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Mai più vivere come schiavi!

mai più vivere come schiavi

MAI PIU’ VIVERE COME SCHIAVI!

Giovedì 28 Agosto
presso la Federazione Anarchica
Livornese, in Via degli Asili 33

ore 20:30 – aperitivo
ore 21:30 – proiezione video:
“Mai più vivere come schiavi!”
di Yannis Yolountas, settembre 2013

La Grecia tra rivolta e autogestione.
Un documentario che ci mostra le esperienze di autorganizzazione sociale e le pratiche di resistenza e di azione diretta contro le politiche di austerità che in Grecia, come in tutta europa, sono imposte dai governi alle lavoratrici ed ai lavoratori.

Per non vivere più come schiavi!

Collettivo Anarchico Libertario
Federazione Anarchica Livornese

Posted in Anarchismo, Generale, Iniziative, Internazionale.

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Sacco e Vanzetti – apericena+proiezione

Art of Anarchy 15

Il 23 agosto 1927 Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti venivano uccisi dalla giustizia statunitense.
Erano due proletari immigrati a Boston, due militanti anarchici ingiustamente accusati di rapina e di omicidio. Il governo del Massachusets non si fermò davanti all’evidente innocenza di Sacco e Vanzetti, né davanti alle imponenti mobilitazioni in loro difesa e volle emettere una condanna a morte che fosse un segnale politico durissimo contro ogni tipo di opposizione, in particolare contro gli anarchici.
Nonostante questa ed altre offensive repressive, le idee e le pratiche anarchiche hanno continuato e continuano a diffondersi, alimentate da un’intransigente lotta contro ogni forma di potere e da un inesauribile amore per la libertà.

Giovedì 21 Agosto 2014

presso la Federazione Anarchica Livornese in Via degli Asili 33

ore 20:30 apericena

ore 21:30 proiezione del film Sacco e Vanzetti
di Giuliano Montaldo, 1971, 120′

Federazione Anarchica Livornese
Collettivo Anarchico Libertario

Posted in General.


Opuscolo: Pedagogia libertaria, alcune riflessioni.

Pubblichiamo il testo dell’opuscolo in distribuzione in queste sere di Effetto Refugio presso il banchetto anarchico sugli Scali del Refugio

Quello che proponiamo è la sintesi di un intervento presentato al D’Istruzione Festival, iniziativa organizzata nel gennaio 2013 presso il Teatro Officina Refugio di Livorno. La sezione dedicata alla pedagogia libertaria ha ospitato la comunicazione che segue, curata da Patrizia Nesti, e interventi skype sulla scuola Gargantua di Roma, attiva dal 2012 ( intervento curato da Norma Santi) e su esperienze di pedagogia libertaria realizzate in Spagna (intervento curato da Valeria Giacomoni)

anarchia

Pedagogia libertaria: alcune riflessioni

Nel linguaggio politico, il termine “libertario”è stato storicamente, fin dalle sue origini ottocentesche,un sinonimo di anarchismo, utilizzato in diretta contrapposizione al termine liberale.

Questo è tuttora il significato proprio del termine libertario, nonostante le usurpazioni deformanti con cui talora viene impropriamente utilizzato come vago sinonimo di democratico o liberal.

Parlare di pedagogia libertaria quindi significa qualificare la pedagogia con una connotazione politica precisa; significa fare riferimento ad una riflessione teorica e ad una sperimentazione pratica dell’educazione che si sviluppa in ambito anarchico.

La pedagogia libertaria ha sempre trovato ampio spazio nella progettualità e nella pratica anarchica; è parte integrante di un progetto complessivo di società diversa, che vuole liberarsi di gerarchie e autoritarismo e che, per fare questo, vuole realizzare una rivoluzione non solo politica ed economica, ma anche una rivoluzione sociale.

Nella prospettiva anarchica il cambiamento sociale non è affidato ad un’ avanguardia che produce una forzatura rispetto ad una massa più arretrata, ma, quanto più possibile, ad un’azione collettiva e diffusa, opera di individui che abbiano, aldilà delle differenze culturali e del possesso anche diverso di strumenti di analisi, la comune esigenza di affermazione della libertà e la volontà di liberarsi dal dominio. Non c’è bisogno di un’avanguardia politica che egemonizzi il processo rivoluzionario guidando le masse; la rivoluzione che gli anarchici auspicano richiede solo che si acquisisca e si diffonda, generalizzandola, l’insofferenza e il disprezzo radicale verso l’autorità – militare, politica, religiosa- per far scaturire l’esigenza di libertà e la naturale tendenza alla autodisciplina che è il vero elemento regolatore della convivenza civile.

E allora c’è bisogno di liberare questa esigenza di libertà.

L’educazione tradizionale mira a costruire un individuo disciplinato, obbediente, pauroso delle punizioni: un individuo che viene educato ad essere gretto, meschino, opportunista e calcolatore delle convenienze anche più banali. Oppure, se l’individuo è piuttosto brillante e capace, viene educato ad essere sfrenatamente arrivista, competitivo, deciso a prevalere e a schiacciare l’altro. In ogni caso l’educazione tradizionale punta a formare un individuo non solidale e non libero.

Al contrario , gli obiettivi che la pedagogia libertaria si dà sono proprio quelli di libertà e solidarietà. Nel pensiero anarchico e libertario quindi l’educazione è un nodo centrale, che viene sviluppato sia dal punto di vista teorico che pratico, attraverso la riflessione, ma anche attraverso la sperimentazione concreta e la realizzazione di esperienze.

Numerosi sono gli esempi, anche assai illustri, di questo intreccio di teoria e prassi. Inevitabile fare riferimento a due grandi nomi, Tolstoj e Ferrer.

LEV TOLSTOJ (1828-1910).

Intorno alla metà dell’Ottocento il grande scrittore russo dà vita alla scuola di Jasnaja Poljana.

Si tratta di una scuola di campagna, frequentata da figli di contadini, un’esperienza con cui si vuole dare una risposta pratica e sperimentale ad alcuni problemi di stringente attualità. Sono questi infatti gli anni in cui in Russia viene abolita la servitù della gleba; l’emancipazione porterà all’aumento numerico dei lavoratori liberi su cui l’apparato zarista, sotto la guida di Alessandro II, si prepara ad imporre un rigido controllo anche di tipo culturale.

Tolstoj, con straordinaria attenzione alla questione sociale e notevole lungimiranza, si pone il problema dell’istruzione popolare ed elabora strumenti per evitare che attraverso l’intervento zarista si ricrei, anche sul fronte dell’istruzione, l’asservimento di sempre.

Si documenta, viaggia e arriva ad elaborare un modello educativo, che dà vita ad un’ esperienza concreta: 12 sono le scuole aperte a a partire dal 1859, ben due anni prima dell’abolizione della servitù della gleba.

Il modello pedagogico adottato da Tolstoj rifiuta il dirigismo, punta alla espressione di interessi personali, valorizza l’autodisciplina. Non ci sono vincoli di programmi o di orari scolastici, né obblighi di frequenza; non c’è nemmeno una rigida scansione delle classi per fasce di età.

L’esperienza concreta delle scuole di Jasnaja Poljana durerà fino l863, ma Tolstoj continuerà anche successivamente ad occuparsi di pedagogia sul piano teorico, elaborando una riflessione su questioni di grande rilevanza.

Tolstoj, ad esempio, non ha simpatia per il termine – ne’ ovviamente per il concetto – di educazione, ritenendo che tale termine implichi la tendenza a rendere una persona simile all’educatore, adombrando quindi il condizionamento, la volontà di modellare e dare un’impronta a chi, appunto, viene educato Valorizza invece molto il concetto di cultura, intesa come insieme di saperi liberamente acquisiti e rielaborati, patrimonio del singolo o della collettività, non patrimonio della casta intellettuale. Quella espressa da Tolstoj è dunque una concezione di cultura molto moderna, anticipatrice, in un certo senso, di concezioni che avranno grande sviluppo circa un secolo dopo. Basti pensare alle inchieste operaie che si diffondono intorno al 1960 e 1970, primi esempi di controinformazione e di espressione di conoscenze alternative; ma anche a tutto quello che c’è stato -e in qualche misura c’è ancora- in termini di “controcultura”, cultura alternativa, cultura giovanile, cultura popolare, autogestione e autoproduzione culturale. Pensiamo insomma a tutto ciò che provoca rottura rispetto ad una nozione univoca ed elitaria di cultura, privilegiando invece lo spazio della rielaborazione dei saperi e delle capacità, fuori da un progetto di addestramento educativo, per una elaborazione culturale autonoma.

Ebbene, questa nozione di cultura “altra” deve qualcosa anche alle concezioni di Tolstoj e alla sua pedagogia libertaria.

Molteplici del resto sono le anticipazioni di Tolstoj riguardanti questioni che caratterizzeranno la riflessione pedagogica anche molto succesiva. Egli ad esempio definisce il condizionamento dovuto all’istruzione tradizionale e a quella che sarà poi chiamata “scolarizzazione”. Tolstoj parla di “stato scolastico dell’anima” descrivendo con queste parole lo studente disciplinato e domato dall’educazione istituzionale: “Tutte le facoltà più elevate – l’immaginazione, la creatività-lasciano il posto a facoltà semianimalesche, quali: contare i numeri in fila , percepire le parole senza permettere alla fantasia di arricchirle con immagini etc., insomma reprimere tutte le facoltà più elevate per sviluppare solo quelle che coincidono con l’ordine scolastico, il terrore, lo sforzo di memoria, l’obbligo dell’attenzione. Ogni scolaro costituisce di per sé un elemento anomalo nella scuola, finchè non finisce sul binario dello stato semianimalesco. Non appena il fanciullo è arrivato a questa condizione, egli perde tutta la sua indipendenza e autonomia e immediatamente si manifestano sintomi quali l’ipocrisia, la menzogna etc e l’insegnante, ora che egli non è più un elemento anomalo, comincia ad essere soddisfatto di lui.” L’analogia con ciò che i così detti “descolarizzatori” denunceranno circa un secolo dopo è evidente.

Tuttavia Tolstoj , nonostante le potenti intuizioni ed anticipazioni, nonostante il legame tra elaborazione teorica e sperimentazione pratica, esprime, attraverso la propria pedagogia, un’esigenza più filantropica che rivoluzionaria.

