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DISOCCUPATI, SOTTOCCUPATI, PRECARI: L’UNIONE È LA NOSTRA FORZA!

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DISOCCUPATI, SOTTOCCUPATI, PRECARI:
L’UNIONE È LA NOSTRA FORZA!

Livorno è la città toscana con il più alto tasso di disoccupazione; drammatica la disoccupazione giovanile, che nel 2012 arrivava al 59% nella fascia 14/24 anni (al netto degli studenti), per non parlare degli scoraggiati, della cassa integrazione, delle liste di mobilità, degli esodati; collegata alla disoccupazione c’è anche l’emigrazione: Livorno ha più di 11mila residenti all’estero, il 7% degli abitanti, ed è all’unidicesimo posto tra i comuni italiani, ed è collegata anche la sottooccupazione: si tratta di lavoratori a tempo indeterminato che hanno un orario di lavoro inferiore a quello contrattuale, e percepiscono una retribuzione inferiore.
Intanto il nuovo sindaco non se ne occupa, segno dell’indifferenza e dell’impotenza delle istituzioni.

Il governo fa propaganda sulla disoccupazione giovanile: prima delle elezioni europee aveva annunciato un vertice europeo, annuncio che dopo le elezioni è stato rinviato a data da destinarsi. Al di là della propaganda, l’azione concreta del governo italiano e dell’Unione Europea ha come risultati il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro degli sfruttati, l’ulteriore crescita della precarietà e l’attacco alle libertà politiche e sociali. Il modello Renzi, di cui il job act fa parte, sta rendendo tutti i lavoratori ancor più precari di quanto non lo erano già.
La soluzione del problema della disoccupazione è nelle nostre mani: dobbiamo unirci, portare la nostra protesta tutti i giorni davanti alle istituzioni. I disoccupati hanno il diritto di rivendicare la casa e il soddisfacimento dei bisogni essenziali, per sé e le loro famiglie e, di fronte all’indifferenza delle istituzioni, provvedere con l’azione diretta.
Lo straordinario, il sabato lavorativo, il lavoro festivo, l’innalzamento dell’età per andare in pensione hanno aggravato la disoccupazione, hanno aggravato la condizione dei giovani.
Bisogna costruire un fronte di lotta comune fra disoccupati, precari e lavoratori a tempo indeterminato, per la riduzione dell’orario e del tempo di lavoro.
Ovunque persone senza lavoro e, accanto ad esse, mezzi di produzione inutilizzati, terreni incolti, a fronte di bisogni insoddisfatti, dalla casa, alla salute, all’istruzione; gli sfruttati possono risolvere questa contraddizione levando ai capitalisti il possesso dei mezzi di lavoro e quindi la direzione della produzione.
La soluzione dei nostri problemi non può venire né dai capitalisti né dalle istituzioni:
nessuna fiducia a chi è al governo e a chi vuole andarci!

Discutiamone insieme

Mercoledì 2 luglio alle ore 21,30, presso la sede della Federazione Anarchica Livornese – Via degli Asili 33, Livorno.

Organizzano:
CIB-Unicobas
Collettivo Anarchico Libertario
Federazione Anarchica Livornese

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Ancora sangue in Turchia

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Ancora sangue in Turchia

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Nel Kurdistan turco l’opposizione che da sempre la popolazione ha dimostrato contro la militarizzazione del territorio, si è sviluppata alla fine dello scorso maggio in un forte movimento di resistenza popolare contro la costruzione di nuove caserme militari. La militarizzazione del Kurdistan condotta dal governo turco guidato da Recep Tayyip Erdoğan, leader del partito conservatore-religioso AKP, è stata portata avanti nonostante il processo di pace in atto da quando il PKK, il 21 marzo del 2013, aveva annunciato il cessate il fuoco ed iniziato a ritirare i propri guerriglieri dal territorio turco.

Da aprile nuove azioni di protesta avevano posto l’attenzione sull’inasprimento della militarizzazione dei distretti orientali della Turchia e sull’accelerazione dei lavori per la costruzione di nuove postazioni militari. Dal 24 maggio poi la protesta si è estesa, assumendo forme più radicali. La popolazione ha infatti organizzato alcuni blocchi sulla strada Diyarbakir-Bingöl allo scopo di impedire il passaggio dei mezzi da lavoro per i cantieri delle installazioni militari, e per rallentare l’arrivo di nuove truppe.
Sabato 7 giugno le forze speciali turche hanno lanciato un attacco per disperdere i blocchi stradali a Lice, uno dei principali centri della resistenza. Nel corso degli scontri le forze di sicurezza turche hanno aperto il fuoco sui manifestanti disarmati, uccidendo Ramazan Baran, 24 anni, e Abdulbaki Akdemir, 50 anni. Altre persone sono rimaste ferite. Il giorno seguente manifestazioni contro la repressione ed in solidarietà con la popolazione di Lice si sono tenute in moltissime città della Turchia, tra cui Istanbul, Izmir e Adana. Ad Istanbul ci sono stati duri scontri tra manifestanti e polizia nei quartieri di Okmeydanı e Gazi; mentre a Diyarbakır, principale città del Kurdistan, migliaia di persone hanno preso parte al corteo funebre di Ramazan Baran, che si è trasformato in una vera e propria manifestazione di rabbia contro la brutalità della repressione messa in campo dal governo turco, al termine della quale ci sono stati duri scontri con la polizia.
La strage di Lice non ha fatto che estendere la protesta a tutto il Kurdistan. Nei giorni seguenti infatti si sono moltiplicate le manifestazioni, alle quali il governo turco ha reagito ancora con la brutale repressione. Il 9 giugno a Siirt un ottantenne è morto, sopraffatto dai gas lacrimogeni. Un altro ragazzo di sedici anni è stato ucciso domenica 15 giugno ad Adana, colpito alla testa da una granata stordente della polizia sparata a distanza ravvicinata. Sono quattro per ora i manifestanti uccisi dal terrorismo di Stato in questi giorni, i feriti sarebbero sedici, mentre tra i quasi duecento fermati, a diciannove sarebbe stato confermato lo stato di custodia.

