Da: Umanità Nova, n.32 del 20 settembre 2009, anno 89
La manovra Gelmini Tremonti dello scorso anno sta producendo i programmati devastanti effetti sui posti di lavoro della scuola. Le cifre, tristemente note, si attestano attorno ai 42.000 posti docenti e 15.000 posti di personale amministrativo, tecnico e ausiliario. I tagli sono stati realizzati con il blocco del turn over (non reintegrando i pensionamenti con nuove immissioni in ruolo e in molti casi procedendo addirittura alla cancellazione del posto), con l’introduzione del maestro unico nella primaria, con il calo delle ore curricolari nella scuola primaria, media e, già da ora, in alcuni professionali, con l’aumento del numero degli alunni per classe e la conseguente diminuzione delle classi, con la formazione, per alcuni insegnamenti, di cattedre a 20 ore. E ancora: tagli sul personale delle segreterie, sui collaboratori scolastici, il cui organico è legato al numero delle classi, ma è anche vittima dei processi di esternalizzazione delle pulizie, sugli assistenti tecnici e sugli insegnanti tecnico pratici.
Una mannaia che non cesserà di riproporsi nei prossimi anni. La riforma delle superiori prevede consistenti tagli di ore di insegnamento; la flessibilità che ogni scuola potrà autonomamente adottare favorirà solo deregulation e fluttuazione di organico, vale a dire altra precarietà; gli stage prolungati in azienda, che consegneranno studenti in mano all’impresa sempre a caccia di un apprendistato da sfruttare, faranno il resto.
A scontare l’attacco occupazionale, come è noto dalle cronache di quest’ultimo periodo, sono soprattutto i precari. Circa 25.000 persone che ricevevano nomine annuali sono a casa; altre 10.000 circa che lavoravano su supplenze temporanee pure. Una situazione che ha dato luogo a proteste crescenti e clamorose, mettendo in evidenza un problema che, per le proporzioni, rappresenta una drammatica emergenza sociale, ma che non è nuovo per un settore come la scuola, che storicamente si regge sul precariato. A questa emergenza, lo stesso governo che taglia risponde con misure anticrisi che dovrebbero avere funzione di sostegno.
Priorità nell’assegnazione di supplenze brevi a chi ha avuto un contratto annuale nello scorso anno scolastico e valutazione giuridica dell’intero anno scolastico per chi accetta tutte le supplenze brevi (contratto di disponibilità). Corresponsione più veloce dell’indennità di disoccupazione, estensibile a 12 mesi per chi ha più di 50 anni. Accordi Governo – regioni per l’ampliamento dell’offerta formativa (istituzione di corsi vari ricorrendo ai fondi europei) che crei opportunità integrative di lavoro per i precari.
I provvedimenti, inseriti nel decreto Ronchi, evidenziano la loro inconsistenza: si rivolgono ad un numero ristretto di lavoratori (10-12.000 sugli oltre 30.000 che sono a casa), creando ulteriori frammentazioni e precarizzando ancora di più la precarietà; istituiscono corsie preferenziali del tutto arbitrarie, scavalcando le graduatorie e prefigurando la chiamata diretta da parte del preside; creano istituti contrattuali e figure atipiche attraverso i contratti di disponibilità; creano disomogeneità territoriale appaltando la possibilità occupazionale alla discrezionalità delle regioni (per ora hanno aderito solo Lombardia, Sicilia, Sardegna e Campania, mentre le altre chiedono che il provvedimento venga discusso dalla Conferenza Stato – regioni) e riversando risorse nella formazione professionale, settore quanto mai regolato dalle esigenze di mercato e Confindustria. Senza contare che non sono stati stanziati, per le scuole, fondi da destinare alle supplenze, cosa che, da sola, mina alla base tutta la manovra.
