo che si era chiuso quello precedente con l’atto di Gaetano Bresci, l’eliminazione del re d’Italia Umberto I responsabile dei massacri e degli stati d’assedio, segna l’inizio del più lungo periodo di ininterrotta assenza di Malatesta dal suolo italiano. Sulle colonne della “Rivoluzione Sociale” così come in tante altre pubblicazioni e nei discorsi, egli riafferma e sviluppa con coerenza in questi anni i due pilastri fondamentali della sua tattica: il movimento operaio come base irrinunciabile dell’anarchismo; e l’insurrezione come ineludibile passo, a cui è necessario prepararsi, verso l’emancipazione. Mentre nel decennio precedente era stato sul primo punto che Malatesta aveva dovuto insistere, in contrapposizione all’anarchismo amorfo e confusionario, l’ascesa del sindacalismo rivoluzionario, con la sua affermazione dell’autosufficienza del movimento operaio, rende ora necessario accentuare il secondo punto. In contrapposizione al concetto dello sciopero generale come arma rivoluzionaria, Malatesta compendia efficacemente la sua tattica nel concetto di “sciopero armato”. In questa fase di estraniamento dal movimento anarchico in patria, da una parte Malatesta elabora le idee-guida che informeranno i suoi successivi ritorni in Italia, e dall’altra si afferma indiscutibilmente come la figura di maggior spicco del movimento anarchico internazionale, sia, suo malgrado, agli occhi della stampa mondiale, che lo bersaglia di interviste ad ogni evento di cronaca che abbia a che fare con l’anarchismo, sia soprattutto all’interno del movimento, con lo storico congresso internazionale anarchico di Amsterdam del 1907.

A seguire aperitivo, buffet e musica

Durante l’iniziativa
LIVE PAINTING
con asta benefit
per i compagni sotto processo

COLLETTIVO ANARCHICO LIBERTARIO
FEDERAZIONE ANARCHICA LIVORNESE

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Turchia: aumenta la violenza del governo contro ogni forma di opposizione Aggrediti e fermati dalla polizia anche i compagni del DAF

questo articolo sara pubblicato sul prossimo numero di Umanità Nova

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Turchia: aumenta la violenza del governo contro ogni forma di opposizione
Aggrediti e fermati dalla polizia anche i compagni del DAF

Domenica 24 maggio ad Istanbul si è tenuta una manifestazione per l’apertura di un corridoio umanitario per Kobanê. La polizia utilizzando le nuove leggi sulla sicurezza in occasione di manifestazioni pubbliche ha utilizzato quanta più violenza ha potuto contro i manfestanti.
Infatti non appena la manifestazione è iniziata, la polizia ha cominciato a intervenire contro chi provava ad unirsi al corteo. Di fronte al tentativo della polizia di bloccarli, alcuni manifestanti hanno provato ad andare avanti, la polizia è intervenuta colpendo i manifestanti, ci sono stati degli scontri e sono stati arrestati due compagni del gruppo anarchico DAF (Azione Anarchica Rivoluzionaria) che partecipa al corteo con i lavoratori del sindacato İnşaat İşçileri Sendikası, altri sono rimasti contusi. I due compagni del gruppo DAF sono stati rilasciati nel pomeriggio di lunedì 25 dopo che il tribunale non ha confermato il loro arresto.

La richiesta di apertura di un corridoio umanitario viene portata avanti sin dallo scorso ottobre dal movimento curdo e da chi lo sostiene, permetterebbe l’arrivo di aiuti a Kobanê e porrebbe fine all’isolamento della città, attorno alla quale continuano i combattimenti. Il governo turco in questi mesi, nonostante le promesse mai rispettate, ha sempre risposto nello stesso modo: carri armati, blindati e decine di migliaia di soldati dislocati sul confine per isolare ulteriormente la città di Kobanê. La violenza dello Stato turco che con arresti, torture ed assassinii colpisce coloro che provano ad attraversare illegalmente il confine e che ha fatto negli ultimi mesi numerosi morti, ha portato anche all’arresto nelle scorse settimane di due torinesi che stavano portando aiuti umanitari a Kobanê. Questa politica del governo turco ha portato di fatto ad un punto di rottura il processo di pace in atto dal 2013 tra il PKK e la Repubblica di Turchia.