I movimenti curdi hanno denunciato il comportamento del governo turco come provocatorio ed ipocrita, volto a far saltare ogni possibilità di soluzione per il processo di pace in corso, affermando che dall’inizio del processo l’esecutivo guidato da Erdoğan non ha fatto alcun passo reale nel senso della pacificazione.
Il governo turco in effetti ha continuato ad installare nuove strutture militari e ad inviare truppe di rinforzo in Kurdistan, tanto che già lo scorso anno si erano registrate manifestazioni contro le nuove caserme. Fu proprio nel distretto di Lice che, il 28 giugno 2013, le forze di sicurezza turche spararono su una manifestazione contro la costruzione di una avamposto militare della Gendarmeria, uccidendo il diciottenne Medeni Yıldırım e provocando diversi feriti.

Ancora una volta Lice è centro della resistenza popolare contro la militarizzazione condotta dal governo turco. Ancora una volta lo Stato turco reprime nel sangue ogni protesta.

Certamente però la tensione degli ultimi mesi in Kurdistan non è esclusivamente dovuta all’installazione di nuove strutture militari. La popolazione infatti, protestando contro la militarizzazione e la repressione, contesta non solo al governo l’atteggiamento provocatorio tenuto nell’ambito del processo di pace, ma anche la forte impronta autoritaria che, più in generale, caratterizza l’esecutivo di Erdoğan nella sua azione di governo. Questo avviene in un periodo complesso per la Turchia. In primo luogo il ciclo di lotte che si è aperto lo scorso anno con la rivolta nata da Gezi Park appare ben lontano dal concludersi, sembra anzi aver aperto nuovi scenari di conflitto sociale in Turchia. Il movimento della scorsa estate infatti sembra aver dato nuovo respiro alle lotte dei lavoratori, mentre l’opposizione alla repressione ed al fascismo del governo diviene naturale punto di contatto tra la sinistra rivoluzionaria turca ed i movimenti curdi.
In secondo luogo le elezioni presidenziali che si terranno nel mese di agosto saranno certamente un punto di svolta per il paese. Per la prima volta in Turchia si terranno infatti elezioni dirette per la Presidenza della Repubblica, carica dal ruolo fino ad ora limitato, ma che con le riforme volute dal governo verrà ad assumere nuove funzioni e ad estendere il proprio potere.
Proprio Erdoğan dovrebbe essere il candidato dell’AKP alla Presidenza, ma il suo nome non è stato ancora ufficializzato: il partito al governo infatti aspetterà la fine di giugno per esprimere il proprio candidato. Il CHP invece, partito della sinistra “kemalista”, repubblicana, autoritaria e laica, ha stretto il 16 giugno uno storico accordo con il partito ultranazionalista di estrema destra MHP, per esprimere un nome comune per le presidenziali: il candidato dei due principali partiti d’opposizione sarà Ekmeleddin İhsanoğlu, ex segretario generale dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica, un candidato forte perché può far confluire all’opposizione anche parte dei voti religiosi.
Nelle elezioni presidenziali i due partiti che sostengono i diritti della popolazione curda e che siedono in parlamento, il BDP e l’HDP, giocheranno certo un ruolo determinante. Questi partiti hanno dichiarato che concorreranno al primo turno con un proprio candidato, mentre per il secondo turno valuteranno quale candidato possa dare garanzie su libertà, democrazia e questione curda.
In questa ottica il BDP e l’HDP non ritengono che la politica dell’AKP ed in particolare la figura di  Erdoğan possa offrire tali garanzie. Il 12 giugno, in un incontro con il leader del CHP Kemal Kılıçdaroğlu, esponenti di BDP e HDP avevano valutato come possibile il proprio sostegno, nel secondo turno delle votazioni, al CHP, qualora il candidato dell’opposizione assicuri le garanzie da essi richieste. Certo il patto stretto dal CHP con il partito ultranazionalista MHP, su posizioni razziste, legato ai Lupi Grigi, e che ha da sempre attaccato anche fisicamente le minoranze, potrebbe escludere il sostegno dei curdi al candidato dell’opposizione.

Mancano meno di due mesi al primo turno delle presidenziali e lo scenario elettorale appare sempre più fosco per gli sfruttati, per chi lotta contro l’oppressione. Ma noi sappiamo bene dove guardare, la soluzione è nella lotta contro il terrorismo di Stato e contro la devastazione capitalista, la soluzione è nelle lotte quotidiane, che si intrecciano creando reti di solidarietà, al di là dei confini e degli accordi di partito.

Dario Antonelli

 

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Questo articolo sarà pubblicato su “Umanità Nova” n. 21 del 22 giugno 2014.

Puoi acquistare il nuovo numero del settimanale anarchico presso le edicole di Piazza Garibaldi, Piazza Damiano Chiesa e di Piazza Grande (angolo Bar Sole), presso l’edicola Dharma Viale di Antignano 110, la Libreria Belforte in Via della Madonna e presso la sede della Federazione Anarchica Livornese in Via degli Asili 33 (apertura ogni giovedì dalle 18 alle 20)

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LA SETTIMANA ROSSA CONTINUA!

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LA SETTIMANA ROSSA CONTINUA!

