Riflessioni sparse su Fridays For Future
DAL CLIMATE STRIKE ALLA CONVERGENZA
[articolo tratto dal settimanale anarchico Umanità Nova n. 22 del 9 ottobre 2022]
Raccontare oggi il movimento per la giustizia climatica Fridays for Future è complesso. In primo luogo per le sue tante anime, in secondo luogo per le forme diverse in cui si sostanzia in differenti parti del paese. Si può però tentare di coglierne le evoluzioni e di guardare ai processi in corso, consapevoli che non esauriscono la comprensione di questa galassia ma ci danno dei sostanziali indizi e ci mostrano spazi di azione e interstizi che si aprono per una lotta radicale a questo sistema.
Sono stata per diversi anni attivista di Fridays for Future, salvo farmi da parte nel momento in cui una generazione molto più giovane della mia ha preso le redini del gruppo oramai in frammentazione (per più motivi, tra cui l’urgenza di migrare alla ricerca di lavoro o di tornare alla propria città natale finiti gli studi non potendosi permettere di pagare un affitto, una condizione strutturale nella nostra generazione precaria), provando a radicarlo nelle scuole. Tuttavia questa esperienza è stata molto formativa da un punto di vista politico. Ricordo molto bene, nella fase iniziale di questo movimento, la costante raccomandazione – che a volte assumeva toni di giudizio e condanna – da parte di gruppi molto politicizzati che salivano in cattedra a ricordare che l’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio. Mi sono avvicinata a FFF provenendo da una militanza in collettivi radicati nella cultura della sinistra antagonista e come me moltx altr si sono
unitx a FFF provenendo da percorsi di militanza anticapitalista, per cui capivamo bene questi timori.
Eppure, mettendo in discussione non i nostri principi ma la nostra postura all’interno di questo movimento, ovvero accettando che – forti del nostro passato militante – non avremmo insegnato niente a nessuno, ma avremo discusso e imparato tutto insieme, abbiamo visto innescarsi processi molto importanti e radicali, che non erano il risultato di un discorso militante assunto da un nuovo movimento, ma l’esito di un processo che ha messo in dialogo visioni e linguaggi differenti e ha immaginato nuove pratiche, andando alla radice del problema.
Persone completamente nuove alla politica ci hanno costrettx a ripensare il lavoro militante, e ci hanno mostrato un campo di possibilità a cui non eravamo capaci di guardare. Così, in questo continuo scambio il più possibile orizzontale e dialettico, lo slogan “diamo voce alla scienza”, è
diventato “va bene la scienza, ma questa va letta dentro specifici rapporti di potere”. Le timide prese di posizione contro le grandi opere devastanti di questo paese sono diventate, nel corso dei mesi, ferme condanne al paradigma energivoro e predatorio della grande opera, portando questo movimento ad attraversare i sentieri della Valsusa contro TAV, i campi di Coltano contro la nuova base militare, le strade di Ravenna contro il CCS [progetto di cattura e stoccaggio della CO2, ndr]. L’appello a ridurre le emissioni di CO2 si è saldato ad una lottaaffinché “chi ha inquinato paghi”.
Tutto ciò ha significato guardare al cambiamento climatico individuandone gli effetti e i responsabili a partire da ciò che abbiamo immediatamente fuori dalla nostra porta di casa. Trovare degli spazi di azione e conflitto concreti attraverso cui declinare territorialmente la lotta per la giustizia climatica, senza perdere il quadro di riferimento globale di questo lotta.
Ma non solo. Questo ha significato anche guardare alla questione ecologica come una questione di rapporti di potere, rifiutando quelle narrazioni che dipingono la natura come un terreno pacificato e la crisi climatica come una sfida che ci vede tutti sulla stessa barca, appiattendo le tensioni e asimmetrie che connotano profondamente questo campo di azione.
Non a caso, a pochi mesi dalla nascita di questo movimento nel marzo 2019, sono iniziate le campagne contro specifici soggetti come grandi aziende delfossile, multinazionali della logistica, marchi della fast fashion ed altre. La campagna Enemy of the planet ha portato vari gruppi di FFF difronte ai cancelli delle raffinerie di ENI, Block Friday ha portato – nella giornata del black Friday – al blocco di grandi catene della logistica come Amazon e di moda come Zara, giusto per fare degli esempi.
Va dunque riconosciuto a FFF, con tutti i limiti che pure esistono e persistono, di aver puntato il dito contro i responsabili del degrado ecologico e del cambiamento climatico riuscendo a portare questo livello di analisi e conflitto fuori da circuiti militanti. Al contempo, non possiamo ignorare il fatto che questo processo non ha avuto luogo allo stesso modo e con la stessa intensità in tutto il paese e che non c’è una totale simmetria in termini di visioni e prospettive tra i gruppi locali e coloro che riempiono le piazze durante i climate strikes. Questi elementi fanno senz’altro di FFF un movimento a più velocità, all’interno del quale si stanno tuttavia tratteggiando nuovi orizzonti e nuove alleanze che potrebbero mutarne la traiettoria.