Tolstoj d’altra parte non è un rivoluzionario e non si propone come tale; si definisce un “anarchico cristiano”, non allontana mai la spiritualità religiosa dal suo orizzonte (anche se viene scomunicato per la sua particolare interpretazione del sentimento religioso). E’ un rigoroso pacifista in un periodo – sono gli anni della Comune di Parigi – di grandi insurrezioni e profonda conflittualità : anche per questo prevalenza del filantropismo sul radicalismo, Tolstoj sarà piuttosto snobbato dagli anarchici del suo tempo. A Tolstoj tocca la sorte dell’outsider: troppo poco rivoluzionario per gli anarchici, troppo anarchico per la corrente filantropica, che in questo periodo ha una certa rilevanza.

L’attenzione verso la pedagogia in genere e, in particolare, per quella di di stampo filantropico è molto diffusa nel tardo Ottocento ed è collegata, più generalmente, all’emergenza della questione sociale, che scaturisce dopo la seconda rivoluzione industriale. In questi anni si sviluppa un grande interesse per l’educazione dei fanciulli, interesse assai evidente, ad esempio, nella letteratura per ragazzi che fiorisce in questo periodo un po’ ovunque. Qualche decennio prima, in ambito anglosassone, c’è stato Dickens; intorno al 1880 in Italia viene pubblicato Pinocchio, storia fantastica con finalità educative, che dà valore formativo all’esperienza di trasgressione. Ma abbiamo anche Cuore del socialista De Amicis, opera stucchevolmente moralista, ma interessante, perchè strutturata come diario di vita scolastica, leggibile anche come documento che mette in evidenza le caratteristiche della scuola statale post unitaria di recentissima costituzione, prima dei Patti Lateranensi del 1929: una scuola densa di retorica sociale e patriottarda, ma laica.

Nel filone filantropico costituito da esempi di questo tipo Tolstoj, anch’egli scrittore ma anche concreto sperimentatore, Tolstoj potente anticipatore di concezioni innovative, Tolstoj anarchico sui generis è assolutamente fuori posto. La sua pedagogia, anche se non inserita in una visione politica rivoluzionaria, è sicuramente pedagogia libertaria.

Un intervento pedagogico potentemente rivoluzionaria e pienamente riconducibile all’anarchismo è invece quello che caratterizza FRANCISCO FERRER (1859-1909)

Il contesto è quello della Spagna di fine Ottocento e Ferrer individua nel sistema educativo tradizionale un fattore di coercizione sociale enorme, anche perché in questo paese la Chiesa ha il monopolio dell’istruzione attraverso l’Ordine dei Gesuiti.

L’attenzione di Ferrer verso la scuola e la pedagogia è orientata da una precisa analisi di classe, maturata anche attraverso la conoscenza diretta della situazione internazionale e delle evoluzioni del sistema di sfruttamento legate alle nuove esigenze del capitalismo. A partire dalla concezione fondamentale secondo cui il sistema di istruzione è utilizzato dallo stato come elemento di controllo delle masse, Ferrer analizza le modalità con cui questo controllo si realizza. La militanza e l’esilio lo hanno portato a vivere anche in Francia e in Belgio, a contatto con un livello di industrializzazione che la Spagna ancora non conosce, ma che deve essere attentamente considerato nelle dinamiche della evoluzione della lotta di classe. Il controllo sociale non può più realizzarsi attraverso il mantenimento dell’ignoranza e l’esclusione dall’istruzione. Il crescente processo di industrializzazione richiede lavoratori ben addestrati, non arretrati, in grado di gestire alcune conoscenze. Le masse popolari sono indotte ad un “salto” sociale e culturale che comunque lo stato e i padroni devono controllare in modo rigoroso: le esigenze di produttività richiedono che i lavoratori siano educati ad avere delle conoscenze minime indispensabili e a tenere un comportamento docile ed esecutivo. La scolarizzazione e l’accesso alla cultura non deve diventare fattore di emancipazione sociale, ma solo di riproduzione del processo di subordinazione.

Da qui l’esigenza, per Ferrer, di inserirsi nella lotta di classe anche attraverso la creazione di un’ esperienza educativa diversa, alternativa, libertaria appunto, che non rappresenti una sperimentazione “separata”, ancorchè concreta, ma saldamente legata alla realtà sociale e alla prospettiva rivoluzionaria.

E’ così che nasce la Escuela Moderna.

L’impostazione è di tipo razionalistico scientifico, base imprescindibile per uno sviluppo delle conoscenze umanistiche libero da dogmatismi e moralismi di stampo religioso, nella prospettiva di una cultura che armonizzi i saperi. L’elemento antireligioso e ateo, così come l’opposizione ad ogni forma di spiritualismo, caratterizzano in modo forte l’esperienza della Escuela Moderna voluta da Ferrer. Si tratta di una posizione ovviamente riconducibile alla situazione spagnola, in cui, come già detto, la Chiesa monopolizza l’istruzione. Per altri versi, tuttavia, l’elemento antireligioso che caratterizza anche moltissime altre esperienze di pedagogia libertaria, trova una sua ragione teorica che trascende i singoli contesti sociali. La scuola tradizionale infatti plasma sé stessa sul modello religioso: la scuola, come la religione, si fonda sul principio di autorità e gerarchia, dandone suggestiva rappresentazione attraverso alcuni meccanismi di funzionamento mutuati dalla religione stessa: l’accettazione del sapere rivelato, il sistema delle punizioni e delle ricompense, il giudizio, l’esame finale. Una scuola non tradizionale, libertaria, deve essere necessariamente quindi anche una scuola antireligiosa.

La Escuela di Ferrer costituisce, come dicevamo, un’esperienza di pedagogia libertaria impostata all’interno di un progetto rivoluzionario.

Nei primissimi anni del Novecento, le scuole del modello Escuela Moderna, sono economicamente sostenute da Associazioni di lavoratori, comprendono, oltre all’educazione delle bambine e dei bambini, anche corsi serali per adulti, riunioni culturali della domenica, locali per riunioni sindacali; in qualche sede c’è addirittura una casa editrice.

Francisco Ferrer, che ne è l’animatore, vi trasferisce la propria esperienza di militante rivoluzionario anarchico, esperienza che si snoda lungo una vita densa di esperienze assai significative. Ferrer, ferroviere, per la sua attività politica all’età di venticinque anni viene esiliato in Francia, dove resterà per circa quindici anni. Torna poi in Spagna e nel 1901 fonda la Escuela Moderna, che nel giro di cinque anni conterà circa 1700 iscritti, tra la sede di Barcellona ed altre sedi periferiche. Intorno al 1906 Ferrer viene arrestato e la Escuela moderna sarà chiusa. Una volta scarcerato, Ferrer non riesce, per problemi economici, a riaprire la scuola; in ogni caso ne ripropone il modello dando vita ad un’ attività di elaborazione e coordinamento di esperienze di pedagogia alternativa. Fonda infatti la Lega Internazionale per l’educazione razionale, con sedi a Madrid e Bruxelles; ne è presidente il celebre scrittore francese Anatole France.

Nel 1909 Francisco Ferrer viene nuovamente arrestato in relazione ai fatti della Semana tragica”. In luglio scoppia a Barcellona una rivolta popolare di grandi proporzioni, che tiene in scacco la città per una settimana; la protesta è rivolta contro il governo e la Chiesa, che reclutano forzatamente elementi delle classi popolari da inviare a combattere nella guerra coloniale del Marocco. Ferrer, accusato di coinvolgimento nella protesta, viene arrestato e condannato a morte.

In molte città della Spagna e di altre nazioni, Italia compresa, si svolgono manifestazioni di protesta. A Torino gli anarchici, sostenuti da una consistente parte della sinistra, presidiano la Camera del Lavoro imponendo l’indizione di uno sciopero generale, testimonianza di solidarietà internazionalista e riprova della grande popolarità di Ferrer. La condanna a morte viene comunque eseguita nell’ottobre del 1909, ma la fama del rivoluzionario e del pedagogista spagnolo continua a propagarsi. Molte scuole ispirate all’esperienza di Ferrer sorgono negli Stati Uniti, in Francia, in Belgio, in Svizzera. Anche in Italia il ricordo di Ferrer rimane vivo a lungo; le sue opere trovano ampia divulgazione, la sua figura viene rievocata attraverso numerosi scritti, ma anche in forme di comunicazione diretta e popolare. Le lapidi commemorative di Ferrer hanno una diffusione incredibile in Italia, considerando che sono dedicate ad un anarchico non italiano: nella sola Toscana possiamo trovarle a Carrara, Pisa, Campiglia Marittima e Roccatederighi.

Accanto ai grandi nomi di Tolstoj e Ferrer, troviamo una nutrita schiera di pedagogisti che si dedicano alla sperimentazione di pratiche di educazione libertaria o di metodi di insegnamento rivoluzionari. Ci limitiamo, in questa sede, a citarne solo alcuni, al semplice scopo di fornire qualche spunto per chi volesse approfondire più adeguatamente l’argomento.

L’ambiente francese è sicuramente, in questi primi anni del Novecento, il più ricco di sollecitazioni, anche se i protagonisti di queste sperimentazioni pedagogiche conducono vite poco riconducibili ad un preciso contesto territoriale: la militanza rivoluzionaria e le persecuzioni repressive li portano spesso, per volere o per forza, ad essere internazionalisti.

ELISEO RECLUS (1830-1915), famoso geografo francese, è figura di grande spessore culturale e rivoluzionario: attivo nella Comune di Parigi, condannato alla deportazione, poi commutata in esilio grazie alle pressioni di Darwin ed altri noti intellettuali del tempo, in contatto costante con Bakunin, attivo collaboratore di Ferrer. Reclus rivoluziona lo studio della Geografia elaborando la teoria della geografia sociale”, una geografia che sviluppa il versante antropologico ed economico puntando a valorizzare il rapporto uomo/ambiente e innovando profondamente la geografia descrittiva tradizionale.

