articolo pubblicato sul n. 24 del settimanale anarchico Umanità Nova
Tripoli: il volto nascosto dell’Italia in guerra
Nessun intervento militare delle forze speciali italiane in Libia. Questo il messaggio ripetuto più volte dal Governo tra il 3 e il 4 settembre scorso. Facile dichiarare che non vi è l’intenzione di promuovere un intervento militare a Tripoli quando sono già presenti, considerando solo le cifre ufficiali della missione militare MIASIT, 400 unità delle forze armate italiane. Appare singolare dunque tutto questo impegno del Governo per smentire la notizia, riportata da alcuni organi di stampa, secondo cui a Roma sarebbe stata in corso la valutazione di un intervento delle forze speciali a sostegno del governo di Tripoli guidato da Fayez al-Sarraj, la cui stabilità è minacciata da scontri armati in in atto tra differenti gruppi di potere nella stessa capitale.
Ma cosa sta succedendo a Tripoli? Il 2 settembre il governo di al-Sarraj ha proclamato lo stato di emergenza per l’inasprirsi dei combattimenti nella capitale. Gli scontri armati erano iniziati il 26 agosto, quando la Settima Brigata di Tarhuna, sottoposta al ministero della difesa, si è ribellata al suo stesso governo attaccando le milizie del ministero dell’interno. Il conflitto è aumentato, altre milizie si sono unite alla brigata “ribelle”, e da Zintan alcune forze si sono attestate fuori dalla città di Tripoli, mentre altre forze da Misurata sono giunte a Tripoli a sostegno del governo. I “ribelli” secondo fonti giornalistiche dichiarano di aver intrapreso l’azione militare per “ripulire Tripoli dalle milizie corrotte” che grazie alla posizione di influenza avrebbero ricchi conti bancari mentre le persone comuni sono costrette alla carenza di cibo e alle lunghe code per avere stipendi miseri.
In questo contesto il 1 settembre un colpo di mortaio ha colpito un edificio vicino all’ambasciata italiana a Tripoli, il giorno successivo con lo stato d’emergenza e l’inasprimento degli scontri l’ambasciata italiana è stata quasi del tutto evacuata, e viene presidiata dai carabinieri paracadutisti del Tuscania. Scoppia allora la questione sui media italiani, ci si accorge all’improvviso che in Libia c’è una guerra in corso e che lo stato italiano c’è dentro fino al collo. Il governo nega la chiusura dell’ambasciata e nega le voci riguardo all’invio di forze speciali, mentre attacca la Francia che avrebbe provocato questa azione militare per sostenere il parlamento di Tobruk di Khalifa Haftar che è indicato come patrocinatore dei “ribelli”. Proprio l’attacco alla Francia è al centro della dura critica dei partiti di opposizione al governo Conte, che viene da questi anche accusato di immobilismo rispetto alla situazione libica. Il governo italiano, potendo contare già su un significativo dispositivo militare impiegato sul terreno, può presentarsi come “moderato” e annuncia la convocazione di una conferenza di pace sulla Libia da tenersi in Italia (probabilmente in Sicilia) a novembre. Nel contempo il 4 settembre l’inviato speciale dell’ONU in Libia, Ghassan Salamé, convoca le parti e viene stabilita una tregua. Questa soluzione è sostenuta dal Consiglio di sicurezza dell’ONU e da uno specifico appello di Francia, UK, USA e Italia. Ma al di là delle dichiarazioni il conflitto a Tripoli continua, e anche se il governo al-Sarraj non sembra più direttamente a rischio, il 9 settembre il numero delle vittime negli scontri era salito a 78, mentre i feriti sarebbero 313 e i dispersi 16. Vi sono notizie di gravi violenze nei confronti di civili, in particolare migranti, molti dei quali in Libia vivono in condizioni disperate nei lager voluti dallo stato italiano, 400 persone sarebbero riuscite a fuggire dal carcere di Aine Zara a Tripoli durante gli scontri.
Questi eventi si inseriscono in un quadro molto complesso, in cui lo scontro tra potenze mondiali e regionali alimenta la lotta per il potere in Libia. La popolazione subisce le atrocità, le sopraffazioni, la distruzione e la miseria causate dai conflitti per l’influenza politica e militare e dalla guerra per il controllo delle risorse, quelle energetiche soprattutto. In Libia si scontrano gli interessi degli stati e delle multinazionali dell’energia, si scontrano i gruppi di potere del paese per la costruzione di un nuovo stato, grande promessa delle potenze mondiali, con tutte le questioni connesse a questi processi: i diritti sulle concessioni delle risorse, il riconoscimento internazionale, la creazione e la gestione di forze di sicurezza, la gestione di una banca centrale.
Andare più a fondo necessiterebbe di uno spazio molto più ampio di un semplice articolo, e sicuramente il nostro punto di vista resterebbe comunque ristretto, necessariamente mediato dalle agenzie di stampa e dai proclami dei governi.