Sono passati cento anni dalla Settimana Rossa, un movimento popolare spontaneo di rivolta iniziato il 7 giugno del 1914 in seguito all’assassinio di tre dimostranti da parte dei carabinieri in Ancona. La rivolta si estese in moltissime città e terminò dopo una settimana a causa del tradimento dei dirigenti del PSI e della CGL, che si ritirarono dalla lotta determinando un ulteriore inasprimento repressivo
Il 7 giugno 1914 i gruppi anarchici, quelli antimilitaristi, l’Unione Sindacale Italiana, i giovani socialisti, il Partito Socialista e il Partito Repubblicano si erano accordati per una manifestazione di protesta antimilitarista e antimonarchica, da realizzarsi in tutto il Paese nel giorno in cui la monarchia celebrava la sua festa. L’eccidio di Ancona ha come risposta lo sciopero generale in città e in tutta Italia; il movimento si estende rapidamente nelle Marche e in Romagna, mentre scontri si hanno in tutte le principali città italiana, scontri che il governo affronta con la massima repressione, mobilitando completamente l’esercito.
Il movimento anarchico fu l’anima della lotta, come lo era stato nella campagna antimilitarista per la liberazione di Augusto Masetti.
Lo sviluppo del Movimento anarchico negli anni che precedettero la Settimana Rossa è legato al lavoro di chiarificazione teorica, all’elaborazione dei valori dell’anarchismo, al consolidamento delle relazioni fra gruppi e compagni, alla definizione di un programma comune e rivolto all’intervento nel movimento operaio, combattendo le influenze borghesi che penetravano nel movimento e superando l’individualismo fine a se stesso; allo stesso tempo in questi anni venivano anche precisati obiettivi pratici e di organizzazione rivoluzionaria.
Questo lavoro aveva visto come protagonisti Pietro Gori, Luigi Fabbri, Luigi Bertoni, Errico Malatesta, per citare solo i più noti, e si era sviluppato attraverso periodici, come “L’Agitazione”, “Il Pensiero”, “Volontà”.
Ricordare oggi la Settimana Rossa significa ricordare non solo il ruolo determinante delle lotte antimilitariste nello scontro con i governi, ma anche il percorso di sviluppo che attraversò allora il movimento anarchico, percorso che può darci utili insegnamenti nella costruzione di una forza rivoluzionaria all’altezza delle attuali esigenze di trasformazione sociale .

GIOVEDI’ 19 GIUGNO
presso
FEDERAZIONE ANARCHICA LIVORNESE v.Asili 33

serata di rievocazione, dibattito e attualizzazione
nel centenario della SETTIMANA ROSSA

ore 20 aperitivo
ore 21 dibattito

Federazione Anarchica Livornese
Collettivo Anarchico Libertario

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Fascisti italiani in Ucraina, a Donetsk come a Kiev.

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Fascisti italiani in Ucraina.

A Donetsk come a Kiev.

Dopo i numerosi articoli che nelle scorse settimane hanno fatto luce sulla presenza di fascisti italiani in Ucraina tra i gruppi armati neonazisti che sostengono e compongono il governo di Kiev, si ricordi in proposito il caso di Francesco Fontana, il 10 giugno RaiNews ha dato notizia dell’arrivo di un gruppo di volontari italiani a Donetsk per combattere le truppe di Kiev. La notizia è stata ripresa anche da altre testate italiane.

 

http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/A-Donetsk-sono-arrivati-volontari-italiani-per-combattere-le-truppe-di-Kiev-9480d2a5-99e6-48d2-b884-36cad0c80999.html?refresh_ce


RaiNews indica questi volontari come “membri dell’organizzazione antifascista italiana Millennium” ed afferma che “sono giunti a Donetsk dove saranno inquadrati nelle milizie paramilitari filorusse comandate dal sedicente comandante in capo delle forze armate della Repubblica Popolare di Donetsk, Igor Strelkov.”
Stando all’articolo la notizia sarebbe stata lanciata dal portale russo Lifenes.ru, che avrebbe citato la pagina di Pavel Gubarev, Governatore del popolo della Repubblica di Donetsk.
Secondo quanto riportato da RaiNews, Gubarev afferma “che gli italiani «hanno espresso la volontà di sostenere la Repubblica Popolare di Donetsk nella sua resistenza contro le autorità di Kiev che conducono le operazioni militari contro il proprio popolo nel Sud-Est dell’Ucraina». Gli italiani saranno messi a disposizione del comandante in capo Igor Strelkov e intendono anche attivare un canale per la raccolta in Italia e l’invio a Donbass degli aiuti umanitari.”
L’articolo si chiude riportando che “Il sindaco popolare di Donetsk Pavel Gubarev ha confermato inoltre la presenza dei volontari russi e polacchi in diverse formazioni militari dei separatisti. Sempre secondo Gubarev, in breve i separatisti intendono costituire delle vere e proprie formazioni militari, una sorta di brigate internazionali composte da volontari stranieri, con la partecipazione di italiani, spagnoli, francesi e canadesi.”

Chi sono questi volontari?

L’articolo di RaiNews è corredato da una foto in cui tre persone tengono una bandiera tricolore italiana in cui campeggia, al centro, una stella rossa. Sullo sfondo una grande scritta “Новороссия” (Nuova Russia), che sovrasta, su una sagoma, la bandiera dell’omonimo Stato nella quale è rappresentata una croce di Sant’Andrea nei colori bianco, rosso e blu.

Lo Stato Federale della Nuova Russia è una confederazione nata ufficialmente il 24 maggio scorso in seguito ad un accordo tra le repubbliche di Donetsk e Lugansk, autoproclamatesi indipendenti dall’Ucraina nello scorso Aprile. Stessa bandiera e stesso nome ha il Partito della Nuova Russia, fondato circa un mese fa, di orientamento separatista e Pro-Russo, nonché fortemente influenzato dall’eurasiatismo del fascista russo Aleksandr Dugin, già ideologo del Partito Nazionalbolscevico russo. È proprio il Partito della Nuova Russia ad aver preparato e deciso la nascita del nuovo stato federale, la cui creazione è stata infatti dichiarata durante il primo congresso del partito il 22 maggio scorso, al quale era presente anche Dugin. Il termine Nuova Russia è ripreso dal nome della regione storica che coincide con i territori a nord del Mar Nero che, nel corso del XIX secolo, l’Impero Russo conquistò sottraendoli all’Impero Ottomano. Pavel Gubarev, il Governatore del Popolo della Repubblica di Donetsk che avrebbe accolto i volontari italiani, è anche leader del Partito della Nuova Russia. Gubarev ha militato in passato nel Partito Socialista Progressista d’Ucraina, ma anche nella formazione neonazista Unità Nazionale Russa (Русское Национальное Единство).

Ma in questo calderone di nazionalismo russo, neonazismo ed eurasiatismo, cosa c’entrano il tricolore con la stella rossa, un’organizzazione “antifascista” italiana e le “brigate internazionali”?