La manifestazione di domenica 24 maggio si è svolta in un contesto particolare. Infatti se la violenza della polizia e dei fascisti aveva già registrato nei mesi scorsi un forte aumento ai danni di tutte le forze d’opposizione, dai partiti parlamentari ai gruppi rivoluzionari, nell’ultimo mese, con l’approssimarsi della scadenza del voto per le elezioni parlamentari del prossimo 7 giugno, si sono intensificate la azioni violente da parte di membri del partito di governo AKP contro sedi e membri del partito HDP che sostiene i diritti dei curdi. Una situazione di alta tesione politica e sociale esasperata da un governo che tenta di soffocare ogni opposizione, che dopo le elezioni potrebbe inasprirsi ulteriormente.
Quindi la manifestazione è stata anche una risposta ai fatti delle ultime settimane, in solidarietà al movimento curdo e contro la repressione dello Stato, sia essa esercitata attraverso la polizia o attraverso gli sgherri di alcuni partiti. Una manifestazione che ha cercato di mostrare l’unità tra forze che seppur molto diverse tra loro e divise sulla questione elettorale, visto che gli anarchici e altri rivoluzionari rifiutano la via parlamentare, sono però parte dello stesso movimento di cambiamento sociale.

Dario Antonelli

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“Gli ammutinati delle trincee” – Presentazione libro e proiezione video

“Gli ammutinati delle trincee” – Presentazione libro e proiezione video

SABATO 30 MAGGIO

Presso la Federazione Anarchica Livornese, Via degli Asili 33

h 18 presentazione del libro con l’autore Marco Rossi

Gli Ammutinati delle trincee”

dalla guerra in Libia al primo conflitto mondiale 1911-1918 (BFS, 2014)

h 20.30 aperitivo/buffet

h 21.30 proiezione del fi lmatoNon c’è solo la vittoria”, regia ed edizione Federico Cataldi, regia episodio Giovanna Massimetti (durata 51 min.)

 

La Prima guerra mondiale, spesso defi nita il tragico atto di nascita del Ventesimo secolo, rimane l’evento storico che ha determinato i traumi, i confl itti, le trasformazioni non solo nella società, ma nella coscienza collettiva e nell’esperienza umana di milioni di persone e, in particolare, dei ceti popolari e delle classi subalterne di ogni paese. Furono infatti queste ultime a pagare maggiormente gli effetti laceranti di quella guerra, voluta dal potere economico, dai governi e dai rispettivi nazionalismi, per affermare un’egemonia imperialista, conquistare territori e incrementare i profi tti dell’industria bellica. La Grande guerra rappresenta il naufragio della civiltà moderna, nella quale è coinvolta pienamente l’Italia liberale che già con la spedizione in Libia (1911-12) aveva anticipato eventi, strategie e temi che troveranno un’altra conferma negli anni 1914-18. Non tutti i contadini e gli operai travolti dalla guerra accettarono passivamente di morire – da Tripoli a Caporetto – per interessi e logiche non loro. Prigionieri delle trincee, questi non-sottomessi combatterono una loro guerra dentro la guerra, ammutinandosi agli ordini criminosi dei generali, disertando, dandosi alla macchia, animando rivolte per difendersi da una patria che li mandava al massacro e li voleva assassini di altri sfruttati. Questa ricerca al rovescio vuole dare voce al loro coraggio di restare umani, anche a rischio della fucilazione per disfattismo.

Federazione Anarchica Livornese

Collettivo Anarchico Libertario

 

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