da Umanità Nova del 10 febbraio 2013
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Bombarda e dimentica
Mali, il nazionalismo francese alla ricerca del consenso
Sono trascorse quattro settimane dai primi bombardamenti francesi in Mali e già questa prima fase del conflitto sembra essersi conclusa.
La cronaca ci racconta un esercito francese forte, moderno e vittorioso, capace al medesimo tempo di difendere gli interessi della nazione e di intervenire al fianco dei “popoli amici” ex colonizzati.
In effetti, pur restando valido il vecchio copione dell’intervento umanitario e della lotta per la democrazia, l’immagine che domina la propaganda è quella dell’esercito liberatore.
Un’impostazione marcatamente militarista che emerge chiaramente nel dibattito politico come nella narrazione mediatica.
Questo senza dubbio rende più complessa l’opera di demistificazione che dobbiamo fare; non basta svelare la realtà della guerra e comprendere gli interessi politici ed economici che in essa si intrecciano. Se la guerra non viene più nascosta, ma cinicamente imposta come legittimo e giustificato strumento politico ed economico, siamo di fronte a una nuova aggressiva propaganda militarista.
Avevamo avuto un piccolo assaggio di questa propaganda con la guerra in Libia di due anni fa.
Anche allora la Francia giocò il ruolo di prima della classe, inaugurando con i bombardamenti quello che poi sarebbe divenuto un intervento NATO a sostegno di chi si ribellava al regime di Gheddafi. Il Patto Atlantico fece la parte del liberatore con i bombardamenti, un blocco navale e l’invio di armi e altri aiuti ai ribelli di Bengasi. La Francia, dando il via alle danze, confermò aggressivamente il proprio ruolo negli affari africani.
Sembra che proprio al conflitto libico si debba risalire per comprendere l’origine dell’attuale situazione in Mali. Le conseguenze destabilizzanti della guerra in Libia vengono infatti spesso utilizzate per sostenere la necessità della nuova avventura francese. In parte questo è vero, e se la tensione è salita nell’area è anche grazie, almeno in parte, allo sgretolamento dello stato libico e alla diffusione nel Sahel di grandi quantità di armi provenienti dai depositi di Gheddafi e dagli “aiuti ai ribelli” paracadutati dalla NATO. Ma non basta, stiamo parlando di un’area da sempre attraversata da grandi traffici, di armi e non solo, in cui il controllo degli stati è quasi assente. Il ruolo della crisi libica quindi avrebbe un peso relativo e certo non superiore ad altri fattori di destabilizzazione. Proprio tra questi fattori spuntano i soldi dell’emiro del Qatar Al Thani, che avrebbe finanziato i gruppi armati integralisti della regione. Va notato però che proprio con l’emiro Al Thani il presidente francese Hollande ha individuato obiettivi comuni che condurranno ad una coordinazione tra i due paesi nella crisi siriana. In questa situazione si sono esasperati i conflitti territoriali tra Nord e Sud del Mali, irrisolti da decenni, inaspriti dalla comparsa degli islamisti sulla scena politica e alimentati dalla Francia, che anche dopo l’indipendenza degli stati africani, non ha mai abbandonato i propri interessi neocoloniali.
Nel gennaio 2012 inizia così una guerra civile tra il governo centrale di Bamako e l’MNLA (Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad) che reclama l’indipendenza per il Nord del Mali. In marzo la situazione precipita con un colpo di stato militare a cui segue la dichiarazione unilaterale d’indipendenza dell’Azawad. I gruppi armati jihadisti intanto prendono il controllo di alcune città del Nord. Sono la Francia e l’ECOWAS (Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale) a trovare una soluzione politica che permette alla giunta golpista di inaugurare un governo “legittimo” di transizione, quel governo che nel dicembre scorso è stato poi deposto dagli stessi militari. In questo contesto di conflitto ha lavorato per mesi la diplomazia internazionale, in particolare la Francia, l’ONU e l’ECOWAS, al fine di creare le condizioni per un intervento militare che riportasse l’intera area sotto il controllo di Bamako.
L’avventura militare francese non nasce quindi come iniziativa di emergenza per fermare un’improvvisa avanzata dei terroristi. La Francia entra, assieme all’ECOWAS, in una guerra già in corso da mesi, dopo aver preparato a lungo un intervento in difesa dei propri interessi imperialistici nell’area.
Il ruolo giocato in questa guerra dalla Francia è quindi di primo piano: dopo aver alimentato le tensioni nella regione, aver sostenuto i governi golpisti e aver preparato le condizioni per un proprio intervento armato, si presenta come unico soggetto capace di riportare l’ordine e la sovranità legittima nel Mali. Ma il protagonismo francese in Africa non è certo una novità; non solo Parigi non ha mai abbandonato i propri interessi economici nella regione, ma come abbiamo visto in queste settimane di guerra, ci sono ancora basi militari francesi in terra africana perfettamente operative. N’Diamena e Abidjan, le due basi più vicine al Mali, sono infatti quelle da cui sono partiti sia i bombardamenti aerei, sia le truppe e i mezzi corazzati della Legione Straniera che hanno guidato l’avanzata sulle città occupate dai fondamentalisti islamici.
