da Umanità Nova n. 22 del 23 giugno 2013
Puoi acquistare il nuovo numero del settimanale anarchico presso le edicole di Piazza Garibaldi, Piazza Damiano Chiesa e di Piazza Grande (angolo Bar Sole), presso l’edicola Dharma Viale di Antignano 110, la Libreria Belforte in Via della Madonna e presso la sede della Federazione Anarchica Livornese in Via degli Asili 33 (apertura ogni giovedì dalle 18 alle 20).
Terra bruciata.
Turchia, la sollevazione continua.
Sono passati ormai più di venti giorni dall’inizio della sollevazione popolare in Turchia contro la violenza impiegata dal governo nel reprimere delle proteste pacifiche. Alla base di quanto sta succedendo c’è un malcontento diffuso e radicato contro le politiche del governo, e più in generale contro la crescente oppressione, la censura, le restrizioni, lo sfruttamento sempre più selvaggio. Le manifestazioni, le occupazioni di parchi e piazze, le proteste di ogni tipo, si sono diffuse in gran parte del paese, e il più delle volte sono state attaccate con violenza dalla polizia. Piazza Taksim ad Istanbul è stata rioccupata per due volte dai manifestanti dopo gli sgomberi della polizia, ed ancora dopo il terzo violentissimo sgombero, decine e decine di migliaia di persone hanno cercato di raggiungerla con diversi cortei. Due grandi scioperi del settore pubblico hanno sostenuto le proteste.
La rivolta continua, nonostante le violenze della polizia in strada e le torture per i fermati, nonostante le irruzioni della polizia e delle squadracce dei fedelissimi del primo ministro Erdoğan nelle sedi dell’opposizione, nonostante gli arresti di medici, avvocati e giornalisti per il loro impegno, nonostante i tentativi di strumentalizzazione da parte dei partiti del blocco nazionalista, nonostante le continue e sempre più gravi minacce del governo.
La buca
Il Primo Maggio di quest’anno le autorità avevano vietato ogni manifestazione in Piazza Taksim, con la scusa dei lavori di riqualificazione urbana a Gezi Park. I cantieri aperti infatti costituivano un problema di sicurezza. In particolare, secondo le autorità, una grande buca rischiava di diventare una trappola per i manifestanti che avrebbero potuto caderci dentro. Quella stessa piazza, quello stesso parco, sono stati negli ultimi venti giorni al centro della rivolta che ha infiammato l’intera Turchia. In queste settimane Piazza Taksim è stata vissuta da migliaia e migliaia di persone, che hanno sperimentato la solidarietà e l’autogestione nella lotta e nella resistenza. In questi venti giorni tra i manifestanti ci sono stati migliaia di feriti e di arrestati, la polizia ha anche fatto dei morti. Nessuno di questi però è caduto nella voragine di Gezi Park.
Solo il primo ministro Erdoğan sembra essere caduto in quella buca. Una buca che si è scavato da solo.
Infatti la linea dura scelta dall’esecutivo e attuata con brutalità e terrore dal ministro dell’interno Muammer Güler, non solo ha incontrato una compatta reazione popolare che ha determinato l’estendersi della rivolta, ma ha fatto crollare molte maschere usate dal partito di governo per legittimare il proprio potere.
“Spalla a spalla contro il fascismo”
L’accusa di fascismo nei confronti dei manifestanti era, nella prima settimana di proteste, un ritornello che molti di noi avranno sentito in bocca a rappresentati del governo o ai suoi sostenitori. Si tratta di una vecchia carta della propaganda dell’AKP, il partito di Erdoğan. Una carta usata fin da quando l’AKP si proponeva come forza riformatrice e portatrice di nuove libertà: la libertà religiosa contro il laicismo autoritario imposto dal potere militare, la libertà di mercato contro lo statalismo kemalista, la libertà di espressione dopo i tempi bui della censura e dei colpi di stato. Ma se, nei primi giorni della rivolta, Erdoğan accusava i manifestanti di voler alimentare la tensione per favorire un colpo di stato militare, ora è proprio il suo vice Bulent Arinc a minacciare l’uso dell’esercito contro le manifestazioni “illegali”. L’AKP ha in realtà utilizzato, in forme diverse, gli stessi metodi fascisti dei suoi predecessori, garantendo libertà solo a sfruttatori e oppressori, facendo largo uso degli apparati repressivi dello stato. Negli ultimi mesi questo si era tradotto in una politica di governo sempre più oppressiva di attacco alle libertà individuali, di imposizione del conservatorismo religioso, di attacco alle donne, di sempre maggiore controllo sociale. Un sistema di dominio sempre più pervasivo, in una Turchia impegnata in modo sempre più aggressivo a livello internazionale ed in particolare nella guerra siriana in nome di nuovi fasti imperiali.