L’organizzazione italiana “Millennium” che ha inviato volontari a Donetsk non è certo antifascista. Il gruppo “Millennium” dichiara sul proprio sito di non essere “né neofascista né antifascista”. Infatti non sono neofascisti, sono nazisti.
“Millennium” ha organizzato assieme al Gruppo Alpha, organizzazione giovanile neonazista degli Hammerskin di Lealtà e Azione, un convegno al Politecnico di Milano il 17 gennaio scorso. In tale occasione 200 compagni intervenuti per fermare l’iniziativa neonazista vennero caricari dalla polizia davanti al Politecnico.
Ma non è tutto. Il gruppo “Millennium” è legato alla rivista “Eurasia” il cui direttore è il noto neofascista Claudio Mutti implicato nello stragismo nero.
Questi volontari italiani sono quindi membri di un gruppo che condivide l’eurasiatismo del fascista russo Aleksandr Dugin e il nazionalismo del Partito della Nuova Russia.
La matrice nazista del gruppo “Millennium” è ancora più chiara se si va a leggere il suo manifesto politico: “I Popoli, depauperati da ogni sovranità e potere decisionale, rendono ogni autorità alle minoranze che dirigono gli affari mondiali secondo il proprio interesse. Culture e religioni muoiono esangui sugli altari dei simulacri postmoderni. La nuova legge è il Caos.
In questo contesto Millennium afferma la propria azione ordinatrice. Millennium si identifica nel ruolo del partito rivoluzionario europeo, impegnato nella liberazione dell’Europa dal giogo unipolare e nell’edificazione di un paradigma culturale europeo. All’entropia incipiente, Millennium contrappone le leggi risorte della Giustizia, della Tradizione e della Comunità.”

Non ci è dato sapere se in questo caso è RaiNews ad aver giocato con la fantasia, tirando fuori sedicenti “organizzazioni antifasciste” e addirittura le “Brigate internazionali”, o se siano i neonazisti di “Millennium” a voler creare ulteriore confusione utilizzando simboli e parole d’ordine tipiche dell’antifascismo. Probabilmente sono entrambe le cose.

Tuttavia è chiaro che il gruppo “Millennium” fa parte di quella corrente rosso-bruna ed eurasiatista di chiara matrice nazista e che i suoi volontari a Donetsk sono dunque nazisti. La stessa corrente in cui si colloca il Partito della Nuova Russia, fautore dello Stato Federale della Nuova Russia.

Si deve quindi fare chiarezza sulla situazione in Ucraina, smascherando i gruppi neofascisti che agiscono nel conflitto. Bisogna rendersi conto che anche Donetsk come a Kiev i fascisti sono al governo, strumento delle potenze imperialiste che si contendono l’Ucraina.

Il caso dei volontari del gruppo nazista “Millennium” mostra quanto sia urgente riaprire un dibattito serio sulla situazione in Ucraina. Quanto accade oggi in Ucraina ci mostra cosa può accadere quando la classe lavoratrice è ridotta in ginocchio, divisa e disorientata, in questo caso da decenni di capitalismo di stato e da venti anni di capitalismo selvaggio. Per questo è importante chiarire le posizioni in un dibattito che rifiuti la propaganda delle potenze in campo e che metta al centro l’internazionalismo, coscenti che solo la forza dell’unità di classe che rompe le frontiere imposte dagli stati può fermare la guerra e può abbattere i regimi fascisti che oggi si fronteggiano in Ucraina.

 

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Ballottaggio? Si cambia con la lotta, non col voto!

pubblichiamo il testo del volantino che sarà diffuso durante il presidio astensionista di oggi giovedì 5 giugno. Appuntamento in Via Grande (angolo Via Cogorano, di fronte a Libreria Giunti) ore 17:30

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BALLOTTAGGIO?

SI CAMBIA CON LA LOTTA, NON COL VOTO!

La campagna elettorale per il ballottaggio che si terrà l’8 giugno a Livorno tra Partito Democratico e Movimento 5 Stelle sta toccando il ridicolo, da una parte come dall’altra. Fino al 25 maggio ogni lista, esibendo miseri programmi, puntava alla propria specifica affermazione demonizzando l’altra. Ora tutto è messo da parte per la ricerca delle alleanze: Intrighi, accordi, pressioni, voltafaccia, cambi di schieramento. Il ballottaggio mostra una volta di più il vero senso delle elezioni: accordi di potere, spartizione di seggi, compromessi per gestire l’esistente. Anche i nuovi arrivati sono ben disposti a “sporcarsi le mani”. Altro che cambiamento!

Chiunque vinca queste elezioni, la città continuerà ad essere devastata e saccheggiata dai nuovi amministratori proprio come dai vecchi. L’esperienza insegna che gli eletti, non sottoposti a controllo e revoca, finiscono sempre per tradire le promesse elettorali.

Chi governa imporrà, in nome dell’emergenza, della crisi, dei piani nazionali, delle compatibilità, gli interessi economici di pochi piuttosto che quelli della collettività.

Chi sarà all’opposizione si limiterà, quando lo riterrà opportuno, a qualche “lamentela”, stando perfettamente dentro il gioco istituzionale, che vuol dire non mettere in discussione l’equilibrio esistente.

Tutti sanno che la resistenza agli sfratti e alla disoccupazione, la lotta per la casa, così come l’opposizione ai piani di sperpero di risorse e aumento di nocività come il nuovo ospedale, il rigassificatore, il megainceneritore, la discarica del Limoncino, non è stata condotta in Consiglio Comunale dai mummificati rappresentanti delle minoranze, ma nelle piazze dai comitati, dai movimenti, dalle persone che si organizzavano per lottare.

L’organizzazione sociale, la produzione e la distribuzione dei beni, la gestione delle nostre città, l’esercizio delle libertà individuali e collettive, la difesa della salute e dell’ambiente, sono cose troppo importanti per essere delegate a poche persone!

Non delegare, non votare. Ti chiedono di scegliere tra la sicurezza del “vecchio” che ben conosciamo per i disastri prodotti sotto la maschera di sedicente sinistra e la presunta sfida di un “nuovo” che puzza già di vecchio e di compromesso con la destra. Non sottometterti al ricatto. Non scegliere il meno peggio.

L’alternativa è quella della mobilitazione in prima persona, della autorganizzazione nelle lotte sociali, della scelta antistituzionale.

Nella campagna elettorale la realtà degli sfruttati, del proletariato, della classe operaia non ha spazio. Lo spazio della classe antagonista è nel gesto antagonista al rito elettorale: l’astensionismo.

