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Vogliam la libertà – Né Dio, Né Patria, Né Famiglia

documento del Gruppo di lavoro 8 marzo della FAI

Vogliam la libertà – Né Dio, Né Patria, Né Famiglia

L’anarchismo non può che essere antisessista e nemico del patriarcato, perché l’eliminazione di ogni relazione di dominio, di ogni esclusione dai processi decisionali, di ogni negazione delle differenze sono suoi elementi costitutivi.
 
Non c’è un solo femminismo. Alcuni sono estranei ad un approccio libertario, che avversa ogni identità escludente. Il femminismo della differenza non mira a spezzare la gerarchia ma solo a capovolgerla, nell’immaginario e nelle relazioni sociali. Questo femminismo è intimamente autoritario perché punta alla conquista del potere, valorizzando le gerarchie al femminile senza intaccare il dominio. È un femminismo che ignora le periferie del mondo, dove sui corpi asserviti nel nome della razza e del genere si combattono guerre senza esclusione di colpi.
 
Il transfemminismo intersezionale, che in questi anni è dilagato per il pianeta, scaturisce dalla percezione dell’estrema violenza della reazione patriarcale ai percorsi di libertà delle donne e di tutte le soggettività non conformi.
 
Contro le donne è in atto una guerra, che mira alla distruzione degli itinerari di libertà ed autonomia che hanno contrassegnato gli ultimi decenni. Questa guerra durissima, nella quale ogni giorno, in ogni dove ci sono morte, ferite, prigioniere ha dato slancio ad un femminismo che sa bene che la posta in gioco è alta, che niente è per sempre, che la lotta al patriarcato è necessaria per ogni reale trasformazione verso la libertà e l’uguaglianza.
 
Il femminismo intersezionale, cogliendo l’intreccio tra il patriarcato e le altre forme di dominio, si pone come uno degli snodi di una critica e di una lotta radicali alle relazioni politiche e sociali in cui siamo forzat* a vivere.
 
 
L’anarcofemminismo si costituisce nell’intreccio tra questi percorsi, facendo leva sulla critica transfemminista agli stereotipi di genere nella prospettiva di un superamento delle identità precostituite, imposte, rigide.
 
L’anarcofemminismo si nutre anche, e non secondariamente, della consapevolezza che un femminismo rivoluzionario deve tagliare definitivamente il cordone ombelicale che troppo a lungo lo ha legato alla retorica dei diritti e delle tutele, tipica della sinistra statalista.
 
La critica femminista deve liberarsi dalla fascinazione dell’istituito e sottrarsi al pantano welfarista. Chi delega allo Stato la propria libertà lascia che sia lo Stato a determinarne possibilità, estensione, modi.
Salute, istruzione, servizi è possibile ed auspicabile che comincino ad essere sottratti al controllo statale, dando forza alla spinta all’autonomia reale che emerge dai movimenti e dalle individualità e che può aprire la via ad un processo di rottura rivoluzionaria.
 
Non solo. Nella forma attuale dello scontro sociale la pratica dell’autogestione è non solo possibile ma necessaria: è tramontata l’epoca dei compromessi e degli ammortizzatori. Il disciplinamento delle donne, in primis quelle povere, è parte del processo di asservimento e messa in scacco delle classi subalterne. Anzi, ne è uno dei cardini, perché il lavoro di cura non retribuito è fondamentale per garantire una secca riduzione dei costi della riproduzione sociale.
 
 
La cultura patriarcale esercita il proprio dominio attraverso la repressione anche sessuale: un filo rosso sangue lega a nodi stretti il patriarcato alla cultura dello stupro. Lo stupro non è una violenza incidentale ma politica, strutturale, terribilmente “normale”. Figlio legittimo della nostra società sostanzia la frattura e segna il destino delle donne, degli uomini e dei loro corpi. La narrazione patriarcale dà all’uomo il ruolo di protettore/liberatore/aggressore – nel senso di procacciatore di spazio vitale – ed alla donna quello di madre/riproduttrice/vittima. In guerra il corpo delle donne diventa un confine biopolitico cruciale, un campo di battaglia dove il maschio aggressore impone il suo dominio con tutta la sua forza e porta un attacco contro il futuro riproduttivo della nazione. La propaganda bellica fa della violazione del corpo femminile un oltraggio estremo alla domesticità ponendo l’enfasi sulla sicurezza e la sacralità della vita familiare. Lo stupro diventa un forte monito per l’uomo affinché assuma il proprio ruolo di guida in un modello di famiglia gerarchica in cui la donna è una creatura debole da dominare e proteggere.
 
