Un tiepido sabato di marzo quello del 14. Ma non al CIE di corso
Brunelleschi, non per tre prigionieri che non vogliono rassegnarsi alla
deportazione. Il sabato è il giorno dei tunisini, il giorno in cui di
solito arrivano i poliziotti per scortarli all’aeroporto.
Tre di loro lo sanno e sono pronti a resistere: due si tagliano le mani e
poi anche il corpo, un terzo ingoia qualcosa. La Croce Rossa, che gestisce
il CIE, vorrebbe portarli via ma loro tengono duro: il sangue è
dappertutto. C’è gente disposta a farsi male, anche tanto male, pur di non
essere riportata a forza in un paese dal quale è fuggita pagando metro
dopo metro il viaggio verso la speranza di un’altra vita. Un segno forte
dei tempi che viviamo. Tempi terribili.
Le ferite sul corpo di quei tre uomini sono inferte nel profondo della
coscienza di ciascuno di noi, incapaci di reagire adeguatamente, di dar
forza reale alla nostra solidarietà, che arriva sempre, inevitabilmente,
in ritardo.
Il CIE resta nel caos sino alle 16, quando un’ambulanza porta via i
feriti. Nessuno dei tre tunisini parte quel giorno: hanno pagato con il
sangue questa piccola vittoria.
Gli antirazzisti arrivano al CIE qualche ora dopo. Lanciano palline oltre
il muro. Dentro un numero di telefono: chiamano in tanti dalle gabbie per
senza documenti. Il muro resta lì a testimoniare la vergogna di questo
nostro tempo. Per qualche ora, grazie a quel telefono, un grido di libertà
riesce ad oltrepassarlo. Poco, troppo poco.
Federazione Anarchica Torinese – FAI
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