Ancora sangue in Turchia
tifiamo rivolta
Nel Kurdistan turco l’opposizione che da sempre la popolazione ha dimostrato contro la militarizzazione del territorio, si è sviluppata alla fine dello scorso maggio in un forte movimento di resistenza popolare contro la costruzione di nuove caserme militari. La militarizzazione del Kurdistan condotta dal governo turco guidato da Recep Tayyip Erdoğan, leader del partito conservatore-religioso AKP, è stata portata avanti nonostante il processo di pace in atto da quando il PKK, il 21 marzo del 2013, aveva annunciato il cessate il fuoco ed iniziato a ritirare i propri guerriglieri dal territorio turco.
Da aprile nuove azioni di protesta avevano posto l’attenzione sull’inasprimento della militarizzazione dei distretti orientali della Turchia e sull’accelerazione dei lavori per la costruzione di nuove postazioni militari. Dal 24 maggio poi la protesta si è estesa, assumendo forme più radicali. La popolazione ha infatti organizzato alcuni blocchi sulla strada Diyarbakir-Bingöl allo scopo di impedire il passaggio dei mezzi da lavoro per i cantieri delle installazioni militari, e per rallentare l’arrivo di nuove truppe.
Sabato 7 giugno le forze speciali turche hanno lanciato un attacco per disperdere i blocchi stradali a Lice, uno dei principali centri della resistenza. Nel corso degli scontri le forze di sicurezza turche hanno aperto il fuoco sui manifestanti disarmati, uccidendo Ramazan Baran, 24 anni, e Abdulbaki Akdemir, 50 anni. Altre persone sono rimaste ferite. Il giorno seguente manifestazioni contro la repressione ed in solidarietà con la popolazione di Lice si sono tenute in moltissime città della Turchia, tra cui Istanbul, Izmir e Adana. Ad Istanbul ci sono stati duri scontri tra manifestanti e polizia nei quartieri di Okmeydanı e Gazi; mentre a Diyarbakır, principale città del Kurdistan, migliaia di persone hanno preso parte al corteo funebre di Ramazan Baran, che si è trasformato in una vera e propria manifestazione di rabbia contro la brutalità della repressione messa in campo dal governo turco, al termine della quale ci sono stati duri scontri con la polizia.
La strage di Lice non ha fatto che estendere la protesta a tutto il Kurdistan. Nei giorni seguenti infatti si sono moltiplicate le manifestazioni, alle quali il governo turco ha reagito ancora con la brutale repressione. Il 9 giugno a Siirt un ottantenne è morto, sopraffatto dai gas lacrimogeni. Un altro ragazzo di sedici anni è stato ucciso domenica 15 giugno ad Adana, colpito alla testa da una granata stordente della polizia sparata a distanza ravvicinata. Sono quattro per ora i manifestanti uccisi dal terrorismo di Stato in questi giorni, i feriti sarebbero sedici, mentre tra i quasi duecento fermati, a diciannove sarebbe stato confermato lo stato di custodia.
I movimenti curdi hanno denunciato il comportamento del governo turco come provocatorio ed ipocrita, volto a far saltare ogni possibilità di soluzione per il processo di pace in corso, affermando che dall’inizio del processo l’esecutivo guidato da Erdoğan non ha fatto alcun passo reale nel senso della pacificazione.
Il governo turco in effetti ha continuato ad installare nuove strutture militari e ad inviare truppe di rinforzo in Kurdistan, tanto che già lo scorso anno si erano registrate manifestazioni contro le nuove caserme. Fu proprio nel distretto di Lice che, il 28 giugno 2013, le forze di sicurezza turche spararono su una manifestazione contro la costruzione di una avamposto militare della Gendarmeria, uccidendo il diciottenne Medeni Yıldırım e provocando diversi feriti.
Ancora una volta Lice è centro della resistenza popolare contro la militarizzazione condotta dal governo turco. Ancora una volta lo Stato turco reprime nel sangue ogni protesta.
Certamente però la tensione degli ultimi mesi in Kurdistan non è esclusivamente dovuta all’installazione di nuove strutture militari. La popolazione infatti, protestando contro la militarizzazione e la repressione, contesta non solo al governo l’atteggiamento provocatorio tenuto nell’ambito del processo di pace, ma anche la forte impronta autoritaria che, più in generale, caratterizza l’esecutivo di Erdoğan nella sua azione di governo. Questo avviene in un periodo complesso per la Turchia. In primo luogo il ciclo di lotte che si è aperto lo scorso anno con la rivolta nata da Gezi Park appare ben lontano dal concludersi, sembra anzi aver aperto nuovi scenari di conflitto sociale in Turchia. Il movimento della scorsa estate infatti sembra aver dato nuovo respiro alle lotte dei lavoratori, mentre l’opposizione alla repressione ed al fascismo del governo diviene naturale punto di contatto tra la sinistra rivoluzionaria turca ed i movimenti curdi.
In secondo luogo le elezioni presidenziali che si terranno nel mese di agosto saranno certamente un punto di svolta per il paese. Per la prima volta in Turchia si terranno infatti elezioni dirette per la Presidenza della Repubblica, carica dal ruolo fino ad ora limitato, ma che con le riforme volute dal governo verrà ad assumere nuove funzioni e ad estendere il proprio potere.
Proprio Erdoğan dovrebbe essere il candidato dell’AKP alla Presidenza, ma il suo nome non è stato ancora ufficializzato: il partito al governo infatti aspetterà la fine di giugno per esprimere il proprio candidato. Il CHP invece, partito della sinistra “kemalista”, repubblicana, autoritaria e laica, ha stretto il 16 giugno uno storico accordo con il partito ultranazionalista di estrema destra MHP, per esprimere un nome comune per le presidenziali: il candidato dei due principali partiti d’opposizione sarà Ekmeleddin İhsanoğlu, ex segretario generale dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica, un candidato forte perché può far confluire all’opposizione anche parte dei voti religiosi.
Nelle elezioni presidenziali i due partiti che sostengono i diritti della popolazione curda e che siedono in parlamento, il BDP e l’HDP, giocheranno certo un ruolo determinante. Questi partiti hanno dichiarato che concorreranno al primo turno con un proprio candidato, mentre per il secondo turno valuteranno quale candidato possa dare garanzie su libertà, democrazia e questione curda.
In questa ottica il BDP e l’HDP non ritengono che la politica dell’AKP ed in particolare la figura di Erdoğan possa offrire tali garanzie. Il 12 giugno, in un incontro con il leader del CHP Kemal Kılıçdaroğlu, esponenti di BDP e HDP avevano valutato come possibile il proprio sostegno, nel secondo turno delle votazioni, al CHP, qualora il candidato dell’opposizione assicuri le garanzie da essi richieste. Certo il patto stretto dal CHP con il partito ultranazionalista MHP, su posizioni razziste, legato ai Lupi Grigi, e che ha da sempre attaccato anche fisicamente le minoranze, potrebbe escludere il sostegno dei curdi al candidato dell’opposizione.
Mancano meno di due mesi al primo turno delle presidenziali e lo scenario elettorale appare sempre più fosco per gli sfruttati, per chi lotta contro l’oppressione. Ma noi sappiamo bene dove guardare, la soluzione è nella lotta contro il terrorismo di Stato e contro la devastazione capitalista, la soluzione è nelle lotte quotidiane, che si intrecciano creando reti di solidarietà, al di là dei confini e degli accordi di partito.
Dario Antonelli
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Questo articolo sarà pubblicato su “Umanità Nova” n. 21 del 22 giugno 2014.
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