PAUL ROBIN (1837-1912), anch’egli francese, è attivissimo militante della Prima Internazionale. Significative e varie sono le sue esperienze politiche e culturali: collabora al Dictionnaire pédagogique, partecipa alla stesura del manifesto di Gand sull’istruzione integrale e fonda il periodico denominato appunto “L’istruzione integrale”. Robin sperimenta concretamente il proprio metodo in un orfanotrofio, di cui gli viene affidata la direzione: l’educazione è rivolta allo sviluppo completo della personalità e delle attitudini; viene introdotta la struttura dell’atelier, è favorito l’approccio scientifico e il superamento dell’istruzione separata tra sessi, è escluso completamente l’insegnamento religioso. L’esperienza, fortemente contrastata dai settori tradizionalisti, si protrae per 14 anni fornendo spunti e suggerimenti anche a Ferrer; viene infine chiusa per le forti pressioni della Chiesa.

L’esperienza di Robin viene espressamente ripresa da un altro anarchico e pedagogista francese, SEBASTIEN FAURE (1858-1912). Partendo da posizioni socialiste, Faure approda all’anarchismo, che lo vedrà militante attivo: è tra gli accusati del “Processo dei Trenta”, fonda con Louise Michel il periodico “Il Libertario”, è tra i fondatori della Federazione anarchica Francese, si distingue per l’impegno antimilitarista, oltre che pedagogico.

Faure dà vita alla scuola libertaria la Ruche (l’Alveare), in cui vengono applicati i principi dell’educazione integrale di Robin: grande sviluppo delle attività fisiche, della manualità, del gioco e delle attività cognitivo-culturali, secondo il sistema dell’apprendimento incidentale o induttivo. Contrapposizione netta dunque con l’apprendimento deduttivo-dogmatico tradizionale, ma anche con il sistema di ricompensa/punizione e con qualsiasi forma di classificazione dei risultati che favorisse la competizione; l’educazione infatti deve sviluppare cooperazione e solidarietà. Assai interessante l’aspetto autogestionario della scuola: le attività praticate a scopo educativo nella forma cooperativa, come le produzioni agricole e la tipografia, contribuiscono infatti in parte rilevante all’autofinanziamento della scuola.

Le esperienze di pedagogia libertaria proseguono diffusamente nel corso di tutto il Novecento. Alcune, come la Summerhill school fondata da Alexander Neill, sono ancora attive, altre hanno avuto vita più breve, molte vengono avviate anche in questo periodo, come nel caso della scuola Gargantua di Roma.

Alcune considerazioni specifiche merita il periodo attorno al 1970. La società è attraversata da profondi rivolgimenti culturali e sociali. In alcuni paesi, come l’Italia, le conquiste economiche determinate dalle lotte operaie della fine degli anni sessanta hanno consentito l’accesso agli studi anche a chi tradizionalmente ne rimaneva escluso: “anche l’operaio vuole il figlio dottore”, recita una famosa canzone del tempo. E’ la cosiddetta scuola di massa.

Questi sono anche gli anni in cui la contestazione giovanile mette sotto accusa l’assetto gerarchico della società. Viene contestata non solo la scuola istituzionale, ma anche la famiglia, l’autorità delle vecchie generazioni, la struttura militare, il potere medico. Attorno alla questione di una pedagogia antiautoritaria il dibattito si intensifica e assume caratteristiche radicali, che esprimono il radicalismo diffuso nella società. Ivan Illich è l’intellettuale che più compiutamente esprime la tendenza radicale di questo periodo; ha una formazione religiosa, non sperimenta concretamente esperienze di scuola alternativa, preferendo il piano dell’elaborazione teorica, ma il suo messaggio è potentissimo. Contesta, ad esempio, la concezione che vede la scuola come elemento decondizionante, in grado di favorire l’emancipazione dall’ignoranza e la mobilità sociale; la scuola, di qualunque tipo, viene vista come struttura che ripropone la stratificazione sociale. Sostenitore della descolarizzazione, Illich mette in discussione non solo la visione tradizionale di scuola autoritara, ma anche molte convinzioni patrimonio della cultura democratica scaturita dalla scuola di massa.

In effetti, il radicalismo più o meno marcato di questi anni lascia un segno anche a livello istituzionale, contribuendo non tanto a rivoluzionare l’istruzione, processo impensabile senza una generale rivoluzione sociale, quanto ad avviare il processo di democratizzazione della scuola. Alcuni di questi risultati sono esclusivamente formali, come nel caso dei Decreti delegati del 1974 e della conseguente istituzione degli organi di rappresentanza. In altri casi i risultati del processo di democratizzazione della scuola sono più sostanziali: basti pensare all’estensione del diritto allo studio per i disabili nelle classi comuni, nel 1977, con la chiusura delle classi differenziali. Conviene ricordare anche, come elemento importante di questa fase, l’ istituzione della scuola materna statale nel 1968; si tratta di un settore storicamente monopolizzato esclusivamente dalla Chiesa, che si oppone, insieme al governo democristiano di allora, a quella che che viene chiamata la scristianizzazione dell’infanzia. Il compromesso, di cui sempre ogni processo democratico si nutre, è rappresentato dall’inserimento dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola dell’infanzia statalizzata.

Ma che relazione può esserci tra una scuola che diventa più democratica e una concezione di pedagogia libertaria? I principali diffusori della pedagogia libertaria sono stati osteggiati, repressi, perseguitati, talora uccisi dal potere statale e religioso con cui il loro progetto rivoluzionario era inconciliabile. Tuttavia, curiosamente, molti presupposti che caratterizzano la pedagogia libertaria, quando vengono svuotati della portata rivoluzionaria e del loro valore eversivo complessivo, possono essere utilizzati al di fuori dell’ambito anarchico come “buone pratiche” educative, andando a caratterizzare esperienze di pedagogia democratica e non direttiva. Gli esempi sono vari ed autorevoli. La Montessori, pur sostenuta, almeno in un primo tempo, dal fascismo, ha comunque una concezione “democratica” e innovativadell’educazione.

Don Milani, con l’ esperienza della Scuola di Barbiana, lancia anche un’accusa potente alla selezione classista operante nella scuola, ponendo un problema politico e sociale; ma non si propone certo di educare in senso rivoluzionario i suoi allievi.

Negli Stati Uniti si afferma la pedagogia dell’Attivismo, che mira a valorizzare l’esperienza più che che il sapere nozionistico. Si punta alla libertà espressiva del ragazzo, per favorire la libera manifestazione della sua personalità fuori da dirigismo e dalle strettoie costrittive delle regole.

Animatore di questa tendenza è DEWEY, liberal americano che riconduce il processo educativo attivo alla finalità, per lo stato, di educare cittadini intraprendenti, pronti a snobbare le regole comuni per affermarsi sugli altri con la libera iniziativa.

Altro esempio è rappresentato dalla scuola Steineriana, fondata da STEINER, austriaco che vive all’inizio del ‘900, ma che ha lasciato molti seguaci del suo metodo. E’ ritenuto anche il fondatore del’antroposofia (che auspica la crescita spirituale dell’individuo in armonia con l’universo), ispiratore dell’agricoltura biodinamica, assertore di un equilibrio individuo/ambiente fondato sull’armonia. Steiner elabora una pedagogia che va sotto il nome di metodo Waldorf, dal nome della marca di sigarette Waldorf Astoria. In una fabbrica di queste marchio, per volontà del proprietario, sorge una scuola per i figli degli operai. La direzione di questa scuola viene affidata a Steiner, che vi sperimenta il suo metodo, basato sullo sviluppo armonico dell’individuo, privilegiando soprattutto l’espressività artistica, la musica, il lavoro manuale, sotto la guida di un insegnante che è tenuto a seguire un percorso di “formazione spirituale”.

Quale portata rivoluzionaria ci può essere in una scuola voluta da un padrone per i figli dei suoi operai?

Attualmente la scuola steineriana va molto di moda, soprattutto nel ceto elevato imprenditoriale: tutti i figli di Berlusconi hanno frequentato la scuola steineriana. Del resto, una pedagogia non direttiva che coltivi al massimo le potenzialità dell’individuo, anche in modo non tradizionale, è ottimale per la formazione di chi deve elevarsi sopra la massa, deve avere una forte autostima, nonché il necessario disprezzo delle regole comuni per potersi affermare sugli altri, in una società che non va cambiata, ma dominata.

E’ evidente quindi che una scuola democratica, caratterizzata da un impianto pedagogico non direttivo, non è la stessa cosa di una pedagogia libertaria, soprattutto perchè manca, alla prima, quella prospettiva rivoluzionaria, quel quadro di riferimento in cui l’autorità e la gerarchia sono abolite non solo nella relazione interpersonale e nella circostanza funzionale, ma nella generale prospettiva di trasformazione sociale rivoluzionaria.

Chiudiamo con alcuni interrogativi.

In un contesto come quello attuale, non attraversato da fermenti rivoluzionari che diano, nell’immediato, una prospettiva di cambiamento sociale radicale, una scuola alternativa libertaria è comunque utile per la sua valenza formativa o rischia di creare un’esperienza separata?

E ancora: in una situazione come quella attuale , in cui gli ipotetici fruitori di una scuola libertaria non sono i figli dei minatori, o i contadini affrancati dalla servitù della gleba, ma piuttosto figli di genitori che scelgono consapevolmente un percorso alternativo, può esserci il rischio del familismo che caratterizza tante comuni scuole private? Ovviamente per familismo è da intendere quella condivisione tra orientamento culturale ideologico della famiglia e dell’ambiente educativo, che viene scelto proprio per la continuità di valori che rappresenta. Il rischio, in questi casi, è di attivare un’esperienza educativa protetta dalla pluralità di sollecitazioni, che crei un replicante più che una persona autonoma.

In ogni caso non dobbiamo temere di essere controcorrente; bisogna confidare nella plasticità, nella forza dirompente dello spirito di libertà, che, una volta liberato, è in grado di spiazzare tutto e tutti. E quindi sperimentare, sempre e comunque. Ovviamente la pedagogia libertaria da sola non basta, come nulla basta a se stesso. Guai ad appagarsi di ciò che si promuove e si sperimenta in un solo ambito, sia esso lo spazio del sociale, il piano sindacale, la lotta ambientalista, l’autogestione di una qualsiasi attività.

E’ indispensabile cercare di ricondurre tutto ad un progetto rivoluzionario di trasformazione generale della società.

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Ucraina. Opposti nazionalismi.

da anarresinfo.noblogs.org

Ucraina. Opposti nazionalismi.