Nonostante tutto, l’operazione mira ingegnosamente a raggiungere, in un colpo solo, una pluralità di obiettivi: non solo tagliare le spese attraverso un massiccio abbattimento di posti di lavoro, ma anche mutare lo status dei precari della scuola, ridisegnando un panorama. Come è noto, il precariato, nella scuola, non è un’invenzione recente. La configurazione del lavoro, in questo settore, anche per la sua specificità, si è sempre basata sul personale a tempo indeterminato – una volta si diceva "di ruolo"- e quello a tempo determinato. Su questa specificità si è costruito ed alimentato un sistema funzionale all’esigenza economica di non stabilizzare i rapporti di lavoro. Eppure, paradossalmente, il sistema non stabilizzato è diventato tanto stabile da consentire anche alcune garanzie di natura contrattuale per i precari della scuola. I contratti collettivi del comparto, infatti, disciplinano anche i lavoratori a tempo determinato e gli aspetti normativi, retributivi e di "reclutamento" sono regolamentati in modo chiaro.
L’introduzione degli ammortizzatori sociali va sostanzialmente a disgregare questo inquadramento, rendendo il precario della scuola un soggetto molto più debole, prevedendo, come si è detto, la chiamata diretta fuori graduatoria, travasando il personale nei canali degli enti locali, normati da altre regole contrattuali, aprendo ai contratti ad personam su prestazioni da concordare. Il fenomeno del precariato nella scuola finora ha fatto scandalo perché rappresentava la paralisi di ciò che per sua natura dovrebbe essere estremamente transitorio.
Adesso, senza dare maggiori aspettative di lavoro e senza andare verso il superamento del precariato, lo si fa diventare qualcosa di ancora meno certo, prospettando, attraverso le misure anticrisi, i mille rivoli dei contratti atipici. Solo in questo senso ci si può spiegare perché il Governo intende spendere per gli ammortizzatori sociali e non per le conferme sui posti di lavoro: tagliare i posti e insieme depotenziare e destrutturare il precariato della scuola è un obiettivo estremamente interessante per il Governo.
E’ necessario quindi sostenere le lotte specifiche dei precari volte al ripristino dei posti di lavoro ed assumerle nell’ambito della più generale lotta contro i tagli, contro la riforma, contro la crescente gerarchizzazione e meritocrazia, contro la politica del governo; devono essere valorizzate tutte le mobilitazioni che si muovano attorno a questi obiettivi, da quelle spontanee a quelle già in calendario, come lo sciopero indetto dall’Unicobas per il 9 ottobre, a quelle che sono da costruire.
Infine, un paio di osservazioni di carattere generale.
Le azioni simboliche intraprese in quest’ultimo periodo dai lavoratori di varie situazioni, dall’industria alla scuola, hanno l’innegabile pregio di rappresentare la drammaticità di un problema e la volontà di misurarsi con la controparte senza mediazioni, oltre che richiamare l’attenzione pubblica in modo potente. E’ bene ricordare comunque che, in queste come in altre situazioni, le azioni simboliche vanno inserite in un percorso di lotta collettivo. Sarebbe estremamente fuorviante, soprattutto in una fase in cui il diritto di sciopero è attaccato pesantemente, accantonare le forme classiche di mobilitazione collettiva dei lavoratori per favorire l’iniziativa clamorosa del singolo, anche se replicata e condivisa.
Inoltre, la questione del precariato, in generale, ha necessità di essere ripensata. Quantomeno è ora di uscire dalla logica del precariato "esistenziale" su cui spesso il dibattito si intrattiene. Il diritto al lavoro, se lo si vuole rivendicare, va rivendicato per obiettivi che abbiano elementi di emancipazione: l’autonomia economica, l’autodeterminazione, la volontà di contrastare le dinamiche dello sfruttamento capitalistico. Tutto ciò che, in ogni caso, sia elemento di rottura. Smettiamo di recitare la trita litania secondo la quale il precario va compatito perché non può progettare di sposarsi, pagare un mutuo o le rate della macchina. Il precariato va superato non per assicurare ad un lavoratore delle condizioni di integrazione sociale e culturale, ma per rendere il precario un soggetto più forte, in grado di produrre reale antagonismo al capitale.
Patrizia