NON VOTARE, LOTTA!

Federazione Anarchica Livornese

Collettivo Anarchico Libertario

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SI CAMBIA CON LA LOTTA, NON COL VOTO! PRESIDIO ASTENSIONISTA

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SI CAMBIA CON LA LOTTA, NON COL VOTO!

PRESIDIO ASTENSIONISTA

Giovedì 5 giugno dalle ore 17:30

Via Grande, angolo Via Cogorano (di fronte alla libreria Giunti)

Dalle ore 17:30 distribuzione di libri e giornali anarchici e libertari, volantinaggio ed interventi al megafono sulle ragioni dell’astensionismo e sulle proposte di lotta e trasformazione sociale portate avanti dal movimento anarchico.

Non affidarti a chi tradisce i tuoi interessi per sostenere banche, preti, padroni, militari e caste varie.
Non abbiamo bisogno di cambiare Sindaco, ma di un reale cambiamento sociale rivoluzionario.

NON VOTARE, NON PARTECIPARE ALLA TUA OPPRESSIONE!

ORGANIZZATI E LOTTA – PER COSTRUIRE L’AUTOGOVERNO E L’AUTOGESTIONE!

Federazione Anarchica Livornese

Collettivo Anarchico Libertario

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Ad un anno da Gezi Park “Spalla a spalla contro il fascismo”

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Ad un anno da Gezi Park

“Spalla a spalla contro il fascismo”

 

Un anno fa, all’alba del 31 maggio 2013, la polizia attaccava un presidio permanente di poche decine di persone a Gezi Park, un parco pubblico in Piazza Taksim, nel centro di Istanbul. Idranti, lacrimogeni, manganelli, ruspe. Le tende del presidio vennero distrutte ed incendiate, gli alberi piantati dai manifestanti abbattuti, molti i feriti e gli arrestati. Dal violento sgombero dei pochi manifestanti che protestavano contro la distruzione di uno dei pochi parchi del centro di Istanbul, si aprì una nuova fase di lotte in Turchia. Le manifestazioni contro la violenza usata dalla polizia nello sgombero vennero represse ancora più duramente, scatenando un’ondata di proteste che scontrandosi con il pugno di ferro del governo non si infranse, ma si estese in una rivolta di massa antigovernativa, che scosse la Turchia per più di due settimane.

Il primo giugno la polizia, dopo ore di scontri ininterrotti, fu costretta ad abbandonare Piazza Taksim, di fronte alla determinazione di oltre un milione di persone che si erano unite alla resistenza di piazza. Da quel momento, per molti giorni, la storica Piazza Taksim dove si trova Gezi Park, piazza simbolo delle lotte dei lavoratori e dei movimenti rivoluzionari, divenne il centro di un grande movimento. Ogni gruppo politico, ogni partito o sindacato, aveva il proprio spazio in quella piazza, in cui erano sempre in corso assemblee, dibattiti, performance teatrali e musicali, mentre lo spazio liberato era completamente autogestito, dalla distribuzione di cibo all’infermeria, fino alla resistenza contro i tentativi di sgombero da parte della polizia.

Ovunque in Turchia si tenevano manifestazioni quotidiane, si occupavano parchi, si resisteva alla polizia. Ad Ankara il centro delle proteste era Güven Park, un parco pubblico adiacente alle principali sedi ministeriali, nel centrale quartiere Kizilay della capitale turca. Si trattava ormai di una rivolta estesa a tutto il paese.

Non è un caso che il detonatore di questo movimento sia stata la repressione della protesta contro la distruzione di Gezi Park ad Istanbul. Infatti il governo progettava di costruire su quel terreno un rifacimento delle caserme ottomane che furono demolite nel 1940 per far posto al parco. In queste strutture avrebbero trovato spazio tra l’altro una moschea e un centro commerciale.

Un progetto che ben riassumeva la politica del governo conservatore-religioso del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP): nazionalismo in salsa neo-ottomana, conservatorismo religioso, speculazione edilizia e capitalismo sfrenato.

Per questo la violenta repressione poliziesca ha scatenato una reazione di piazza tanto larga e determinata contro l’oppressione dello Stato e la devastazione del capitale, facendo emergere le forti contraddizioni sociali della Turchia governata da dieci anni dall’AKP.

Dopo lo sgombero definitivo della “Comune di Gezi Park” il 15 giugno 2013, le proteste non si sono fermate. Al contrario in Turchia una nuova fase di lotte sociali e politiche si è aperta con il movimento della scorsa estate. L’ultimo esempio si è avuto poche settimane fa quando, dopo la strage di minatori a Soma, vicino Izmir, le piazze delle principali cttà sono tornate a riempirsi contro il capitalismo assassino.

Le settimane che hanno preceduto l’anniversario della rivolta di Gezi Park, sono state segnate da un aumento della tensione sociale e politica in Turchia.

Il 22 maggio scorso giovani e studenti che manifestavano anche per i minatori di Soma si sono scontrati duramente con la polizia nel quartiere alevita di Okmeydanı, vicino al centro di Istanbul. Quel giorno due persone sono rimaste uccise negli scontri, Ayhan Yılmaz, ed Uğur Kurt, un alevita colpito a morte, mentre partecipava ad un funerale, da uno dei colpi d’arma da fuoco sparati dalla polizia. In seguito a questi fatti la polizia ha effettuato decine di arresti, mentre gli aleviti hanno tenuto domenica 25 maggio imponenti manifestazioni nelle principali città della Turchia.

Intanto da giorni è alta la tensione anche nel Kurdistan turco. Il governo di Ankara ha inviato uomini e mezzi blindati di rinforzo nella regione, per assicurare l’accelerazione dei lavori per la costruzione di nuove strutture per le guarnigioni della gendarmeria. Per protesta manifestanti curdi hanno bloccato alcune strade, mentre il PKK ha attaccato un cantiere stradale ed il sito di costruzione di una nuova caserma della gendarmeria turca. Il Partito per la Pace e la Democrazia (BDP), che sostiene la lotta per i diritti del popolo curdo ed ha partecipato ad alcune delle manifestazioni di questi giorni, ha dichiarato che la costruzione di strutture militari turche nella regione rischia di danneggiare il processo di pace. Nel corso di una protesta simile, contro la costruzione di una caserma, il 29 giugno 2013, il diciottenne Medeni Yıldirim venne ucciso dai proiettili che le forze di sicurezza turche spararono sulla folla. Il giovane è ricordato come una delle vittime del movimento di lotta nato da Gezi Park.