La guerra civile nelle regioni orientali dell’Ucraina si sta giocando sulla contrapposizione tra opposti nazionalismi, l’uno con espliciti richiami all’identità ucraina declinata secondo ai canoni tipici dell’estrema destra, l’altro con chiari riferimenti alla resistenza antinazista russa durante la seconda guerra mondiale.
Narrazioni false, utili però a dare forza a legami identitari, che da queste narrazioni traggono la linfa simbolica che giustifica una guerra che si basa su identità escludenti.
In alcuni casi il volersi russi o ucriani non dipende né dalla lingua né dalla cultura, ma da una scelta di campo.
Giacomo, un compagno che fa giornalismo free lance in aree di guerra, ha trovato ospitalità da due giovani ucraini di famiglia e lingua russa, che temono l’autoritarismo putiniano più dei fascisti di Pravi Sector.
Dalla sua testimonianza emerge una realtà più composita e difficile da decodificare di quella presentata dai media main stream italiani.

Ascolta la diretta con Giacomo realizzata dall’info di Blackout

Sullo stesso argomento vale la pena riportare gli stralci più significativi di un articolo di Matteo Tacconi sul Manifesto del 25 giugno:

“Chi sono i ribelli dell’est ucraino? Per Kiev sono ter­ro­ri­sti seces­sio­ni­sti mano­vrati da Mosca, per i media russi forze di auto­di­fesa che resi­stono ai gol­pi­sti della Maj­dan. Defi­ni­zioni sche­ma­ti­che di un uni­verso ben più arti­co­lato. In linea con lo sce­na­rio ucraino nel suo complesso.
La destra dell’est
In attesa di capire se il piano di pace di Poro­shenko non è un foglio di carta, si può par­tire da destra. L’insurrezione a Done­tsk, come nella vicina Lugansk, regi­stra la pre­senza di per­so­naggi ricon­du­ci­bili all’estremismo russo e russo-ucraino.

Uno è Pavel Guba­rev. Tren­tu­nenne, impren­di­tore, ha una sto­ria di mili­tanza in Unità nazio­nale russa, for­ma­zione con vena­ture xeno­fobe. È stato lui, a marzo, in con­co­mi­tanza con lo scop­pio della crisi di Cri­mea, a gui­dare la presa dei palazzi, fre­gian­dosi poi della carica di gover­na­tore della Repub­blica di Done­tsk. Arre­stato, è stato rila­sciato a mag­gio. In quei giorni sono state attive altre sigle radi­cali, tra cui l’Unione eura­sia­tica della gio­ventù, brac­cio gio­va­nile di Eura­sia, movi­mento pre­sie­duto dall’accademico russo Alek­sandr Dugin, uomo dal pro­vato pen­siero radicale.

Da poco ha invi­tato a par­lare alla Lomo­no­sov, l’università mosco­vita dove inse­gna, Gabor Vona. È il numero uno di Job­bik, la destra unghe­rese più becera. Sem­pre a pro­po­sito di destre inter­na­zio­nali s’è venuto a sapere che i polac­chi di Falanga e gli ita­liani di Mil­len­nium hanno inviato loro rap­pre­sen­tanti a Done­tsk. Il che rivela che la fami­glia nera euro­pea s’è schie­rata dall’una e dall’altra parte della bar­ri­cata ucraina. Non sol­tanto a Kiev, con Pra­vyi Sek­tor e le altre bande della Maj­dan. Nell’est ucraino un’altra per­so­na­lità che si col­loca a destra è Ale­xan­der Boro­dai, un russo, il capo del governo della Repub­blica di Done­tsk. A Mosca Boro­dai ha la fama di uno dei più noti inter­preti dell’ultranazionalismo e com­menta spesso sulla rivi­sta Zav­tra, cassa di riso­nanza di que­sti ambienti, che ha recen­te­mente pub­bli­cato una sorta di mani­fe­sto della Nuova Russia.

È il nome di quella che dovrebbe essere un’entità sta­tuale com­po­sta dalle aree di Done­tsk e Lugansk, pos­si­bil­mente allar­gata alla Trans­ni­stria e a Odessa. Il discorso sulla Nuova Rus­sia allarga il campo dell’analisi, svin­co­lan­dola dal solo tema, limi­tante, della col­lo­ca­zione poli­tica. In ballo ci sono sen­ti­menti, per­sone in carne e ossa. Alcune delle quali per­ce­pi­scono il rap­porto tra Ucraina e Rus­sia come una cosa intima. Ci si arruola nelle mili­zie filo­russe anche in nome di quest’idea, che trova ampi riscon­tri nella sto­ria, nella cul­tura e nella let­te­ra­tura. Sulla Maj­dan è acca­duta grosso modo la stessa cosa.

La rivolta ha avuto una sua impor­tante pul­sione sto­rica e cul­tu­rale, iden­ti­fi­ca­bile nel pen­siero nazionale-nazionalista ucraino, for­giato nell’ovest del paese e pro­teso a sepa­rare la vicenda bio­gra­fica ucraina da quella russa.

Nell’insurrezione dell’est influi­scono, restando sul piano della sto­ria, anche i retaggi della seconda guerra mon­diale. In que­sto senso la Mai­dan e la sua com­po­nente ultra­na­zio­na­li­sta ha assunto il sapore di una replica a scop­pio ritar­dato delle atti­vità dispie­gate nell’Ucraina occi­den­tale dai mili­ziani di Ste­pan Ban­dera, fau­tori di uno stato ucraino etnico. Con­tras­sero un’alleanza tat­tica con Hitler in fun­zione anti­so­vie­tica e anti­po­lacca. Oggi la figura di Ban­dera spacca il paese. I cir­coli nazio­na­li­sti lo ele­vano al rango di eroe. L’est, sen­si­bile alla Rus­sia e alla tra­di­zione della grande guerra patriot­tica, lo bolla come un nazista.”

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Opuscolo: Disoccupati, sottoccupati, precari, l’unione è la nostra forza!

Pubblichiamo il testo dell’opuscolo sulla disoccupazione in distribuzione in queste sere di Effetto Refugio al banchetto anarchico sugli Scali del Refugio.

DISOCCUPATI, SOTTOCCUPATI, PRECARI,

L’UNIONE E’ LA NOSTRA FORZA

 

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A cura della Federazione Anarchica Livornese

e del Collettivo Anarchico Libertario

In questo opuscolo sono raccolti gli interventi dei realtori all’iniziativa “Disoccupati, sottoccupati e precari, l’unione è la nostra forza!” organizzata da CIB-Unicobas, Federazione Anarchica Livornese e Collettivo Anarchico Libertario, che si è tenuta il 2 luglio 2014 presso la sede della FAL.

1. LIVORNO: DISOCCUPAZIONE E DISASTRO SOCIALE

La crisi economica scoppiata nel 2008 e di cui non si vede ancora la fine sta colpendo duramente Livorno e il suo territorio. Per la verità Livorno era già in crisi pesante: il declino delle attività produttive “storiche” (es. il Cantiere) e di quelle nate negli anni 60 e 70 (es. Spica e CMF) assieme alla lenta ma sembrerebbe inesorabile decadenza delle attività portuali avevano già portato ad un pesante degrado della città. La crisi economica nata nel 2007 negli Stati Uniti e arrivata un anno dopo in Europa ha portato un ulteriore durissimo colpo.

Come mostra la scheda allegata al presente contributo a Livorno tutti gli indicatori statistici sul disagio sociale, dal fronte della disoccupazione a quello delle spese sanitarie e del sostegno agli anziani, passando per la crisi abitativa, sono peggiori della media regionale e nazionale.

La disoccupazione a Livorno e nella sua provincia è quasi il doppio di quella media toscana e molto superiore alla media nazionale. La disoccupazione giovanile è a livelli da profondo sud. La cassa integrazione è aumentata vertiginosamen-te: poiché la CIG è l’anticamera del licenziamento è certo che, in mancanza di politiche realmente “attive” nei prossimi anni il tasso di disoccupazione crescerà ancora.

Si perde il lavoro e si perde anche la casa” non è uno slogan ma una amara realtà come dimostrano gli sfratti in continuo aumento, specie per morosità.

La popolazione diventa sempre più anziana, quindi non autosufficiente ma nell’area livornese i servizi sono minori che nel resto della Toscana e perfino che nel resto del terri-torio servito dall’AUSL6. In una situazione talmente degradata il Comune di Livorno spende per servizi e interventi socio-sanitari meno di quanto non facciano, in media, gli altri comuni dell’AUSL6 e della Toscana. Il risultato è che tanti livornesi fuggono all’estero: Livorno sta diventando terra di emigranti!

La risposta alla devastazione delle passate amministrazioni locali di centro sinistra a guida PD si è centrata su alcune scelte di fondo:

– favorire la chiusura delle fabbriche, cambiando la destinazione delle aree (come è accaduto con il Cantiere Navale), illudendo i lavoratori sponsorizzando avventurieri (come il caso clamoroso della ex Delphi);

– immettere nel territorio denaro pubblico e privato (nuovo ospedale) senza riguardo al peggioramento dei servizi (leggi: privatizzazioni) e al danno ambientale;

– sostenere progetti inutili e dannosi come il rigassificatore e il megainceneritore; incentivare l’arrivo di nuove imprese impegnate nel settore delle produzioni tossiche e nocive (progetto del Puntone del vallino), sostenere, ma forse sarebbe più giusto dire pianificare la rovina ambientale con nuove discariche (progetto Atlante di cui la scandalosa vicenda del Limoncino è solo la punta dell’iceberg), perseguendo la fallimentare scelta di fare di Livorno il “polo delle nocività” che tanto piace al presidente della Regione Rossi; autorizzare cementificazioni nuove a fini commerciali (Porta a Terra e poi Porta a Mare, Nuovo Centro e chissà cos’altro).

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Queste le scelte di fondo delle amministrazioni che si sono succedute negli anni. Scelte condivise, di fatto, non solo dalla insulsa destra cittadina, sempre attenta a ritagliarsi una fetta di potere che il sistema gli concede ben volentieri in cambio di una finta opposizione, ma anche dai cosiddetti “alternativi” che si sono limitati ad una opposizione “parolaia”, lontana anni luce dalle vere esigenze dei cittadini e incapace di denunciare il vero ruolo dell’istituzione comunale come cerniera fra i gruppi che vorrebbero fare il bello e il cattivo tempo in città, gruppi che non hanno mai trovato vera resistenza fra i mummificati consiglieri comunali ma si sono scontrati con i comitati, le associazioni, i singoli cittadini autorganizzati per difendere salute e territorio.