Gli stupri di guerra, in molti casi autorizzati ed incoraggiati dalle gerarchie militari, si rivelano strumenti formidabili di genocidio e frantumazione dell’identità di intere popolazioni o etnie.
 
L’elenco delle guerre in cui lo stupro è stato arma potente con cui abbattere l’identità maschile del nemico è lunghissimo. Gli stupri delle armene durante la deportazione genocida iniziata nel 1915, la Bosnia degli anni Novanta o la Ciociaria nel 1945 sono solo esempi di una pratica di dominio, che comincia con l’asservimento delle donne. Anche le missioni di pace sono state segnate da innumerevoli torture sessuali da parte di caschi blu ONU e altri militari “umanitari.” Nel 1992 i parà della Folgore in missione di “pace” in Somalia si distinsero in violenze e stupri.
 
Anche in Italia l’esercito è stato utilizzato nelle nostre strade e la difesa delle donne è stata uno dei pretesti usati per imporre un’ulteriore militarizzazione del territorio. La storia di Rosa, torturata e stuprata all’Aquila da Tuccia, un militare dell’operazione “Strade Sicure”, è emblematica di quali partite di “civiltà” si giochino sui corpi delle donne e delle identità non conformi. La storia di Rosa, purtroppo, è solo una tra tante.
 
Viviamo tempi grami. Potenti gruppi identitari e nazionalisti danno voce alle paure di chi sa che anche nel nord ricco del pianeta ci sono persone senza futuro né prospettive. I movimenti il cui fulcro sono patria, bandiera, famiglia, frontiera offrono un appiglio simbolico che si nutre di identità escludenti, si fanno forti nella negazione violenta dell’altro, che diviene nemico.
 
Stranieri, migranti, profughi sono i nemici che vengono da fuori, i poveri il cui presente potrebbe divenire il nostro futuro. Le donne sono il nemico interno: il loro asservimento è necessario alla riaffermazione della famiglia, nucleo politico ed etico del patriarcato alle nostre latitudini.
 
La famiglia nella sua materialità è l’incubatrice di infinite violenze di genere, luogo “privato”, separato dalla sfera pubblica: non per caso le politiche sociali dei governi di ieri e di oggi mirano ad un forte rilancio della famiglia. La crisi economica, la crescita della disoccupazione e della precarietà lavorativa, i tagli della spesa sociale provocano una perdita di autonomia economica. La famiglia diventa sempre di più il luogo dove convergono il reddito di sopravvivenza e l’assolvimento delle necessità quotidiane.
 
Il rafforzamento della famiglia comporta una riproposizione marcata dei ruoli tradizionali e della morale sessista, che si traduce in una politica a tutto campo in cui convergono sia le forze tradizionaliste reazionarie (Chiesa cattolica, omofobi, fascisti), sia precise politiche governative, sia iniziative paraistituzionali (vedi mozioni presentate in diversi comuni contro la 194).
 
Il rinnovato familismo, nonostante la matrice ultrareazionaria, ha un andamento trasversale: la famiglia è la fortezza intorno alla quale si pretende di ri-fondare un ordine politico e sociale gerarchico ed escludente. A sinistra come a destra, da chi la vorrebbe estesa alle coppie omosessuali a chi la vuole modellata sulla “sacra famiglia.”
In famiglia avvengono quasi l’80% delle violenze denunciate: è quindi una relazione sociale che genera costitutivamente violenza, perché modellata sulla cultura patriarcale di cui la famiglia è cardine. É una struttura gerarchica, fondata sul dominio del corpo, su identità rigide e sulla divisione del lavoro su base sessuale.
Chi cerca di sfuggire ai ruoli imposti altera l’equilibrio, mette a rischio l’ordine sociale. La famiglia è una garanzia di stabilità per i governi che fanno a gara per affermare il valore della fortezza domestica.
 
