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Turchia – Le radici della rivolta

Pubblichiamo in anteprima l’articolo “Le radici della rivolta” sull’insurrezione popolare che in questi giorni sta avvenendo ad Istanbul, Ankara e altre città turche. L’articolo comparirà anche sul numero 20 di Umanità Nova, disponibile ad abbonati e distributori da giovedì 6 giugno.
istanbul

Turchia – Le radici della rivolta

 

Il 30 maggio la polizia turca si presenta con i bulldozer a Gezi Park, l’ultimo parco dell’area di Piazza Taksim, da giorni occupato pacificamente dal movimento che si oppone alla distruzione dell’ultimo spazio verde della zona.

Il parco viene sgomberato dalla polizia con brutalità. Oltre ai lacrimogeni e alle violenze sui manifestanti, la polizia incendia le tende degli occupanti e distrugge gli alberi che questi avevano piantato nel parco nei giorni precedenti.

L’occupazione di Gezi Park era cominciata il 28 maggio. Il parco si trova nella centrale Piazza Taksim, sulla sponda europea della città, una zona estremamente turistica ma anche un luogo simbolo di resistenza e di lotta per i lavoratori e per i rivoluzionari. La piazza in cui il Primo Maggio del 1977 furono uccisi 34 manifestanti. La piazza attorno alla quale anche quest’anno la polizia ha massacrato a forza di botte, lacrimogeni e idranti la folla scesa in piazza, nonostante i divieti, per la giornata internazionale dei lavoratori.

Questa volta la violenza della polizia ha incontrato però una reazione determinata e di massa.

Nonostante i continui attacchi della polizia, sempre più persone si sono unite alla resistenza di piazza. Dopo giorni di scontri ininterrotti, nei quali la polizia ha usato mezzi sempre più duri e violenti, alle 16 del primo giugno, i blindati iniziano a ritirarsi da Piazza Taksim, i cordoni dell’antisommossa arretrano e abbandonano la piazza. La resistenza di oltre un milione di manifestanti, la solidarietà praticata nelle strade, ha alla fine costretto il governo a fare almeno un passo indietro. In piazza ci sono tutti: donne e uomini, ecologisti, abitanti della zona, lavoratori, curdi, socialisti, anarchici, verdi, sindacati, repubblicani, ultras, attivisti delle ong. La rivolta non si ferma con la ritirata della polizia da Piazza Taksim, i manifestanti restano a presidiare la piazza, le barricate restano in piedi. In decine e decine di altre città continuano gli scontri e le proteste, a Ankarea e Izmir la polizia interviene con estrema violenza. Ormai si tratta di un’estesa rivolta contro un governo autoritario e conservatore, contro il terrorismo di stato, contro la devastazione capitalista.

 

Tutto questo per qualche albero?

Nessuno ha il diritto di aumentare le tensioni in Turchia usando come scusa alcuni alberi tagliati

Questo ha dichiarato il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan. Per quanto i media ufficiali, in Turchia come a livello internazionale, abbiano cercato soprattutto nei primi giorni di parlare solo di Gezi Park e della difesa degli alberi, le radici profonde di questo movimento di lotta sono ormai evidenti a tutti quelli che le vogliono vedere.

Già lo stesso movimento in difesa di Gezi Park non mira alla semplice salvaguardia del verde pubblico, ma si oppone all’intero processo di gentrificazione urbana in atto nella zona di Taksim. Detto in parole semplici, con gentrificazione si intende la trasformazione di aree urbane povere in aree ricche. Questo processo si traduce da una parte in abbattimento e cementificazione selvaggia, dall’altra in esclusione dei più poveri da tali aree, con conseguente abbassamento del livello di vita per le classi popolari. Nelle aree centrali di Istanbul questo processo è in corso già da anni. Interi quartieri vengono distrutti per lasciare spazio a complessi residenziali, grandi centri commerciali, alberghi di lusso, il costo della vita aumenta, aumenta la schiera degli emarginati, aumentano i profitti degli speculatori legati al partito di governo, l’AKP. Al posto del Gezi Park, Erdoğan vorrebbe far costruire un imponente centro commerciale, una moschea e un rifacimento delle caserme ottomane che si trovavano nella piazza prima della costruzione del parco.