Oggi, ci viene detto che le cose cambieranno, che si vuole una politica “partecipata”. Sarà. Noi sappiamo che le cose miglioreranno, a Livorno come altrove, se i cittadini sapranno auto-organizzarsi per la difesa dei loro interessi, per un lavoro decente, per un ambiente pulito, per la salvaguardia delle tutele sanitarie. E costringeranno le amministrazioni locali a prendere decisioni in tal senso.

Così si cambieranno i rapporti di forza. Rapporti di forza che – sia detto per inciso – a Livorno non sono poi così sfavorevoli alle forze del cambiamento: perché se a Livorno le cose vanno male anzi malissimo, esse andrebbero anche peggio senza l’impegno, il sacrificio, la costanza di tanti che si sono battuti giorno dopo giorno, contro l’arroganza del potere economico e politico. Non abbassiamo la guardia, non facciamoci lusingare dai “nuovi”, manteniamo l’impegno in prima persona sul fronte del lavoro, dell’ambiente, della salute.

Abbiamo molto da fare, c’è un mondo da cambiare!

LE CIFRE DEL DISASTRO

Riferimento: la provincia di Livorno ha una popolazione complessiva di 335mila persone di cui 174mila vivono nei comuni di Livorno e Collesalvetti (area livornese). Pertanto, con una certa approssimazione si può dire che il peso di questa area è determinante nella valutazione dei dati anche quando non sono riferiti specificatamente alla zona Livorno-Collesalvetti ma più genericamente a tutta la provincia.

Disoccupazione

Secondo i dati ISTAT la disoccupazione nella provincia di Livorno era nel 2013 pari all’8,6%, con una progressione di quasi il 100% rispetto al 2007, quando era del 4,5%. Nel 2013 la media toscana era del 7,8%.

In realtà secondo quanto riportato dall’Osservatorio della Provincia di Livorno, alla fine del 2012 il tasso di disoccupazione provinciale era pari al 14,2% (21754 disoccupati censiti), molto superiore alla media nazionale ISTAT: 11,7%. A Livorno città il tasso di disoccupazione era pari al 15,1%. Secondo gli ultimi rilevamenti dell’Osservatorio la disoccupazione avrebbe raggiunto nel 2013 il 16,1% rispetto ad una media toscana del 7,9%: più del doppio!

Drammatica la situazione giovanile: alla fine del 2012, nella fascia 15/24 anni (al netto di chi studia) la disoccupazione toccava il 59% (la media regionale era del 28,9%) mentre nella fascia 25/34 era del 22,9%. La disoccupazione giovanile è al livello delle peggiori realtà del sud Italia. Pesante anche la situazione degli “scoraggiati”, cioè di coloro che non studiano non lavorano ma non cercano neppure più un lavoro: nella provincia di Livorno sono 9.700 i giovani fra i 15 e i 29 anni in questa condizione, pari al 22% del totale, contro una media regionale del 16%.

Cassa integrazione

Si tratta di dati pesantissimi: le ore di cassa integrazione ordinarie erano 319 nel 2006, 993mila nel 2007, 1.191mila nel 2008 ma sono schizzate a 6.235mila nel 2009, 7.757mila nel 2010, 4.230mila nel 2011, 7.100mila nel 2012 e 6.629mila nel 2013.

Liste di mobilità

In cinque anni gli iscritti sono aumentati del 59%: dai 1413 del 2008 ai 2389 del 2012.

Indennità di disoccupazione

In quattro anni coloro che “godono” di questa indennità sono aumentati del 65%, passando da 6525 a 10822.

Emergenza abitativa: gli sfratti

Gli sfratti erano 245 nel 2007 ma sono diventati 909 nel 2011 e 645 nel 2012. Impressionante, in tale contesto disastrato, l’aumento dei provvedimenti di sfratto per morosità: erano 183 nel 2007 sono diventati 809 nel 2011 . Nel resto della regione sono aumentati ma in misura molto minore: da 3637 a 4879.

Salute: aumentano gli anziani

Nella provincia di Livorno ci sono due anziani (over 65 anni) per ogni giovane (sotto i 14 anni).

Salute: i non autosufficienti

Nell’area livornese ci sono 3381 non autosufficienti e 3685 fragili, cioè a rischio di divenire non autosufficienti. I posti letto per non autosufficienti ogni 100 autosufficienti erano 30,4 nell’area livornese, contro i 39,9 della media toscana. Gli anziani assistiti con assistenza domiciliare integrata erano 1,59 (ogni 100 anziani) nell’AUSL 6, contro 2,31 della media toscana e i 4,12 della media italiana. (dati al 2010).

Spesa sociale

Cioè quello che i Comuni spendono per l’erogazione di servizi e degli intervento socio-sanitari. Nell’area livornese era di 123 € per residente, contro i 133 dell’AUSL6 e i 137 della media toscana. Da segnalare che la spesa nell’area livornese è in costante declino dal 2006.

Emigrati

Secondo il rapporto della Fondazione Migrantes (riconducibile alla Caritas) il Comune di Livorno con 11.033 residenti all’estero (il 7% della popolazione residente) si trova in 11^ posizione fra i comuni italiani. Livorno è preceduta solo da Palma di Montechiaro, Favara, Corigliano Calabro, Aragona, Lamezia Terme, Licata, Adrano, Roma, Lucca e Trieste. Secondo uno studio di Adriana Dadà sull’emigrazione italiana fra l’unità d’Italia e la prima guerra mondiale, la provincia di Livorno (che a quel tempo comprendeva solo Livorno e l’isola d’Elba) aveva un tasso di emigrazione pari al 13% della popolazione residente.

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2. NEOLIBERISMO SPINTO

Le politiche economiche di questi ultimi anni hanno portato ad un grande aumento di disoccupazione, sottoccupazione, precarietà. Per una accumulazione del capitale senza freni inibitori niente di meglio che supersfruttare alcuni e sottoccupare e precarizzare gli altri, quindi aumento dell’età pensionabile, aumento dell’orario di lavoro, abuso degli straordinari e del lavoro festivo. Tutto ciò fa risparmiare e divide i lavoratori.

Tutti i giorni nel lavoro sindacale che svolgiamo ci troviamo di fronte a questi problemi, vedi ad esempio la situazione del porto di Livorno, delle cooperative sociali e non, della scuola con le ultime uscite del governo, etc.

Quello che stupisce è che di fronte a questo feroce attacco non c’è una reazione adeguata dei lavoratori. E’ vero che non si intravedono alternative a breve termine e nella maggior parte dei lavoratori c’è la sfiducia a costruirne a medio ed a lungo termine, manca o meglio si rifugge da un progetto, da un ideale, ma tutto ciò non è sufficiente per comprendere come il capitale riesca a mantenere in modo artificiale lo status quo, a congelare questa situazione di stallo nella guerra tra le classi.

In realtà la chiave di volta di questa strana situazione è il ruolo che hanno assunto i sindacati di regime, cioè CGIL, CISL, UIL ed a seguire, con un ruolo subordinato, UGL, CONFSAL, CISAL etc.. Infatti stiamo assistendo al passaggio da una fase chiamata della “concertazione” ad una fase in cui, con l’accordo del 10/1/2014 (il famigerato testo unico sulla rappresentanza), si rispolverano le corporazioni tipiche del regime fascista, che potremmo definire fase della “corporazione”.

In pratica si è passati da una fasulla pantomima della cogestione, che tra l’altro ha portato come frutto quello dei famigerati fondi pensione di categoria, cogestiti al 50% dai sindacati di regime e dai padroni e quasi tutti in perdita, ad una fase in cui viene riconosciuta da parte dei padroni (Confindustria, etc.) a CGIL, CISL e UIL l’esclusività della rappresentanza dei lavoratori a patto ovviamente che questi facciano il cane da guardia al capitale accumulato. Qualcosa di molto simile a quello che avvenne il 2 ottobre 1925 quando, con gli accordi di Palazzo Vidoni, venne riconosciuto dalla Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali e dalla Confindustria la reciproca esclusività della rappresentanza dei lavoratori e dei datori di lavoro.

In questa nuova fase il compito dei sindacati di regime, soprattutto nel settore privato, non è tanto quello di cogestire quanto quello di terrorizzare i lavoratori per far passare le manovre dei padroni.

Infatti tutti i giorni nel nostro lavoro sindacale, in tutti i settori in cui siamo presenti, assistiamo sempre alla stessa sceneggiata: quando il padrone o la direzione della cooperativa devono far passare qualche manovra peggiorativa per i lavoratori ( azzeramento del contratto di secondo livello, abuso degli straordinari, passaggio forzato da full time a part time, etc.) entrano in scena CGIL, CISL e UIL minacciando i lavoratori che, se non si accetta tutto il pacchetto confezionato dal padrone o chi per lui ci saranno licenziamenti, catastrofi, diluvio universale come castigo divino.

In sostanza si punta a disgregare il fronte dei lavoratori tramite il “si salvi chi può” dando ad intendere che solo gli iscritti ai sindacati di regime avranno più probabilità di essere tra i salvati, tra gli eletti, quindi un nuovo ruolo di bottegai in monopolio, totalmente subordinato al volere dei padroni.

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Quindi d’ora in avanti le lotte che metteremo in piedi dovranno tener conto di questa nuova fase che ha come unico punto positivo su cui far leva, di fronte al tentativo di disgregare completamente il fronte dei lavoratori, quello dello smascheramento definitivo dei sindacati di regime: il re è nudo.

Dovremo con pazienza ricompattare il fronte dei lavoratori usando come leva la solidarietà, alzarne il morale fatto a pezzi

dagli ascari del regime e dei padroni, costruire dal basso l’autogestione delle lotte per arrivare poi all’autogestione della società.