Le politiche sociali dei vari governi sono state caratterizzate da interventi che trattavano come un tutto unico la donna e la famiglia, perché nella cultura patriarcale la donna è concepita solo come elemento del nucleo familiare. La politica regolata sulla cultura patriarcale non considera la donna come essere indipendente, la inquadra invece sempre all’interno della vita domestica. Il reddito femminile non è concepito come forma di autonomo sostentamento, ma come reddito accessorio, di supporto all’economia familiare, anche quando, sempre più spesso, le donne sono single o separate. Il piano rivendicativo – debolissimo – sostenuto anche da varie organizzazioni sindacali, punta sempre alla conciliazione di tempi lavorativi e tempi da dedicare alla famiglia.
Vanno in questa direzione misure come l’incentivo al part-time, la diffusione dei contratti atipici, particolarmente intensa in un settore fortemente precarizzato come quello del lavoro femminile, il telelavoro, la flessibilità nel congedo per maternità, il welfare aziendale.
La donna lavoratrice si porta dietro la zavorra di moglie-mamma-nuora-figlia-badante anche quando è al lavoro. Il suo ruolo familiare non decade mai. Il divario retributivo tra uomini e donne che svolgono la stessa mansione ancora esiste in molti settori lavorativi. Ci sono economisti che giustificano il gender gap in base ad una supposta minore produttività delle donne, che andrebbero a lavorare come secondo lavoro, dopo quello di cura familiare. Anche se in molti tentano di sminuirla se non negarla, la disparità di genere legata alla retribuzione è reale, come testimonia anche l’ultimo rapporto sul Gender Gap dell’Unione Europea in cui si sostiene, facendo riferimento solo all’emerso, che “la discriminazione è ancora pervasiva sul lavoro: una donna può essere pagata meno di un uomo per lo stesso lavoro”.
 
Ogni anno vengono diffuse statistiche, dal Gender Pay Gap ai dati ISTAT, che “certificano” questa disparità. Le donne, pur essendo la maggioranza come popolazione, sono più numerose degli uomini tra i neet, ossia quelli che non lavorano, non studiano e non cercano lavoro. Le donne che un lavoro lo cercano hanno meno opportunità di trovarlo e quando lo trovano sono pagate meno a parità di mansioni.
La differenza del salario medio tra uomini e donne in Italia è del 10,4%, come dire che le donne prendono, mediamente all’anno, cinque settimane di paga in meno degli uomini. Questi dati dimostrano che nell’immaginario sociale le donne sono ancora legate alla funzione di cura, e ben poco conta la loro autonomia individuale.
 
 
Le politiche familiste dei governi hanno un raggio d’azione assai ampio, che non si limita all’ambito dell’occupazione. Basta guardare le campagne demografiche lanciate dal governo passato e riprese, in perfetta sintonia, da quello attuale. All’ombra di Renzi la ministra Lorenzin lanciò il fertility day per contrastare la decrescita demografica, cercando di colpevolizzare, con una campagna pubblicitaria vergognosa, le donne che non fanno figli sottraendosi, per scelta o per necessità, al proprio “compito” biologico.
 
Il governo attuale tra i suoi primi atti ha riproposto il Patto per la natalità, dove si sostiene che “in ballo c’è il destino di una nazione”. Con toni che richiamano la dittatura fascista e l’enfasi mussoliniana la riproduzione è indicata come dovere sociale per la vita nazionale, compito/destino della donna fattrice, che deve fare figli per la patria.
Nel contratto di governo sono state messe insieme, come questioni di emergenza sociale, le donne, gli anziani e le periferie. Il governo gialloverde, declinando in versione ultrareazionaria politiche già impostate, ha inaugurato il suo mandato attivando il ministero della famiglia e della disabilità, affidato al leghista Fontana, noto per le iniziative antiabortiste, omofobe ed antigender. il ministro Fontana, inoltre, è promotore per il prossimo 30 marzo a Verona del Congresso mondiale della famiglia dell’Iof (International Organization for the Family). Vi parteciperanno esponenti dell’ultra destra fascista europea, tra cui il ministro dell’Interno Italiano.
 