Un progetto che sintetizza i cardini ideologici della sua politica: capitalismo sfrenato, conservatorismo religioso, nazionalismo in salsa neo-ottomana.

Riportare la Turchia ai fasti imperiali del periodo ottomano è uno dei ritornelli della retorica del governo turco. Per questo sono pronti già altri favolosi progetti: l’aeroporto più grande del mondo, la moschea con i minareti più alti del mondo, ed un nuovo canale parallelo al Bosforo.

Contro questi progetti di vera e propria devastazione sociale ed ambientale si sono sviluppati movimenti popolari. In particolare nella regione del Mar Nero si sono tenute negli ultimi anni numerose manifestazioni contro discariche, centrali nucleari, fabbriche inquinanti, autostrade e dighe.

La rabbia esplosa nelle piazze affonda le sue radici anche nel sempre più selvaggio sfruttamento imposto alla classe lavoratrice in Turchia. Milioni di persone nel paese lavorano in condizioni quasi servili, con salari bassissimi ed altissimi tassi di incidenti e morti sul posto di lavoro. Queste condizioni sono ancora più drammatiche negli appalti e nelle esternalizzazioni. A questo si accompagna una organizzazione fortemente gerarchica del lavoro e la repressione dei lavoratori che si organizzano autonomamente, nei sindacati rivoluzionari e di classe.

Un altro elemento determinante nell’esplosione delle rivolte è costituito dalle politiche islamiste conservatrici imposte dal governo. Quelle che giornali come “Repubblica” hanno liquidato come “proteste della birra” o, più romanticamente, “dei baci”, sono in realtà una reazione compatta della società turca al barbaro attacco alle libertà personali. Non si tratta di difendere uno stile di vita occidentale o di rivendicare il laicismo militare di Ataturk. Chi scende in piazza ha capito che il governo vuole completare il proprio sistema di dominio legalizzando ed istituzionalizzando una repressione religiosa che punta ad eliminare ogni libertà individuale. Le politiche di Erdoğan comprendono divieti sugli alcolici, divieti sulle relazioni pre-matrimoniali, ma soprattutto un attacco alle donne. Il governo vorrebbe infatti intervenire contro aborto e contraccezione, inoltre sta cercando di limitare le libertà di scelta della donna su un piano più generale, imponendole il lavoro domestico secondo un modello di sottomissione patriarcale.

Infine un ulteriore fattore di forte malcontento è dovuto alla politica interventista del governo turco nei confronti della Siria. Le mire imperiali del nazionalismo neo-ottomano varato da Erdoğan hanno portato la Turchia ad impegnarsi a livello internazionale e a intraprendere una guerra sporca contro un paese vicino. Una guerra che si sta estendendo anche in Turchia con già molti morti per bombe ed uccisioni: l’11 maggio a Reyhanlı-Hatay 52 persone sono rimaste uccise e 140 ferite dall’esplosione d due auto piene di esplosivo.

 

Il terrorismo di Stato innesca la rivolta.

Le brutalità di questi giorni perpetrate dalla polizia sono forse per molti di noi inimmaginabili.

La potenza degli idranti, i lacrimogeni CS lanciati fino ad esaurimento scorte, gli altri gas tossici ancora peggiori come il gas arancione. Le cariche dei blindati, che i turchi non a caso chiamano “panzer”. Le pallottole di gomma, le bombe lacrimogene sparate in testa ai manifestanti, i proiettili veri sparati dalla polizia e che hanno fatto almeno un morto. Le botte e le torture nei confronti degli arrestati, molti dei quali bisognosi di cure. Uno scenario terrificante che in buona parte era già andato in scena quasi un mese prima, durante le manifestazioni del Primo Maggio ad Istanbul, vietate dalle autorità. Un copione quasi quotidiano in Kurdistan, dove al di là della guerra con il PKK, lo Stato turco usa il pugno di ferro anche contro le normali manifestazioni dei curdi nelle città. Perché è così che lo Stato turco gestisce ogni tipo di dissenso, è una linea comune che unisce i governi repubblicani laici, le dittature militari e il governo islamico dell’AKP. Una linea fortemente autoritaria e repressiva che negli ultimi mesi in Turchia era andata ad inasprirsi ulteriormente e a farsi sempre più invasiva allo scopo di applicare senza esitazioni le politiche del governo. Forse è proprio per questo che l’ennesima violenza brutale della polizia contro una protesta pacifica nella simbolica Piazza Taksim ha scatenato una reazione tanto determinata e compatta in tutta la Turchia.