3. STUDENTI-APPRENDISTI, STAGISTI, TIROCINANTI: FORMARE ALLA PRECARIETA’

Il 2014 è l’anno di avvio del programma europeo Youth Guarantee, finalizzato a favorire l’occupabilità e l’avvicinamento dei giovani al mercato del lavoro, secondo quando recitano gli obiettivi del programma stesso. Nell’ambito delle misure attuative della direttiva europea, l’Italia ha attivato il “Piano Garanzia per i Giovani”: nel primo trimestre del 2014 è stata realizzata una piattaforma tecnologica e il contest on line a cui i giovani possono registrarsi per ricevere informazioni e successivamente usufruire di un percorso di orientamento personalizzato per l’accesso al mercato del lavoro, un supporto per la costruzione del curriculum e per l’accesso a specifici tirocini. Attraverso il finanziamento europeo Youth Employment e il Fondo Sociale europeo 2014-2020, sono previsti (D.L. 73/2013) incentivi per imprese che attuino tirocini formativi e forme di apprendistato. Insomma, ancora una volta una speculazione imbastita con i fondi europei, allo scopo di costruire un megaufficio di collocamento virtuale e di foraggiare aziende che pratichino forme di sfruttamento spacciate per formazione.

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 Tra le altre misure attuative delle direttive europee, il 7 maggio 2014 il Ministro dell’Istruzione Giannini ha avviato il programma “Cantiere Scuola”, che prevede specificamente azioni formative rivolte agli studenti degli istituti tecnici e professionali, per un raccordo con il mondo del lavoro che abbia particolari agganci al made in Italy. Il riferimento a ciò che ruota attorno all’operazione Expo è più che esplicito e, non a caso, ancora una volta si utilizza il miraggio della formazione finalizzata all’occupazione per estorcere a vario titolo(stage, tirocini etc.) prestazioni lavorative non retribuite.

Ma l’iniziativa più significativa adottata dal governo sul fronte della disoccupazione giovanile è rappresentata dal recentissimo Decreto interministeriale siglato lo scorso 5 giugno dal Ministero dell’Istruzione, del Lavoro e dell’Economia. Il Decreto è denominato “Formazione in azienda- Apprendistato nella scuola di secondo grado” e riesce a compendiare diabolicamente gli obiettivi delle direttive europee in materia di disoccupazione giovanile con l’ennesima manovra di tagli e di abbattimento di qualità della scuola pubblica. Da diversi anni nelle scuole superiori, generalmente nelle classi quarte, sono previsti percorsi di alternanza scuola- lavoro della durata di una settimana, percorsi che gli studenti possono esercitare secondo i loro interessi, in strutture lavorative scelte dalla scuola in base al proprio progetto educativo; più intensiva la formula negli istituti tecnici, che prevedono anche possibili stage estivi su base volontaria. Questa modalità ha ricevuto spesso critiche e contestazioni da parte di chi ritiene che la scuola dovrebbe insegnare a proteggersi dalla precarietà, a conoscere i propri diritti, a sottrarsi allo sfruttamento, a non cedere all’addestramento. Ebbene, la formula fin qui conosciuta diventa niente paragonata a quello che il nuovo decreto prevede.

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Quella che parte con l’anno scolastico 2014-15 è una sperimentazione di vero e proprio apprendistato destinato agli studenti di quarta e quinta superiore, pensato all’interno delle politiche europee sulla disoccupazione giovanile, con l’obiettivo di inserire i ragazzi in un contesto aziendale (on job), sottraendo alla frequenza scolastica fino al 35% dell’orario annuale delle lezioni. Le aziende firmano un protocollo di intesa con il Ministero dell’Istruzione o con gli Uffici scolastici provinciali (ex Provveditorati) e le Regioni dettando le regole del gioco: individuano le scuole di loro interesse, definiscono i criteri di selezione degli studenti- apprendisti, il numero di ore di apprendistato, addirittura i criteri di monitoraggio della sperimentazione. Lo studente apprendista, che firma un vero e proprio contratto,avrà un piano formativo personalizzato e sarà seguito da un tutor in azienda e da un tutor a scuola; quest’ultimo sarà un docente, debitamente formato però dall’azienda per monitorare la ricaduta in ambiente scolastico di ciò che all’azienda stessa interessa.

I tutor aziendali avranno un peso nella valutazione scolastica; l’esperienza di apprendistato sarà valutata e certificata e costituirà credito per l’ammissione all’esame di stato. In sede di esame, la terza prova scritta dovrà tener conto del percorso di apprendistato e in Commissione d’esame potrà essere presente, in qualità di esperto, il tutor aziendale.

Lo scenario, anche se preparato da un processo di aziendalizzazione della scuiola che parte da lontano, è assai inquietante: la sperimentazione della precarietà già da studente; una scuola finalizzata all’addestramento lavorativo e all’acquisizione di competenze strettamente settoriali; un completo asservimento all’azienda, pubblica o privata che sia, che attinge alla scuola in base alle proprie ed esclusive esigenze in una maniera che somiglia molto al caporalato; un terzo del monte ore sottratto allo studio dopo che la recente riforma aveva già consistenetmente ridotto le ore di insegnamento; l’ulteriore spaccatura tra percorsi liceali e percorsi tecnico professionali, che saranno i più investiti dai protocolli di apprendistato; e inoltre l’ingresso delle aziende nel sistema della valutazione e persino nel sancta sanctorum dell’esame di stato.

A tutto questo va aggiunto l’ennesimo taglio che si ricava sulla scuola abbattendo le ore di insegnamento e i posti di lavoro docenti ed A.T.A. Non va dimenticato infatti che oltre al Decreto sull’apprendistato, che eroderà il 35% delle ore di insegnamento, sta partendo sperimentalmente anche la formula di scuola superiore su quattro anni, già prospettata dai ministri Profumo e Carrozza. La perdita di un anno di scuola taglierà possibilità di lavoro a molti precari e precarizzerà molti stabilizzati. Ma anche in questo caso l’operazione è presentata come una possibilità di far accedere i giovani al mondo del lavoro un anno prima, in linea con molti paesi europei. Infatti, il quinto anno fantasma, manco a dirlo, sarà destinato ad esperienze professionalizzanti. Scuola pilota (paritaria, cioè privata finanziata) della sperimentazione è il Liceo internazionale per l’impresa “Guido Carli” di Brescia: nomen omen, ovvero, un nome un programma.

Anche queste operazioni, ritagliate sul terreno della scuola, son presentate come iniziative per promuovere occupazione giovanile. Come se la causa della disoccupazione fosse il sistema di istruzione e non le politiche dei governi, succedutesi e radicalizzatesi negli anni , fino al recente job act, all’insegna della frantumazione del ricatto occupazionale, della parcellizzazione, della precarietà più selvaggia, dell’imposizione di nuove forme del consueto sfruttamento.

4.GLI ANARCHICI E LA DISOCCUPAZIONE

Il presidente del consiglio dei ministri, Matteo Renzi, ha deciso di “rinviare” il vertice europeo sull’occupazione giovanile: ma è mai stato effettivamente convocato? L’unica dichiarazione in tal senso era stata del sindaco di Torino, Pietro Fassino. La vicenda sa tanto di bufala preelettorale, e rientra nello stile da imbonitore dell’attuale primo ministro. Essa comunque testimonia che il dramma della disoccupazione, e in particolare di quella giovanile, è sfruttato dalle istituzioni propagandisticamente; poi queste stesse istituzioni sono incapaci di prendere una qualsiasi misura che attenui le sofferenze dei senza lavoro. Anche la vetrina rappresentata dal vertice può trasformarsi in un boomerang per i governanti, perché crea un evento pubblico che può attrarre la protesta di movimenti e sindacati.

Per chi non è addentro ai segreti dell’economia capitalistica, la disoccupazione è un mistero: noi vediamo ovunque braccia inoperose e, accanto ad esse, mezzi di produzione inutilizzati, terreni incolti, a fronte di bisogni insoddisfatti, dalla casa, alla salute, all’istruzione. Quindi sarebbe possibile, se non necessario, impiegare quei mezzi di produzione e quelle braccia al soddisfacimento dei bisogni sociali; perché questo non avviene? Perché la produzione, in sistema capitalistico, è organizzata da ciascun capitalista per il suo profitto individuale e non già per soddisfare come sarebbe naturale, nel miglior modo possibile, i bisogni delle popolazioni. Quindi il disordine, lo sciupio di forze umane, la scarsezza voluta dei prodotti, i lavori inutili e dannosi, la disoccupazione, le terre incolte, il poco uso delle macchine ecc. – tutti mali che non si possono evitare se non levando ai capitalisti il possesso dei mezzi di lavoro e quindi la direzione della produzione. Il governo opera sia per difendere la proprietà capitalista, sia per favorire l’accumulazione dei capitali, la concentrazione della ricchezza a quel polo della società costituito dalle classi privilegiate, che vivono del lavoro dei proletari. Non esiste alcun interesse comune fra i lavoratori, i produttori reali, e i padroni che si appropriano della ricchezza prodotta dai lavoratori: gli speculatori, gli agrari, i dirigenti d’industria hanno sempre e solo sfruttato il lavoro altrui, non han mai fatto altro lavoro! Sono questi poi che decidono se licenziare o meno un operaio, trasferire un’azienda all’estero, mettere alla fame intere famiglie. E’ ora di dire basta, è ora che paghino i ricchi, che paghino a lacrime di sangue i morti sul lavoro, i morti di malattie e di stenti, i morti per l’avvelenamento dell’ambiente!

Le misure che i governi prendono con la scusa della disoccupazione sono in realtà volte a smantellare le conquiste ottenute dal movimento operaio dalla fine della seconda guerra mondiale: le pensioni, il sistema sanitario, la previdenza sociale, un salario dignitoso, perfino la libertà di organizzazione sindacale e il diritto di sciopero sono nel mirino delle politiche economiche e sociali dei governi. La coalizione dei capitalisti e la politica dei governi smantella le conquiste dei lavoratori, perché esse ostacolano la brama di profitto che anima questo modo di produzione. L’introduzione di nuove tecnologie, i movimenti migratori, la delocalizzazione dei processi produttivi, assieme al prolungamento del tempo e dell’orario di lavoro sono le cause della disoccupazione; le politiche dei governi finiscono quindi per favorire la disoccupazione, perché essa è strettamente legata a questo modo di produzione.