 
Nello scorso autunno la recrudescenza delle politiche familiste si è fatta sentire in modo marcato. Il Disegno di legge Pillon, duramente contestato, non è ancora andato in porto, ma nemmeno è stato ritirato e rappresenta un incredibile attacco al divorzio, con una drastica revisione dell’affido dei figli e dell’assegno di mantenimento. Nel mirino in particolare le donne, elemento economicamente più fragile, per le quali gli ostacoli alla separazione in molti casi sono anche dei limiti alla possibilità di uscire da situazioni di maltrattamenti e violenza.
 
Le iniziative antiabortiste e pro-life hanno trovato spazio crescente nelle sedi istituzionali, come dimostrano le varie mozioni presentate nei consigli comunali e la legge di bilancio 2019 approvata a fine anno. Questa legge ha alcune misure degne di nota. Il reddito di cittadinanza, tra le altre nefandezze che lo caratterizzano, è pensato su base rigorosamente familista, prendendo come riferimento il nucleo familiare anziché la singola persona, in continuità con il suo immediato predecessore, il REI (reddito di inclusione) di renziana memoria. Ma c’è di più: la legge di bilancio prevede, in un delirio neofeudale che lega persona e terra, la concessione gratuita per venti anni di terre demaniali per chi si impegna a fare il terzo figlio entro il triennio 2019-20-21. Si modifica inoltre il congedo di maternità, “consentendo” alle donne incinte di lavorare fino al giorno del parto e riversare i mesi di astensione nel periodo post-partum: una scelta che per tante sarà obbligata, una politica familista gravissima che sposta l’asse dalla tutela della salute della donna alla cura della prole.
 
 
Questo ed altro si fa in nome del patriarcato. Del resto siamo il paese in cui fino al 1956 il capofamiglia deteneva lo ius corrigendi, il diritto di correggere i comportamenti di moglie e figli anche con la “coazione fisica”, dove le disposizioni sul delitto d’onore permangono fino al 1981. Non è solo una questione che si risolve modificando le norme. Di fronte al permanere radicato della cultura patriarcale, di cui sessismo e familismo sono le esplicitazioni sociali e politiche, di fronte alla cultura dello stupro che ancora pretenderebbe di dominare le nostre vite, s’impone, ora più che mai, di affermare in tutte le forme possibili la costruzione e la pratica della libertà.
 
Siamo contro la famiglia, per gli stessi motivi per cui siamo contro lo stato e tutte le religioni. Le nostre vite, le nostre relazioni non si lasciano rinchiudere in un gabbia normativa voluta dalla chiesa o dal governo.
 
Il femminismo libertario ed anarchico si fonda su una critica radicale dell’istituito, perché ciascun* percorra la propria esistenza con la forza di chi si libera da obblighi e catene.
 
Lo sguardo femminista è indispensabile in un processo rivoluzionario che punta al sovvertimento in senso anarchico di un ordine sociale e politico basato sull’oppressione, lo sfruttamento, la guerra, la negazione delle differenze.
 
Il percorso di autonomia individuale si costruisce nella lotta contro le regole sociali imposte dallo Stato e dal capitalismo. Relazioni libere, plurali, egualitarie si rinforzano nella pratica della solidarietà e del mutuo appoggio.
 
Gruppo di Lavoro “8 marzo” della Federazione Anarchica Italiana
documento pubblicato su Umanità Nova n. 8 del 10/03/19

Umanità nova si può trovare a Livorno:

Edicola P.zza Grande (angolo via Pieroni)
Edicola Via Garibaldi 7
Edicola P.zza Damiano Chiesa
Edicola Porto (Piazza Micheli lato Quattro Mori)
Edicola viale Carducci angolo Viale del Risorgimento
Edicola Dharma – viale di Antignano
Bar Dolcenera via della Madonna 38
Pub “Birra Amiata House” – via della Madonna, 51
Federazione Anarchica Livornese – via degli Asili 33

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