Fridays for Future, cambiamento climatico e questione operaia
Quando si è iniziato a leggere la questione ecologica come una questione di rapporti di potere, si è colto il fulcro dell’ingiustizia ambientale. L’accesso alla natura e l’esposizione al degrado ecologico non solo uguali per tuttə, ma dipendono dalla stratificazione di oppressioni legate a genere, classe, provenienza, età ed altre, che rendono alcune soggettività più esposte di altre all’ingiustizia ambientale.
In questo contesto, ciò che più risulta paradossale è stato il sedimentarsi, negli ultimi decenni, di un conflitto tra diritto ad un ambiente sano e diritto al lavoro, specie nei territori in cui vi è una consolidata presenza di raffinerie, industrie siderurgiche, chimiche, e in generale fabbriche fortemente impattanti sull’ambiente e sul clima. Eppure, la classe operaia è la più esposta sia al degrado ambientale, a causa della sua interazione quotidiana con la nocività, che al cambiamento climatico, come dimostrano le varie vittime che ci sono state in Italia sui luoghi di lavoro a causa di ondate di calore e il sensibile aumento di incidenti a lavoro connessi allo stress termico (4mila incidenti in più l’anno in Italia secondo l’Inail).
Come se non bastasse, sulle spalle della classe lavoratrice vengono oggi scaricati i costi delle politiche “ambientali” e di “transizione ecologica”. Dalla misura di alzare il prezzo del carburante per ridurre le emissioni di CO2 decretata in Francia nel 2018, che ha portato all’insorgere del movimento dei Gilets Jaunes per lo più a composizione proletaria e proveniente dalle periferie e dalle aree rurali, al licenziamento dei lavoratori GKN di Campi Bisenzio nel 2021 in nome della transizione all’auto elettrica (un mercato che in Italia non risulta essere competitivo secondo l’azienda) la dimensione classista di queste politiche ambientali è emersa in tutta la sua evidenza.
Questo ha aperto concretamente un nuovo terreno di lotta per il movimento per la giustizia climatica, in Italia e nel mondo. La mobilitazione di questa componente operaia ha riaperto una frattura latente, quella tra vita e capitale, che sembrava sopita, frammentata in altre mille tensioni incapaci di connettersi e intersecarsi, o scavalcata dalla frattura ambiente-lavoro che sembrava oramai inscalfibile e naturale.
Se le lotte in fabbrica negli anni ’70 in Italia ci parlano di una storia diversa, in cui la classe operaia assume protagonismo dentro la grande “primavera ecologica” di quegli anni ottenendo significativi miglioramenti ambientali nei luoghi di lavoro – e conseguentemente nell’ambiente esterno – e trasformando l’approccio dell’intero Sistema Sanitario Nazionale a partire dalla prevenzione, le lotte che si stanno oggi sviluppando in alcuni luoghi di lavoro ci ricordano che questo conflitto apparentemente cristallizzato è in realtà socialmente costruito dal capitale, e che contro questa dinamica si può agire.
Rispetto a questo spazio di conflitto che si è aperto, animato da lavorator* che giustamente non vogliono pagare il prezzo di una transizione ecologica che risulta essere una grande accumulazione di capitale in chiave “green”, Fridays for Future si è ben inserito, lavorando ad una alleanza e convergenza con la componente operaia.
Questo è avvenuto con il Collettivo di Fabbrica GKN di Campi Bisenzio, portando a due connesse giornate di mobilitazione il 25 e 26 marzo di quest’anno, ma anche a Civitavecchia, dove operai e movimenti ecologisti stanno insieme lavorando per bloccare la riapertura della centrale a carbone e riconvertirne la produzione secondo adeguati standard ambientali e sociali.
Dagli scioperi climatici che mettevano al centro la voce della componente studentesca, che chiedeva retoricamente al mondo a cosa servisse loro continuare a studiare per un futuro che gli è stato sottratto, questo giovane movimento è arrivato a bloccare le catene di distribuzione, contestare le grandi compagnie energetiche tanto ai cancelli delle raffinerie quanto sotto i palazzi in cui si tengono le assemble e degli azionisti, a denunciare la speculazione sulle fossili di banche come
Intesa San Paolo o Unicredit, a occupare le strade con gli operai. Di tutto questo processo è fondamentale tenere conto quando parliamo del movimento ecologista e ci interroghiamo su di esso. È necessario tenerne conto per capire la natura processuale dei movimenti. Le piazze – come
quella del 23 settembre – ci raccontano qualcosa, ma cosa succede tra una piazza e l’altra? Che spazi di confronto si costruiscono? Che relazioni si alimentano? In questa descrizione potrebbero rispecchiarsi tutti i gruppi locali di FFF? Non credo. E naturalmente anche la mia è una prospettiva parziale, che riguarda quel che ho visto, vissuto e contribuito a costruire.
Da militante, oggi esterna a FFF, mi interrogo su questo spazio di lotta, su come attraversalo, contaminarlo e farmi contaminare, senza la pretesa di fornire un giudizio o di insegnare niente a nessuno. Penso sia importante chiedercelo tuttx, e prenderci cura di un terreno di lotta e dialogo che si è aperto, che potrebbe domani chiudersi oppure espandersi, intrecciandosi con tutte le altre lotte che tagliano trasversalmente la questione ecologica. Proprio perché riguarda il diritto stesso a respirare, a mangiare, a bere acqua, in sostanza a vivere, la natura è il terreno più politico che ci possa essere.
Paola Imperatore