Ma la rivolta non ha solo spazzato via le maschere del potere, ha anche spezzato molti dei vecchi limiti delle lotte in Turchia. Il movimento di queste settimane ha infatti saputo superare sia i settarismi della sinistra più o meno rivoluzionaria sia le strumentalizzazioni dei grandi partiti di opposizione, questo grazie soprattutto alla partecipazione di massa. Non ha lasciato che le burocrazie gestissero il movimento e non ha delegato ad avanguardie militarizzate la resistenza di piazza. Non è caduto nelle trappole del governo che tra accuse, minacce, trattative e repressione selvaggia, puntava a dividere il movimento, isolarlo, criminalizzarlo.
Oltre Taksim
Taksim è un simbolo, Taksim è la storia ed il presente della Turchia. Gezi Park occupato ed autogestito, Piazza Taksim piena di stand, bandiere, banchetti, striscioni. Ma al di là del simbolo e al di là della concreta liberazione di un luogo così carico di significati per molte generazioni di turchi, c’è una realtà che dà il senso della complessità della rivolta in atto. Nella stessa Istanbul, megalopoli da 13 milioni di abitanti, grandi manifestazioni si tengono nei quartieri operai e popolari, come a Gazi dove è radicata la comunità alawita e la sinistra rivoluzionaria. Per questo, ormai quotidianamente, ad Istanbul la polizia blocca ponti, traghetti e trasporti, cercando di tenere divisi i manifestanti che si muovono dalle diverse parti della città, sciogliendo con la forza i cortei prima che possano raggiungere numeri troppo alti, per impedire che le diverse manifestazioni possano unirsi.
La rivolta inoltre è estesa a quasi tutto il paese, nei giorni di maggiore tensione si sono tenute manifestazioni di protesta in 78 provincie su 81. Per capire la protesta bisogna quindi anche allargare lo sguardo su tutta la Turchia.
Questo ci permette di capire anche quanto sia reale il rischio di strumentalizzazione della rivolta da parte dell’opposizione. Il CHP infatti, il partito che rappresenta l’opposizione “kemalista” repubblicana, autoritaria e laica, sta provando a ricostruirsi un’immagine dopo gli scandali che lo hanno travolto negli ultimi anni. In alcuni centri è stato protagonista delle proteste e certamente aspira a trasformare questa rivolta in un rapido mezzo per tornare al governo. Per ora, tuttavia, siamo ancora lontani dallo scontro tra partiti per il potere, ed il movimento di lotta, nella sua complessità, continua a mantenere grazie alla partecipazione di massa e all’eterogeneità dei suoi partecipanti, una certa autonomia dal CHP come dagli altri partiti di opposizione.
Questa pluralità, piena di contraddizioni, corrisponde ad un movimento che sicuramente non è caratterizzato univocamente in termini di classe. Se da una parte troviamo la sinistra rivoluzionaria, gli anarchici, i sindacati di classe, il proletariato dei quartieri più “sovversivi” delle grandi città, dall’altra troviamo i professionisti (avvocati, medici, giornalisti), che in Turchia hanno una grande tradizione di impegno civile, troviamo studenti, settori borghesi legati ai partiti di opposizione, dipendenti dell’apparato statale. Anche in questo caso una pluralità che va letta nello specifico contesto turco, ma che va anche assunta come dato di fatto, pure come limite del movimento.
“Nessuno deve lamentarsi della polizia”
Questo ha dichiarato il vice premier turco Bulent Arinc. La polizia dopotutto difende la legittimità del governo democratico e difende la legalità e la credibilità del paese a livello internazionale dall’azione illegale di gruppetti di facinorosi che vogliono solo alimentare le tensioni sociali. Proprio come in Italia, in Grecia, in Germania e in tutti gli stati democratici.
I media che in Italia ci mostrano le violenze della polizia a Taksim e che criticano il pugno di ferro del governo turco, non smettono mai di ricordarci i gravi effetti della rivolta sull’economia turca e di mostrarci come chi manifesta non abbia nessuna possibilità contro l’agguerrita polizia e sia, in ogni caso, destinato alla sconfitta. Anche questa è propaganda. Ma chi lotta in Turchia non si sta “lamentando”, non è semplicemente vittima della brutalità, è in rivolta contro lo stato terrorista e la devastazione capitalista. In Turchia lo stato si dibatte cercando di soffocare ogni fuoco di rivolta, mentre un ampio movimento da settimane lotta per la libertà.
Ora il governo AKP ha un piede nella fossa, o meglio nella buca di Gezi Park. Per i sondaggi il partito di Erdoğan sta perdendo molti consensi, la protesta non sembra ancora destinata a spegnersi in breve tempo e finora le mosse del governo non hanno fatto altro che alimentarla.
Ma è ancora presto per fare qualche previsione. Oltre al braccio di ferro tra il governo e il movimento di lotta, al ruolo delle opposizioni e dell’esercito, ci sono anche fattori esteri, tra cui la questione siriana che proprio nelle ultime settimane gli USA stanno forzando.
La rivolta in atto, ha già raggiunto dei forti obiettivi simbolici, si tratta ora di capire se sarà capace non solo di reggere alla repressione ma anche di bloccare i progetti imperiali e interventisti dello stato turco, divenendo realmente incisiva.
Dario Antonelli