La sconfitta del movimento operaio porta con se il ritorno dei peggiori aspetti delle ideologie autoritarie: il razzismo e la propaganda di guerra sono le prime conseguenze sul piano politico e culturale della disoccupazione. I gruppi politici di destra istigano chi è vittima della disoccupazione o della precarietà ad individuare negli immigrati la causa delle loro condizioni: sono gli immigrati che tolgono loro il lavoro, le case, i posti letto all’ospedale, e così via. L’azione di questi gruppi è favorita, protetta dai governi e dalle polizie, è finanziata dai capitalisti per dividere gli sfruttati e metterli gli uni contro gli altri. L’idea che la crescita economica possa risolvere il problema della disoccupazione porta diritto alla guerra: la crescita economica ha bisogno di materie prime e di mercati, che si trovano all’estero, ecco allora che si scatena la contesa con gli altri paesi capitalistici per le stesse materie prime per gli stessi mercati. Contesa che passa dal confronto economico, a quello diplomatico e infine allo scontro armato. La lotta contro la disoccupazione non può limitarsi alla sola lotta economica, ma deve comprendere anche la lotta contro l’uso ideologico che ne viene fatto, contro i frutti avvelenati della disoccupazione: il razzismo e la guerra.

Spetta alle masse, agli sfruttati, ai disoccupati, ai sottoccupati, ai precari organizzarsi per conquistare il reddito di cui hanno bisogno, imporre la divisione del lavoro esistente fra tutti.

Non si parte da zero: i movimenti per la casa, per il recupero del reddito sono già una realtà, così come sono già in piedi le lotte contro lo straordinario, contro il sabato lavorativo, contro il lavoro festivo nella grande distribuzione. Un altro segnale di mobilitazione viene dall’impegno di alcune RSU contro la riforma delle pensioni; riguardo a questa iniziativa c’è da dire subito che il metodo delle petizioni ai potenti non ci convince, in particolare una petizione rivolta a quei soggetti, il Governo, i sindacati di Stato, che hanno avuto un ruolo da protagonista nel prolungamento del tempo di lavoro, provocato dalla ultima riforma delle pensioni. La riduzione dell’orario di lavoro, attraverso la lotta allo straordinario, la lotta al sabato lavorativo e al lavoro festivo, e del tempo di lavoro, attraverso l’abbassamento dell’età della pensione, è lo strumento concreto con cui combattere la disoccupazione.

L’organizzazione sindacale è il momento centrale della lotta economica, della lotta per garantire migliori condizioni di lavoro e di vita per gli sfruttati, e come strumento di formazione delle potenzialità autogestionarie dei lavoratori; un sindacato che non sia solo la copia bonsai di CGIL-CISL e UIL. La proclamazione di uno sciopero generale sui temi della riduzione dell’orario e del tempo di lavoro assume un ruolo molto importante, sia perché mette in evidenza quei temi che sono più capaci di porre un argine al dilagare della disoccupazione e della precarietà, sia perché rimette al centro lo scontro sul luogo di lavoro. In questa prospettiva si possono collegare organismi di disoccupati e precari con spezzoni del movimento di lavoratori in lotta, costruendo un fronte libertario che contrapponga alla delega e alla fiducia nelle istituzioni l’azione diretta e l’autorganizzazione. La discriminante astensionista è fondamentale per la ricostruzione di un movimento di classe: l’astensionismo è saldamente radicato fra i lavoratori; il sindacalismo subordinato ai partiti, che cerca di trovare un padrino in parlamento non riesce a smuovere la sfiducia delle masse.

L’anarchismo nasce come la componente antiautoritaria del movimento dei lavoratori, e che mantiene la sua vitalità solo con il contatto con questo movimento, con l’impegno continuo ed organizzato al suo interno, al fine di sviluppare quegli organismi, quelle esperienze che saranno il germe della nuova società. I metodi anarchici, anche se applicati spesso da non anarchici, dimostrano ogni giorno la propria validità nel risolvere i problemi quotidiani degli individui; gli anarchici, anziché stare a misurare la purezza rivoluzionaria dei movimenti, possono rendere concrete le proprie idee, passare dalla critica ideologica all’attacco pratico, conquistando, come minoranza agente, il proprio posto nella guerra fra le classi.

La disoccupazione è appunto uno di quei campi dove è possibile far sì che le nostre idee, i nostri programmi, i nostri metodi contribuiscano alla vittoria degli sfruttati. Del resto, il nostro movimento nasce all’interno dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, la prima, che aveva fatto della lotta per le otto ore di lavoro uno dei punti qualificanti della propria azione, e i Martiri di Chicago, il sacrificio dei quali commemoriamo ogni Primo Maggio, si battevano per l’applicazione della legge sulle otto ore di lavoro.

Le lotte parziali avranno un risultato parziale, quello che oggi viene conquistato domani potrà essere perduto, l’importante è che attraverso la lotta economica gli sfruttati imparino ad occuparsi dei loro interessi di classe, imparino che il padrone ha interesse opposti al loro e che essi non possono migliorare le loro condizioni e tanto meno emanciparsi, se non unendosi e diventando più forti dei padroni.

La causa della rivoluzione, la causa dell’elevamento morale degli sfruttati e della loro emancipazione non può che guadagnare dal fatto che i lavoratori si uniscono e lottano per i loro interessi, per questo gli anarchici devono incoraggiarli alla lotta e lottare insieme a loro.

Per questo proponiamo a tutte le componenti libertarie, politiche, sindacali, sociali, di impegnarsi in una campagna comune sul tema della disoccupazione giovanile, e di organizzare sui temi della riduzione d’orario e dello sciopero generale una iniziativa nazionale di mobilitazione.

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IKEA, San Paolo: Solidarietà ai lavoratori in lotta

riceviamo e pubblichiamo

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Solidarietà ai lavoratori in lotta

Due sono gli aspetti che, per quanto riguarda il mondo del lavoro, caratterizzano l’attuale momento storico nel nostro paese.
Da una parte l’impressionante serie di chiusure o ridimensionamento di aziende, anche di grandi dimensioni (ultimo, l’annuncio di 550 esuberi alla Thyssen Krupp Acciai Speciali Terni), che, con il seguito di licenziamenti o di CIG, vanno ad ingrossare le fila della disoccupazione, immediata o prossima.
Dall’altra – proprio in virtù della sempre maggiore disoccupazione, e quindi della capacità di ricatto – la crescente pressione che padronato e Stato impongono sui lavoratori che ancora non hanno subito la mannaia del licenziamento.
Pressione che si esplicita con il recesso unilaterale da accordi nazionali di categoria e da accordi aziendali pregressi, cui subentrano nuove regole aziendali che prevedono l’aumento dei carichi di lavoro, beninteso a parità di salario, oppure il taglio tout-court di salari e stipendi, il tutto sotto la minaccia di chiusura dell’azienda.
Se a questo si aggiunge tutto ciò che di osceno rappresenta il mondo del lavoro precario, sottooccupato, sottopagato o in nero, é evidente come sia in atto da anni un’operazione di “spremitura” il cui fine è il totale controllo della forza lavoro, per gestire la transizione verso un’economia al cui interno, ai ceti popolari spetterà la pura sopravvivenza, mentre saranno salvaguardati i margini di profitto dell’imprenditoria e la continuità (soprattutto economica) del ceto politico.
Laddove non siano sufficienti il ricatto e le minacce nei confronti di coloro che non intendono farsi trattare come carne da macello, ecco entrare in ballo la repressione, esercitata sia dalle direzioni aziendali in prima persona che dalle forze di cui dispone lo Stato.
All’Ospedale San Paolo di Milano sono in atto una serie di pesanti manovre repressive da parte della direzione per colpire chi, come l’USI-AIT, si oppone alla cattiva gestione della struttura e ai licenziamenti di delegati scomodi.
Alla Ikea di Piacenza, teatro sin dal 2012 di una lotta durissima tra i lavoratori delle cooperative organizzati dal SICobas e la direzione locale, la tensione è nuovamente alle stelle. L’Ikea – per il tramite della cooperativa di turno – si è voluta disfare di 33 lavoratori tra i più sindacalizzati e decisi nella lotta, con il fine ultimo di colpire proprio il SICobas.
Per il reintegro del 33 facchini sospesi dal lavoro, SICobas e ADL Cobas hanno indetto per il 26 Luglio prossimo una giornata nazionale di boicottaggio contro la Ikea.
La Commissione mondo del lavoro della Federazione Anarchica Italiana esprime la piena solidarietà nei confronti dei lavoratori colpiti dalla repressione e invita a partecipare alle iniziative messe in atto dai lavoratori dell’Ospedale San Paolo di Milano ed alla giornata di lotta e boicottaggio contro l’Ikea.
La Commissione Mondo del Lavoro-F.A.I.

 

 

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Giornata in memoria di Filippo Filippetti – anarchico livornese, antifascista, uccso dai fascisti

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Giornata in memoria di Filippo Filippetti
anarchico livornese, antifascista, ucciso dai fascisti

Sabato 2 agosto 2014

ore 18:30 Commemorazione presso la lapide
Via Provinciale Pisana 354, Livorno (andando verso Via Firenze, alla ex-scuola di fronte al circolo ARCI “Tamberi”)

dalle ore 21:00 Mostre, distribuzione stampa e materiale anarchico
presso il Teatro Officina Refugio, Scali del Refugio, Livorno