Il 27 maggio scorso sono state arrestate 47 persone in relazione alle proteste del 2013; finora sono 255 gli imputati sotto processo per aver partecipato alle movimento di lotta nato da Gezi Park.

È in questo clima che sabato 31 maggio ad Istanbul, ad Ankara, Adana ed in molte altre città si è tornati in piazza ad un anno dall’inizio della rivolta. Ad Istanbul la Piattaforma Taksim Solidarietà aveva fatto appello a manifestare in Piazza Taksim per le ore 19, e migliaia di persone sono scese in strada nonostante il divieto delle autorità. Ma sin dal mattino Gezi Park era sigillato ed in città erano schierati 25000 uomini della polizia e 50 TOMA, i famigerati blindati armati di idrante in forza alla poizia turca. Nonostante il tono pacifico della manifestazione ed i tentativi degli organizzatori di trattare con le autorità per concedere la possibilità di muoversi in corteo verso Piazza Taksim, la polizia, che aveva ordine di disperdere ogni assembramento ha attaccato con brutalità i manifestanti. Fino a tarda sera i manifestanti hanno cercato di resistere alle violenze della polizia, tornando a riunirsi più volte per avvicinarsi ad Istiklal Caddesi, la lunga strada pedonale che conduce a Piazza Taksim. Scontri più duri si sono registrati nel quartiere Gazi, dove per tutta la notte è andata avanti una vera e propria battaglia tra manifestati e polizia.

Anche nelle altre città turche la polizia è intervenuta brutalmente per impedire le manifestazione. Si contano alla fine della giornata 12 feriti tra i manifestanti e 154 fermati, a 62 di questi verrà confermato lo stato di custodia il giorno successivo.

Impedire con qualsiasi mezzo ogni manifestazione il 31 maggio è stato l’ennesimo atto di forza del governo turco. Allo stesso modo erano state vietate le manifestazioni del Primo Maggio a Piazza Taksim; allo stesso modo due settimane fa è stata isolata e militarizzata la cittadina di Soma, luogo della strage di 301 minatori, per impedire proteste e manifestazioni; allo stesso modo vengono sciolte con la violenza molte manifestazioni da parte della polizia, in Kurdistan come in altre zone della Turchia, talvolta pure con l’uso di armi da fuoco.

Il primo giugno, il giorno dopo le manifestazioni per l’anniversario d Gezi Park, mentre si ripetevano le elezioni amministrative nelle 13 località in cui era stato annullato il voto del 30 marzo, nel quartiere Gazi di Istanbul ci sono stati nuovi scontri. Una manifestazione per la libertà del leader del PKK Abdullah Öcalan convocata dall’HDP, il Partito Democratico del Popolo, è stata attaccata nel pomeriggio da dei nazionalisti armati di pistole, coltelli e bastoni. Ömer Delibaş, membro dell’HDP, è rimasto ucciso nell’attacco, altri due invece sono rimasti feriti.

Già la sera del giorno stesso si sono tenute manifestazioni di solidarietà e di denuncia dell’attacco fascista al corteo dell’HDP. Alla manifestazione che si è tenuta a Kadikoy, quartiere sulla sponda asiatica di Istanbul, hanno partecipato anche gli anarchici. La parola d’ordine della manifestazione è stata “spalla a spalla contro il fascismo”, uno degli slogan più diffusi nel movimento nato a Gezi Park poco più di un anno fa.

Dario Antonelli

questo articolo sarà pubblicato sul settimanale anarchico Umanità Nova

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Fatti della Prefettura: il resoconto della quinta udienza

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da senzasoste.it

Fatti della Prefettura: il resoconto della quinta udienza

Si è tenuta il 22 maggio nell’aula B del Tribunale di Livorno in Via Falcone e Borsellino la quinta udienza del processo relativo ai fatti del 30 novembre, 1 e 2 dicembre 2012, che vede imputate 21 persone tra le compagne e i compagni che parteciparono alle manifestazioni convocate in quei giorni dalla Ex Caserma Occupata.

Quei giorni furono segnati dalle cariche della polizia contro i manifestanti e dalla risposta della città contro le violenze poliziesche, dal corteo di oltre mille persone che attraversò le strade del centro contro l’attacco alla libertà di manifestazione condotto con violenza dalla Questura livornese.

A carico degli imputati vi sono accuse per manifestazione non autorizzata, oltraggio e minacce a pubblico ufficiale, lesioni, danneggiamento, adunata sediziosa, tutti reati relativi alle manifestazioni organizzate in quei giorni dalla Ex Caserma Occupata.

Fissata per le ore 9 di giovedì 22 maggio, l’udienza si è protratta fino a dopo le ore 18. Nel corso della giornata sono tornati a sedersi al banco dei testimoni il Capo di Gabinetto Ridente e l’Ispettore Capo Dotto della Questura di Livorno, già ascoltati nell’udienza del 9 gennaio scorso.

Infatti il Pubblico Ministero Luca Masini, dopo il trasferimento del giudice Dal Forno e la formazione di un nuovo Collegio Giudicante presieduto dal giudice Perrone, aveva chiesto che i testi già interrogati nelle udienze precedenti fossero ascoltati di nuovo.

Con questa richiesta la Pubblica Accusa aveva di fatto azzerato il processo. Nei resoconti delle precedenti udienze avevamo segnalato il fatto che questa mossa si dovesse leggere come un passo indietro del PM Masini, costretto ad aggiustare il tiro per non vedere l’impianto accusatorio sgretolarsi tra le sue stesse mani.