Qual’è il ruolo dell’Italia? Lo stato italiano nel 2011 ha avuto un ruolo fondamentale nelle operazioni militari, e in particolare nei bombardamenti, condotti prima dalla “coalizione dei volenterosi” e poi coordinati dalla NATO con l’operazione “unified protector”. L’Aeronautica Militare definisce l’impegno nelle operazioni in Libia nel marzo del 2011 come “il più imponente dopo il 2° Conflitto Mondiale”. Operazioni che hanno visto impegnata l’aviazione italiana in 1900 raid e 456 bombardamenti, tenute nascoste alla popolazione dall’allora governo Berlusconi. Certo l’intervento del 2011 ha messo a rischio gli interessi economici di una parte della classe dirigente italiana, molte aziende italiane hanno dovuto lasciare il paese africano a causa della guerra, ma per qualcuno probabilmente l’intervento militare contro Gheddafi era un rischio da correre per ottenere migliori condizioni e maggiori profitti. L’ENI ad esempio, pur risentendo delle sorti alterne della regione, è stata l’unica grande compagnia a mantenere la produzione in Libia, e nel 2015 aveva il controllo di un terzo della produzione di gas e petrolio nel paese, mentre prima del 2011 ne controllava solo un quinto. Pensiamo poi alla grande mobilitazione militare che è seguita al 2011. Con le operazioni Mare Nostrum, Mare Sicuro, Ippocrate, Sofia, Sea Guardian e MIASIT il ruolo dell’Aeronautica e della Marina è divenuto centrale, e possiamo supporre che un tale sviluppo di queste forze armate e l’impegno di mezzi navali e aerei abbia mosso molti interessi. Sarebbe da considerare quanto grandi aziende del settore difesa e sicurezza come Finmeccanica/Leonardo, che tra l’altro ha dovuto abbandonare il suolo libico nel 2011, siano state invece avvantaggiate dagli eventi bellici in Libia e nel Mediterraneo. Inoltre per quanto il trattato tra Italia e Libia del 2008 fosse vantaggioso per le classi dirigenti dei rispettivi paesi, senza la fine del regime di Gheddafi l’Italia non avrebbe probabilmente potuto mai schierare la propria flotta come avvenuto con le operazioni Mare Nostrum o Mare Sicuro, figuriamoci dislocare direttamente delle truppe in Libia e esercitare la propria influenza politica su governi e centri di potere locali.
Per questo negli ultimi anni in Libia lo stato italiano è stato sempre presente con forze militari e di sicurezza, in modo formale o informale. Innanzitutto contractor (quelli che si chiamavano mercenari) tra cui quelli della STAM, azienda di sicurezza che farebbe parte del Consorzio CRISS della Link University, che ha avuto come presidente nel 2016 l’attuale ministro della difesa Elisabetta Trenta. Poi con le forze speciali, secondo i media già almeno dal 2016. Infine con le missioni militari.
Una cosa è certa. Pur se con diverse sfumature e con i soliti contrasti tra partiti, la classe politica, e in particolare i partiti che siedono in parlamento, sono tendenzialmente tutti concordi sulla necessità di salvaguardare gli “interessi nazionali dell’Italia” in Libia. Riassumibili in “sicurezza energetica” e “controllo dei flussi migratori”. Queste sono le parole che utilizzano gli esponenti della maggioranza e i parlamentari dell’opposizione quando intervengono nelle sedi istituzionali, qualcuno talvolta aggiunge la “sicurezza dalla minaccia terroristica”. Ma alcuni, come il ministro degli esteri Moavero durante l’audizione congiunta delle commissioni esteri e difesa di Camera e Senato, giungono ad utilizzare citazioni coloniali, definendo la Libia la “quarta sponda” del paese e sostenendo che sia “molto connaturato il destino della Libia a parte del destino anche della nostra nazione”. Nella stessa audizione l’ex ministro PD Minniti afferma che “la Libia è in qualche modo l’espressione più plastica di cosa significa interesse nazionale fuori dai confini del nostro paese.”
Dal 1945 fino ad oggi avevamo visto guerre terribili che per giustificazione ideologica, ponevano le motivazioni più fantasiose e creative, sempre piene di bontà. Dall’equilibrio tra le potenze alla responsability to protect, per ogni guerra si trovava una legittimazione giustissima grazie al pieghevolissimo diritto internazionale. Oggi forse siamo di fronte a qualcosa di diverso, forse quando l’ideologia diviene la salvaguardia del crudo interesse nazionale, significa che la classe dirigente sta davvero giocando la carta della guerra imperialista.
Opporsi al militarismo e all’imperialismo dell’Italia, e in particolare alla guerra dell’Italia in Libia significa opporsi alla classe politica e dirigente che ci sfrutta e ci governa. Opporsi all’infamità del nuovo colonialismo italiano in Africa, significa anche opporsi al razzismo italiano, che proprio nel colonialismo ha avuto uno dei suoi fondamenti.
Per questo rilanciare su più livelli la lotta antimilitarista è fondamentale, e la manifestazione che si terrà a Gorizia il 3 novembre prossimo, contro le celebrazioni guerrafondaie e militariste della prima guerra mondiale, sarà un appuntamento molto importante.
Dario Antonelli
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