articolo pubblicato su Umanità Nova n. 11 del 3 aprile 2022
Opporsi alla guerra significa prima di tutto agire là dove la guerra comincia. Perché se senza dubbio la guerra è là dove cadono le bombe, è poi nei palazzi dei governi, nei comandi militari, nelle sedi degli industriali e nei grandi centri finanziari che si decide della vita di milioni di persone, è là che inizia la guerra.
Per questo essere in Piazza Affari a Milano sabato 2 aprile per la manifestazione antimilitarista che avrà inizio alle 14:30 ha un significato molto importante. Il centro finanziario del paese, dove ha sede la Borsa, è certamente uno dei luoghi dove dobbiamo portare la nostra voce per indicare dove siano le responsabilità del massacro. Un impegno che oggi si fa sempre più urgente con la guerra in Ucraina, con il rischio di estensione del conflitto ad altri paesi e con il pericoloso coinvolgimento militare dell’Italia ma che già prima dell’inizio dell’invasione russa era importante, per contrastare il militarismo e l’imperialismo dell’Italia, e in particolare l’invio dei contingenti militari all’estero.
L’ENI – principale compagnia italiana del settore energia e idrocarburi – è l’obiettivo centrale della campagna antimilitarista di cui la manifestazione milanese è tappa fondamentale. Il colosso dell’industria degli idrocarburi è infatti uno dei principali strumenti della politica estera dello Stato italiano e, sicuramente, è l’elemento forte della sua nuova proiezione militare in Africa. L’ENI continua ad essere sotto il controllo dello Stato italiano, che ne è il principale azionista attraverso Ministero del Tesoro e Cassa Depositi e Prestiti e, al contempo, detiene nei confronti della società dei poteri speciali tramite il Ministero dell’Economia e delle Finanze e il Ministero dello Sviluppo Economico.
La società del “cane a sei zampe” ha da sempre una dimensione multinazionale, con impianti e infrastrutture in vari paesi del mondo ed ha costruito nel corso dei decenni una forte presenza nel continente africano. Algeria, Angola, Repubblica del Congo, Costa d’Avorio, Egitto, Gabon, Ghana, Kenya, Libia, Marocco, Mozambico, Nigeria, Tunisia e, fino a quest’anno, anche Sudafrica. Questi gli stati africani in cui ENI è presente in modo più o meno diretto, con impianti di estrazione di petrolio e gas, impianti di trasformazione, raffinerie, centrali, condutture, progetti commerciali, di esplorazione e ricerca di giacimenti, di formazione, con progetti di sviluppo delle cosiddette energie di transizione, che comprendono il solare come i biocarburanti e gli agrocarburanti per la cui produzione è prevista, come in Congo, la coltivazione intensiva per la produzione industriale dell’olio di ricino. Da decenni dirigenti dell’ENI accompagnano le missioni diplomatiche italiane ma, negli ultimi anni, la difesa degli impianti della multinazionale è entrata nelle motivazioni ufficiali per l’invio di truppe italiane all’estero, come nel caso della missione navale nel Golfo di Guinea, nella cui scheda di presentazione della missione al Parlamento era ben evidenziato, tra gli obiettivi dell’intervento militare, la “difesa degli asset estrattivi ENI”.
L’ENI è quindi un elemento centrale della politica neocoloniale dell’Italia e della sua nuova proiezione strategica in Africa, che ha tra i suoi strumenti l’intervento militare in senso offensivo e aggressivo nel rafforzamento della politica predatoria dello stato italiano in quei paesi. Una politica che sta portando le truppe italiane nella regione del Sahel dove la guerra si fa sempre più sanguinosa e dove con i colpi di Stato salgono al potere giunte militari che impongono una stretta autoritaria sulla popolazione e proseguono nella spirale di guerra. La devastazione umanitaria, materiale, sociale, ecologica che la guerra guerreggiata, il neocolonialismo e l’estrattivismo portano in questi paesi trova nel “cane a sei zampe” uno dei suoi principali attori. Per questo essere a Milano, dove ha sede il centro direzionale ENI e in Piazza Affari, dove viene quotata la multinazionale italiana dell’energia è una tappa fondamentale per la costruzione di un ampio movimento antimilitarista che sappia creare intersezioni con la lotta ecologista, sindacale, antipatriarcale, oltre che con il nuovo movimento studentesco che ha animato le scuole e le piazze di tutto il paese negli scorsi mesi.
«Contro la guerra e chi la arma»: con questo slogan è stato convocata la manifestazione di Milano dall’Assemblea Antimilitarista, rete nata proprio nel capoluogo lombardo lo scorso 9 ottobre e che cerca di collegare a livello nazionale realtà impegnate in vario modo contro il militarismo. Da chi si oppone ai poligoni e alle servitù militari, a chi denuncia i movimenti del mercato delle armi, lotta contro l’industria bellica, contro le installazioni USA e NATO, contro la militarizzazione delle città, la propaganda di guerra nelle scuole e il greenwashing dell’esercito, fino a chi conduce campagne per il ritiro delle missioni militari italiane all’estero, per il disarmo, contro l’aumento delle spese militari e i tagli alla spesa sociale.