Nell’aula è stato installato, come predisposto dall’ordinanza del Tribunale del 24 aprile scorso in seguito a richiesta del PM, un sistema di registrazione audiovisiva delle testimonianze curato dalla Polizia Scientifica. Una forma di documentazione dell’udienza che si può definire eccezionale in quanto prevista dal Codice di Procedura Penale solo in casi di assoluta necessità. Necessità che per la Difesa non sussiste in questo processo, perciò la videoregistrazione dell’udienza è stata contestata dagli avvocati difensori nelle precedenti sedute processuali. In effetti si tratta di una trovata del PM Masini per rendere questo processo un evento spettacolare, e per costruire, attraverso la forzatura della procedura, quel clima di eccezionalità che serve a dare una credibilità al fragile castello accusatorio.

I testi hanno fornito la propria ricostruzione degli eventi per le giornate del 30 novembre 1 e 2 dicembre 2012, compiendo anche alcune identificazioni. Qui si sono lasciati spesso andare in presunte identificazioni di persone imputate e non, aggiungendo talvolta commenti non rilevanti a carico delle medesime, senza che tali riconoscimenti fossero legati a specifiche situazioni di reato.

Durante l’interrogatorio per compiere le identificazioni hanno utilizzato quei documenti prodotti dalla Pubblica Accusa, video e immagini, contestati dai difensori perché considerati materiale marcato e suggestivo. Già nell’udienza del 9 gennaio, erano stati impiegati documenti che gli avvocati difensori avevano contestato come non oggettivi e manipolati, e che a loro avviso miravano a suggestionare il giudizio del collegio. Dopo l’udienza di gennaio, il PM Masini, che evidentemente temeva con prove tanto manipolate di veder crollare l’intero processo, aveva ottenuto la sostituzione di oltre 350 di questi documenti con nuovo materiale.

L’esame dei testi da parte dell’Accusa in effetti è stato molto più prudente e misurato rispetto a gennaio. Ma nel corso dell’udienza i toni pacati venivano presto messi da parte dal PM Masini, che scattava non appena gli avvocati difensori prendevano la parola.

La Pubblica Accusa non ha potuto esimersi dal far emergere almeno una minima parte delle violenze perpetrate in quei giorni dalla polizia. È stato infatti citato il rinvio a giudizio dell’Ispettore Capo Basilio Curasì che, dopo la carica di polizia del 1 dicembre 2012 in Piazza Cavour, avrebbe colpito alla testa con una pesante radio, chiamata non a caso in gergo “il mattone”, una donna, madre di uno dei manifestanti, che quel pomeriggio passava casualmente dalla piazza.

Chiaramente il fatto che vi sia un altro processo attorno ai fatti di quei giorni, che vede imputato un Ispettore della Questura di Livorno, ha costretto il Pubblico Ministero a citare questo caso anche nel processo che invece vede imputati i manifestanti. Le violenze di polizia e carabinieri che in quei giorni indignarono la cittadinanza iniziano a venire a galla anche in Tribunale. Tuttavia gran parte di tali violenze continuano a restare nell’ombra, proprio come le responsabilità del personale della Questura. Un esempio tra tutti è quello dell’ordine che avrebbe scatenato la carica di polizia in Piazza Cavour il primo dicembre, dopo cinque udienze non si sa ancora se tale ordine sia stato dato e da chi.

Questa udienza, proprio come le precedenti, ha mostrato la natura politica di questo processo. Ci troviamo infatti di fronte ad una montatura che mira ad oscurare le gravi responsabilità della Questura di Livorno e dei suoi funzionari nelle violenze di piazza di quei giorni. Per fare questo la Pubblica Accusa ricorre ad ogni mezzo, cercando di dipingere i manifestanti imputati come un gruppo criminale dedito alla violenza, che avrebbe in qualche modo premeditato quello che chiamano “assalto alla Prefettura”.

Non ci soffermiamo a commentare nel dettaglio le dichiarazioni dei testi. Tra l’altro il teste Dotto tornerà al banco dei testimoni anche alla prossima udienza per essere interrogato dall’Accusa riguardo alla giornata del 2 dicembre 2012 e per il controesame degli avvocati della Difesa.

La prossima udienza si terrà il 3 luglio alle ore 15 presso il Tribulnale di Livorno in Via Falcone e Borsellino. In quella data continuerà l’audizione dei testi presentati dalla Pubblica Accusa.

Comitato di Solidarietà “Livorno non si piega!”

FIRMA L’APPELLO A SOSTEGNO DEGLI IMPUTATI!

http://firmiamo.it/appello-livorno-non-si-piega

I resoconti delle udienze precedenti:

http://www.senzasoste.it/livorno/processo-prefettura-il-resoconto-della-quarta-udienza

http://www.senzasoste.it/interventi/processo-prefettura-un-primo-passo-indietro-del-pm-masini

http://www.senzasoste.it/locale/processo-prefettura-dopo-la-prima-udienza-e-gia-un-processo-politico-pm-e-polizia-scatenati

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Turchia: Capitalismo assassino

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Questo articolo uscirà sul prossimo numero del settimanale anarchico Umanità Nova.

Turchia: Capitalismo assassino

Il 13 maggio a Soma, centro minerario della Turchia a poco più di cento chilometri da Izmir, un’esplosione di gas all’interno di una miniera di lignite ha sprigionato un incendio che ha ucciso centinaia di minatori. Sabato 17 maggio è stato estratto dalla miniera il corpo della trecentounesima vittima. Il Ministro turco dell’Energia ha dichiarato che non risultano dispersi altri lavoratori, fissando a 301 il numero definitivo dei minatori rimasti uccisi nel disastro. Le squadre di soccorso hanno quindi lasciato la miniera, il cui ingresso è stato chiuso da un muro di mattoni, mentre i lavori nel complesso minerario sono stati sospesi. Se non fosse stato per le proteste che in questi giorni si sono diffuse in tutto il paese, se non fosse stato per la determinazione dei familiari dei minatori e per la rabbia della popolazione di Soma che ha contestato duramente il Primo Ministro Erdoğan durante la sua visita al centro minerario, probabilmente sarebbero ancora molti i “dispersi”, sarebbero stati molti i minatori lasciati sepolti nella miniera. Fin da subito infatti il governo turco ha cercato di banalizzare e minimizzare la portata del disastro, arrivando a diffondere dati sul numero delle vittime consapevolmente sottostimati, allo scopo di coprire il più possibile le responsabilità del governo e della proprietà della miniera in questa strage.