Alla brutalità della polizia ha risposto la solidarietà concreta nella rivolta sulle strade e sulle barricate. Case, Università, piccoli negozi hanno aperto le porte ai manifestanti. Medici e infermieri volontari hanno improvvisato ospedali negli edifici disponibili. Milioni di persone si sono unite alla resistenza contro il terrorismo di Stato. Al momento in cui scriviamo (sera del 03/06/13), non è ancora chiaro quale sia il numero dei morti. Un giovane è stato ucciso ad Ankara da un colpo di pistola alla testa sparato a bruciapelo dalla polizia, altre tre vittime sono state confermate. Gli arrestati e i feriti sono ormai incalcolabili. Non sappiamo come continueranno le proteste, ma soprattutto non sappiamo ancora quali possano essere i possibili scenari. Dopo questi giorni che sanciscono una prima sconfitta politica del governo AKP e del primo ministro, sono ancora da chiarire molti aspetti.

Primo fra tutti il ruolo dell’esercito, che ha sempre dominato la scena politica turca e che è stato non di rado protagonista di colpi di stato che con la scusa della difesa dell’integrità della nazione e della laicità dello Stato, sono serviti soprattutto ad eliminare l’opposizione di sinistra e rivoluzionaria. L’esercito infatti pur essendo stato “purgato” negli ultimi anni degli elementi golpisti o comunque invisi al governo, resta sempre un potente fattore in campo, con poteri di sorveglianza politica sul governo dati dalla stessa costituzione, anche se molto ridotti dal governo. Per ora sembra essere rimasto in disparte, anche se alcune testimonianze parlano di un atteggiamento benevolo dei militari nei confronti dei manifestanti. Certo la situazione militare della Turchia è attualmente molto complessa. Alla guerra in Siria si aggiunge l’incertezza della “tregua” con il PKK, proprio il 3 di giugno c’è stata, infatti, una sparatoria tra militari turchi e guerriglieri curdi.

 

Gli anarchici partecipano al movimento in tutta la Turchia, sono presenti nella resistenza nelle strade e difendono i manifestanti. Il gruppo di Istanbul Azione Anarchica Rivoluzionaria (Devrimci Anarşist Faaliyet) fa appello a organizzare iniziative di solidarietà internazionale, a sostenere la lotta contro il terrore di Stato e la devastazione capitalista.

 

In ogni caso qualunque siano gli sviluppi della situazione una cosa è certa. In questi giorni milioni di persone in Turchia hanno dimostrato un enorme coraggio e forse stavolta non sarà facile terrorizzare i lavoratori con le stragi o eliminare l’opposizione sociale con la legge marziale e il coprifuoco. Il ministro degli esteri Turco Ahmet Davutoglu ha dichiarato che le “Manifestazioni nuocciono all’immagine del Paese”. Se c’è una certezza che emerge da questi giorni di lutti e di rivolta è l’esempio che da Piazza Taksim si rivolge a tutto il mondo. 40 ore di battaglia nelle strade, 40 ore di solidarietà che hanno legato centinaia di migliaia di persone nel centro di Istanbul. 40 ore che hanno riscattato 40 anni di violenze, stragi, esecuzioni, incarcerazioni, esili. 40 anni di terrore di Stato. Per la prima volta dopo il Primo Maggio del 1977 si è rientrati a Taksim a testa alta.

 

Dario Antonelli

 

Posted in Anarchismo, Antifascismo, Generale, Internazionale, Repressione.

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One Response

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  1. anarcy in world says

    devrimci anarşist faaliyet è un gruppo di istanbul pur’troppo sono autorizzati.. hanno un leader e sono molto furbi… va beh c’erano in piazza pero quando c’era il movimento andavano via.. fanno solo la pubblicita cosi!! e la rivolta, per ora è cambiato tutto abiamo sbattuto noi pero in piazza ci sono i nazionalisti!!