Sono gruppi anarchici, organizzazioni sindacali, associazioni, forze politiche, circoli, centri di documentazione, collettivi, comitati, coordinamenti, realtà unitarie che vanno pian piano costituendosi a livello locale ad animare questa Assemblea Antimilitarista. Una rete che ha individuato tra punti di intervento comune l’opposizione alle missioni militari dell’Italia e il contrasto della politica guerrafondaia di cui l’ENI è elemento centrale. Oltre alle assemblee di confronto e organizzazione in questi mesi la rete ha lanciato la manifestazione antimilitarista del 20 novembre a Torino contro l’Aerospace & Defence Meetings che ha portato in piazza centinaia di persone contro la fiera delle armi che ogni due anni si tiene nel capoluogo piemontese.
La manifestazione del 2 aprile era nata prima che il conflitto in Ucraina portasse al centro del dibattito pubblico la questione della guerra. L’impegno enorme che molte realtà territoriali hanno avuto nelle ultime settimane per le attività contro la guerra sicuramente non ha permesso di concentrare – almeno quanto avremmo voluto – tutte le energie sulla manifestazione milanese. Al contempo però questa nuova tragica situazione carica di ulteriore significato la manifestazione di Milano.
Il convegno di approfondimento dello scorso 19 marzo che ha visto partecipare decine di persone da varie località, ha infatti posto al centro oltre alla questione dell’energia, dell’ENI, delle missioni in Africa, anche una specifica lettura antimperialista della guerra in Ucraina. Il conflitto nell’Europa orientale dopotutto si inserisce in un riorientamento dell’approvvigionamento energetico, in uno scontro tra le potenze attorno alla questione dei gasdotti, in una ridefinizione dell’imperialismo europeo nella generale crisi dell’egemonia aggravata dalla pandemia che ha contribuito a trasformare la lunga escalation sui confini della Russia in guerra vera e propria.
L’ENI è ben presente anche in questo scenario. In particolare la multinazionale italiana ha forti interessi in Kazakistan ed è proprio in un impianto petrolifero a Zhanaozen controllato da ENI tramite Saipem che, nel dicembre 2011, dopo mesi di sciopero dodici persone sono state uccise dalla polizia durante la repressione delle proteste. Proprio Zhanaozen è stato uno dei centri da cui è iniziata l’insurrezione popolare che ha fatto tremare il regime kazako nei primi giorni del 2022. Quando le truppe russe sono entrate in Kazakistan a inizio gennaio per affiancare il governo locale nella sanguinosa repressione del movimento insurrezionale, le armi della Russia sparavano anche per difendere gli interessi dell’ENI.
L’energia è quindi uno dei fattori al centro delle politiche di guerra dei governi: lo chiarisce anche la relazione del COPASIR sulla sicurezza energetica in cui si indica la necessità di riorientare alla difesa dell’interesse nazionale le politiche di sicurezza dello Stato. Lo confermano le motivazioni che esponenti del governo presentano per giustificare le missioni militari all’estero, con una trasformazione della propaganda in cui la “missione umanitaria” lascia sempre più spesso spazio alla sovranista e autoritaria “difesa degli interessi nazionali”.
Questa è la verniciatura ideologica del nuovo ciclo di guerra e riarmo che viviamo anche in Italia. Perché l’interesse nazionale di cui si parla è solo l’interesse dei governi e dei capitalisti, perché spesso la strada che scelgono i governi per l’approvvigionamento energetico non risponde a scelte di mercato che seguono criteri di semplice efficienza economica ma sono legati a indirizzi politici e militari, o servono da giustificazione per alimentare gli apparati militari che nelle nostre società hanno assunto un ruolo sempre più importante a livello di politica pubblica negli ultimi anni. Purtroppo l’involuzione militare e autoritaria di cui abbiamo spesso parlato nei tempi più recenti sta rapidamente arrivando a maturazione e le conseguenze non sono facilmente prevedibili.
In questo momento si aprono spazi di intervento per il movimento anarchico e per gli antimilitaristi in generale. Mentre si restringono gli spazi di libertà e l’agibilità politica nella società, diviene necessario costruire un’opposizione chiara e coerente al militarismo e alla guerra, una rete solidale che sappia sostenere l’impegno concreto di chi cerca di inceppare la macchina dello sforzo bellico. La piazza di Milano sarà una tappa di questo difficile percorso, per ribadire con chiarezza una posizione disfattista, antimilitarista, internazionalista.
Dario Antonelli