Filippo Filipetti, giovane anarchico, viene ucciso il 2 agosto 1922 dai fascisti mentre si oppone, assieme ad altri antifascisti, ad una spedizione punitiva contro Livorno.
Il 2 Agosto 1922 un gruppo di giovani antifascisti, tra i quali alcuni anarchici, ingaggia uno scontro armato nei pressi di Pontarcione con i camion dei fascisti. Muore nella sparatoria Filippo Filippetti, membro degli Arditi del Popolo, sindacalista dell’USI per il settore edile.
Nell’estate del 1922 si giocano le ultime per fermare la reazione antiproletaria: il paese è attraversato da un crescendo di aggressioni compiute dai fascisti nei confronti delle organizzazioni del movimento operaio e singoli militanti; si contano decine di morti fra gli antifascisti.
Da mesi l’Unione Anarchica Italiana e il giornale “Umanità Nova” si battono a sostegno del movimento degli Arditi del Popolo, per costituire un fronte unico proletario che organizzi la difesa.
Su iniziativa del Sindacato Ferrovieri Italiano è costituita l’Alleanza del Lavoro, a cui partecipano tutti i sindacati, con l’appoggio dell’Unione Anarchica, del Partito Repubblicano, del Partito Comunista e del Partito Socialista.
L’Alleanza del Lavoro indice uno sciopero generale ad oltranza per fermare le violenze fasciste a partire dalla mezzanotte del 31 luglio.
I fascisti finanziati da agrari e industriali, armati da Carabinieri ed Esercito, protetti dalla monarchia e dalla chiesa, aggrediscono le roccaforti operaie.
In molte città, fra cui Piombino, Ancona, Parma, Civitavecchia, Bari i fascisti vengono respinti anche grazie all’azione degli Arditi del Popolo. Nel momento in cui la resistenza operaia cresce, CGL e PSI, sperando in un ennesimo compromesso, si ritireranno dalla lotta, aprendo la strada alla rappresaglia armata del Governo.
Livorno è uno dei centri dello scontro. Tra il 1° e il 2 Agosto 1922 squadre fasciste provenienti da tutta la Toscana lanciano la caccia agli antifascisti livornesi, facendo irruzione nei quartieri popolari che resistono all’invasione.
Molti furono gli assassinati in quei giorni. Popolani, militanti comunisti, anarchici, repubblicani e socialisti, tra i quali Luigi Gemignani, Gilberto Catarsi, Pietro Gigli, Pilade Gigli, Oreste Romanacci, Bruno Giacomini e Genoveffa Pierozzi.
Negli scontri in periferia viene ucciso il giovane anarchico Filippo Filippetti.
Gli anarchici invitano tutti gli antifascisti a partecipare alla commemorazione.

Federazione Anarchica Livornese
cdcfedanarchicalivornese@virgilio.it

Collettivo Anarchico Libertario
collettivoanarchico@hotmail.it
http://collettivoanarchico.noblogs.org/

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Due popoli, una terra, nessuno stato!

riceviamo e pubblichiamo

resistenza

(trad: Resistenza!)

Due popoli, una terra, nessuno stato!

Migliaia di palestinesi in fuga da Gaza, centinaia assassinati dalle forze armate israeliane negli attacchi di rappresaglia; il governo di Israele accusa quello di Gaza di essere terrorista, il governo di Gaza accusa quello di Israele di essere razzista e imperialista.

L’ennesimo attacco a Gaza è solo un altro episodio della lunga guerra di supremazia in Medio Oriente, guerra che ha già provocato centinaia di migliaia di morti, milioni di profughi, miseria e devastazione in tutti i paesi.

Quanto è avvenuto e continua ad avvenire in quella martoriata regione dimostra che ogni governo è in realtà una banda criminale, che basa la sua politica di potenza sulle montagne di cadaveri che si lascia dietro. La guerra che combattono i governi mediorientali è voluta e protetta dalle grandi potenze, che a loro volta combattono le proprie guerre.

L’Italia sostiene direttamente la politica di guerra dello stato di Israele: proprio in questi giorni l’Alenia Aermacchi, del gruppo Finmeccanica, ha consegnato all’aviazione militare israeliana i primi due velivoli di una commessa di 30 caccia da addestramento M346. Inoltre, con l’operazione “Mare Nostrum”, lo stesso governo partecipa allo scontro imperialistico nel Mediterraneo ed è direttamente responsabile dei morti nei naufragi di chi cerca di raggiungere l’Italia.

La Commissione di Corrispondenza della Federazione Anarchica Italiana denuncia l’ennesima strage terroristica provocata dal governo israeliano, denuncia il ruolo dello stato italiano nella crescita del clima di guerra nel Mediterraneo, con l’acquisto degli F-35, con l’operazione “Mare Nostrum”, con il beneplacito alla costruzione, da parte della Marina USA, del MUOS di Niscemi.

Esprime la propria solidarietà alla popolazione palestinese, massacrata dai bombardamenti e dalle rappresaglie israeliane e schiacciata dalla sua classe politica che fonda il proprio potere sul militarismo dogmatico e sulla corruzione.

Invita a sostenere quanti in Israele e in Palestina si battono contro la guerra e per la solidarietà internazionalista, come il gruppo “Anarchici contro il Muro”; esprime la propria solidarietà e invita a sostenere quanti in Italia si battono contro il militarismo e l’imperialismo, a partire dalla manifestazione No-MUOS del 9 agosto a Niscemi. Ogni azione antimilitarista infatti è anche un concreto atto di denuncia contro le guerre, in solidarietà con le vittime dei massacri voluti dagli Stati e dalle classi dominanti.

Due popoli, una terra, nessuno stato!

Senza governi nessuna guerra!

Commissione di corrispondenza della Federazione Anarchica Italiana

cdc@federazioneanarchica.org

http://federazioneanarchica.org/

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Resoconto dell’assemblea “DISOCCUPATI, SOTTOCCUPATI, PRECARI: L’UNIONE E’ LA NOSTRA FORZA!”

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Resoconto dell’assemblea “DISOCCUPATI, SOTTOCCUPATI, PRECARI: L’UNIONE E’ LA NOSTRA FORZA!

Si è tenuta mercoledì 2 luglio a Livorno, l’annunciata assemblea sulla disoccupazione, organizzata dal Collettivo Anarchico Libertario, dalla Federazione Anarchica Livornese e dalla CIB-Unicobas. Buona la presenza del pubblico, che ha partecipato attivamente al dibattito. L’assemblea è stata introdotta da quattro interventi: il primo intervento, riprendendo e ampliando quanto già pubblicato sull’opuscolo astensionista preparato dalla Federazione Anarchica Livornese in occasione delle ultime elezioni amministrative, ha descritto il disastro dell’occupazione a Livorno, a cui si accompagna il peggioramento dell’assistenza socio sanitaria e il fenomeno, sottovalutato, dell’emigrazione all’estero. L’intervento successivo ha preso in esame due settori specifici, quello del lavoro portuale e delle cooperative sociali, dove si intersecano ricorso sfrenato al lavoro straordinario e fenomeni di sottoccupazione. Il terzo tema affrontato è quello specifico della disoccupazione giovanile, con le misure prese dal governo col Piano Garanzia per i Giovani e con il decreto interministeriale Formazione in azienda – Apprendistato nella scuola di secondo grado, una vera e propria formazione alla precarietà, con riflessi negativi anche per l’occupazione nella scuola. L’ultimo intervento si è imperniato sugli aspetti politici della disoccupazione, sulla necessità di costruire un movimento unitario dei disoccupati e dell’unità di tutti gli sfruttati, disoccupati, sottoccupati, precari, lavoratori a tempo indeterminato per la riduzione dell’orario di lavoro, sulla base dell’autorganizzazione, dell’azione diretta, della sfiducia in chi è al governo e in chi vuole andarci.

Al termine dell’articolato dibattito, si è deciso di dare continuità all’iniziativa, utilizzando gli interventi per un opuscolo di propaganda, con l’obiettivo di organizzare delle iniziative pubbliche di agitazione, e di proporre una campagna nazionale su questi temi, anche qui con iniziative pubbliche di agitazione.

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DISOCCUPATI, SOTTOCCUPATI, PRECARI: L’UNIONE È LA NOSTRA FORZA!

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DISOCCUPATI, SOTTOCCUPATI, PRECARI:
L’UNIONE È LA NOSTRA FORZA!

Livorno è la città toscana con il più alto tasso di disoccupazione; drammatica la disoccupazione giovanile, che nel 2012 arrivava al 59% nella fascia 14/24 anni (al netto degli studenti), per non parlare degli scoraggiati, della cassa integrazione, delle liste di mobilità, degli esodati; collegata alla disoccupazione c’è anche l’emigrazione: Livorno ha più di 11mila residenti all’estero, il 7% degli abitanti, ed è all’unidicesimo posto tra i comuni italiani, ed è collegata anche la sottooccupazione: si tratta di lavoratori a tempo indeterminato che hanno un orario di lavoro inferiore a quello contrattuale, e percepiscono una retribuzione inferiore.
Intanto il nuovo sindaco non se ne occupa, segno dell’indifferenza e dell’impotenza delle istituzioni.

Il governo fa propaganda sulla disoccupazione giovanile: prima delle elezioni europee aveva annunciato un vertice europeo, annuncio che dopo le elezioni è stato rinviato a data da destinarsi. Al di là della propaganda, l’azione concreta del governo italiano e dell’Unione Europea ha come risultati il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro degli sfruttati, l’ulteriore crescita della precarietà e l’attacco alle libertà politiche e sociali. Il modello Renzi, di cui il job act fa parte, sta rendendo tutti i lavoratori ancor più precari di quanto non lo erano già.
La soluzione del problema della disoccupazione è nelle nostre mani: dobbiamo unirci, portare la nostra protesta tutti i giorni davanti alle istituzioni. I disoccupati hanno il diritto di rivendicare la casa e il soddisfacimento dei bisogni essenziali, per sé e le loro famiglie e, di fronte all’indifferenza delle istituzioni, provvedere con l’azione diretta.
Lo straordinario, il sabato lavorativo, il lavoro festivo, l’innalzamento dell’età per andare in pensione hanno aggravato la disoccupazione, hanno aggravato la condizione dei giovani.
Bisogna costruire un fronte di lotta comune fra disoccupati, precari e lavoratori a tempo indeterminato, per la riduzione dell’orario e del tempo di lavoro.
Ovunque persone senza lavoro e, accanto ad esse, mezzi di produzione inutilizzati, terreni incolti, a fronte di bisogni insoddisfatti, dalla casa, alla salute, all’istruzione; gli sfruttati possono risolvere questa contraddizione levando ai capitalisti il possesso dei mezzi di lavoro e quindi la direzione della produzione.
La soluzione dei nostri problemi non può venire né dai capitalisti né dalle istituzioni:
nessuna fiducia a chi è al governo e a chi vuole andarci!

Discutiamone insieme

Mercoledì 2 luglio alle ore 21,30, presso la sede della Federazione Anarchica Livornese – Via degli Asili 33, Livorno.

Organizzano:
CIB-Unicobas
Collettivo Anarchico Libertario
Federazione Anarchica Livornese

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