Il costante controllo militare su questa regione africana garantisce la salvaguardia degli enormi interessi delle imprese francesi nell’area. Gli interessi più evidenti sono quelli legati all’estrazione dell’uranio in Niger, dove la francese Areva progetta di aprire nel 2014 una nuova miniera che si andrebbe ad aggiungere alle tre già attive, siti minerari che fin dai primi bombardamenti la Francia ha militarizzato facendoli presidiare da riservisti delle forze speciali. Non va dimenticato che, oltre ai grandi profitti che rende l’uranio sia sul mercato civile che su quello militare, la Francia ha 19 centrali nucleari per un totale di 58 reattori sul suolo nazionale. Inoltre, quando si tratta di guerre gli interessi più grandi passano dal mercato delle armi. In Mali infatti l’industria militare francese farà affari d’oro e potrà anche usare il conflitto come “vetrina” per le sue produzioni di morte, come nel caso degli aerei caccia Rafale. Ma ci sono anche i giacimenti d’oro e di uranio in Mali e molti altri interessi nell’intera regione legati alla gestione dei porti, alle infrastrutture, ai lavori pubblici, alle telecomunicazioni.
Visto in questi termini, dal punto di vista militare, l’intervento francese potrebbe sembrare una grande operazione di polizia più che una guerra. Dopotutto si parla di un’area legata alla Francia da un passato coloniale che ha trovato una continuità con la forte presenza economica e militare francese che sussiste ancora oggi. Potrebbe sembrare un intervento finalizzato esclusivamente a mettere in sicurezza un territorio già posto, anche se indirettamente, sotto controllo.
Ma la Francia non è certo l’unica a cui preme una regione che non è distante dal gas algerino e dal petrolio libico. In un contesto che vede tra l’altro un’avanzata della Cina nel continente africano e il protagonismo russo nel traffico delle armi, a molti interessa tenere sotto controllo il Mali, il Sahel, e più in generale l’Africa occidentale. Proprio per questo le ingerenze non sono certo solo francesi, e se osserviamo meglio, quello che si svolge in Mali non è che l’aspetto più evidente ed esplosivo del conflitto tra diversi interessi imperialistici che concorrono in quella zona. La Francia è intervenuta per difendere le basi della propria economia colonialista, ma lo ha fatto mostrando al mondo che quel territorio è ancora sotto la sua influenza, e che anzi non può essere messo in alcun modo in discussione il suo ruolo militare e politico di “Gendarme d’Africa”. La guerra di Hollande è stata in questo senso un chiaro messaggio politico all’ONU, alla UE, agli Stati Uniti ed al resto della NATO.
Ma questa guerra si impone con forza anche nella politica interna e nella situazione sociale in Francia, un paese che inizia a “percepire il declino”, in cui la retorica della crisi e dei sacrifici sta iniziando a mietere posti di lavoro, libertà e diritti. Mentre l’esercito bombarda il Mali, il MEDEF (confindustria francese) bombarda i lavoratori. Si aumenta la precarietà per disciplinare il lavoro, mentre la PSA Citroen Peugeot prova a chiudere lo stabilimento di Aulnay scatenando la rabbia operaia, e la Renault vede bloccarsi per un semplice vizio di forma il piano di ristrutturazione che prevedeva il taglio di 8000 posti di lavoro. Inoltre questa nuova guerra imporrà ai lavoratori ulteriori e più gravi sacrifici.
Ma la Francia che va alla guerra è anche un paese attraversato da forti tensioni autoritarie e reazionarie. Nei primi giorni dell’intervento francese in Mali, a Parigi, centinaia di migliaia di persone hanno attraversato la città sotto i vessilli cattolici per una marcia omofoba. Il presidente François Hollande in questo contesto ha cercato di catalizzare nella “guerra contro il fondamentalismo islamico” queste spinte reazionarie.
Hollande infatti sabato 2 febbraio si reca in Mali ed è proclamato “eroe” dalla stampa francese. La guerra è una potente iniezione di nazionalismo nella società, crea consenso attorno al capo dello stato, chiede silenzio, rispetto dell’autorità ed unità nazionale di fronte al nemico.
La situazione in Italia non è certo diversa. L’impegno in Mali è passato in sordina per non turbare la campagna elettorale, ma in Africa occidentale come nelle altre missioni di guerra e occupazione in cui i militari italiani sono impegnati, il primo obiettivo è la difesa degli interessi imperialistici.
“Siamo in guerra” affermò la scorsa estate il governo, riferendosi alla politica economica e fiscale.
È la guerra dello stato e del capitale: sfruttamento, violenza, oppressione e saccheggio che non conoscono confini nazionali.
Non sappiamo ancora come andrà a finire l’avventura coloniale in Mali, quali saranno gli sviluppi dopo la conclusione di questa prima fase del conflitto. Ci troviamo di fronte ad una fase molto aggressiva del capitalismo in Europa, in cui al duro attacco padronale corrispondono forti spinte autoritarie che si concretizzano nel militarismo, nel nazionalismo, nella repressione del dissenso. Una risposta capace di fermare questo attacco può passare solo attraverso l’internazionalismo, l’antimilitarismo e la solidarietà di classe.
D. A.