La Turchia non ha mai firmato dall’anno in cui è stato promosso, nel 1995, l’Accordo n. 176 sulla sicurezza delle miniere dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, agenzia specializzata dell’ ONU per il lavoro. Il 29 aprile scorso veniva discussa nel parlamento turco una mozione presentata nell’ottobre 2013 dai parlamentari del CHP, il partito dell’opposizione “kemalista” repubblicana, autoritaria e laica, in cui si chiedeva la creazione di una commissione d’inchiesta sulla sicurezza nel sito minerario di Soma. In quel sito si verificavano continue esplosioni ed incidenti, con frequenti vittime. La compagnia mineraria citata nella mozione non era quella nella cui miniera si è consumata la strage degli ultimi giorni. Ma l’alto tasso di incidenti e la stretta relazione con il partito di governo, l’AKP, sono caratteristiche comuni a tutte le aziende che gestiscono le miniere di Soma. Nella mozione si parla anche di 3000 minatori che sarebbero stati forzati durante l’orario di lavoro a partecipare, sotto minaccia di licenziamento, ad un comizio elettorale di Erdoğan nella città di Manisa, prima del voto amministrativo del 30 marzo scorso. La maggioranza in parlamento ha bocciato la proposta di creare una commissione d’inchiesta, 15 giorni dopo c’è stata l’esplosione che ha provocato una strage tra i minatori. Il gioco parlamentare non è riuscito ad impedire il massacro.

Per raggiungere le massime quote di profitto la sicurezza nelle miniere di Soma ed in generale della Turchia è ridotta ai minimi livelli. Mancanza di camere di isolamento per mettere in sicurezza i lavoratori in caso di incidente, scarsa manutenzione dei macchinari, tempi di lavoro massacranti, condizioni di lavoro prossime alla schiavitù. Il salario medio mensile di un minatore è di 500 dollari, spesso nelle miniere lavorano aziende in subappalto, molti sono i minatori “illegali”, anche minori, sottopagati, che restano fuori dalle statistiche. Sono questi i minatori che il governo e la proprietà hanno inizialmente provato a lasciare sepolti nella miniera, sottostimando il numero dei lavoratori in attività nelle gallerie al momento dell’esplosione, per nascondere le proprie responsabilità.

Sappiamo bene che nessun incidente sul lavoro è casuale o accidentale, e che ogni lavoratore morto sul posto di lavoro è ucciso per assicurare più alti profitti a pochi padroni. La strage di Soma ne è un ulteriore, tragico esempio.

Il 18 maggio sono state arrestate 24 persone in relazione all’indagine sul disastro minerario di Soma, tra cui alcuni funzionari di alto livello della compagnia che gestisce la miniera come il presidente del consiglio di amministrazione della Soma Holding Can Gürkan, figlio del proprietario, e l’ingegnere capo Akın Çelik. Il proprietario della compagnia Alp Gürkan, come anche il suo manager operativo Ramazan Doğru, non risultano per ora essere tra gli indagati. A carico di Alp Gürkan è stata al contempo aperta ad Istanbul un’indagine per bancarotta fraudolenta che tuttavia sembrerebbe slegata dall’inchiesta sul disastro minerario.

Nella stessa giornata del 18 maggio la cittadina di Soma è stata isolata e militarizzata. La polizia e la gendarmeria hanno stabilito posti di blocco su tutte le strade che portano a Soma, lungo un raggio di 30 km dal luogo del disastro. Solo funzionari, personale dei soccorsi, familiari dei minatori e pochi giornalisti possono passare i checkpoints. Da Istanbul, Ankara, Izmir e Denizli sono state inviate di rinforzo truppe delle forze speciali. Nel centro minerario è stata vietata ogni forma di protesta e manifestazione, mentre l’ufficio del governatore del distretto di Manisa, dove si trova Soma, ha affermato che le proteste nella cittadina sono state in gran parte inscenate da provocatori venuti da fuori per alimentare la tensione. Sabato 17 a Soma erano cresciute le proteste, la polizia aveva risposto brutalmente e il tentativo di arresto di un bambino di 10 anni avrebbe scatenato una decisa reazione della piazza. Molte le persone fermate dalla polizia, tra cui anche otto legali dell’Associazione degli Avvocati Progressisti, ÇHD, giunti a Soma per assistere i familiari delle vittime ed i superstiti. Alla fine della giornata 20 persone sono rimaste in stato d’arresto. Dopo aver dichiarato concluse le operazioni di soccorso, il governo ha quindi deciso di non tollerare più alcuna contestazione, mettendo di fatto la zona sotto controllo militare.

Il governo Erdoğan, messo ancora una volta a dura prova dalle proteste scoppiate in tutto il paese in seguito al disastro, cerca una via d’uscita sicura da questa situazione di crisi, per fermare l’emorragia di consensi nei confronti del governo anche in vista delle elezioni presidenziali di agosto. Per questo da una parte scattano i primi arresti per alcuni quadri della compagnia mineraria, ma allo stesso tempo si impone manu militari la cessazione di ogni protesta, si chiude ogni spazio di espressione del dissenso.

Ma sarà difficile silenziare l’ondata di proteste che si era diffusa in tutto il paese nei giorni scorsi. Già dal giorno in cui si è verificata l’esplosione nella miniera, in molte città si sono tenute manifestazioni spontanee di solidarietà, alle quali hanno partecipato anche gli anarchici. La polizia ha cercato fin da subito di disperdere i dimostranti con idranti, proiettili di gomma e candelotti lacrimogeni, scontrandosi però con la resistenza di chi era sceso in piazza. Il 15 maggio le sigle sindacali DISK e KESK avevano proclamato uno sciopero, ed in quella giornata numerose manifesazioni si sono tenute nelle principali città. In questi giorni anche gli studenti delle università tecniche di Istanbul (İTÜ) e di Ankara (ODTÜ) si sono mobilitati con cortei e iniziative di protesta scontrandosi anch’essi con la repressione della polizia. Inoltre, ad Istanbul, dopo giorni di manifestazioni e scontri con la polizia, la Piattaforma Solidale di Taksim, protagonista del movimento di Gezi Park dello scorso anno, aveva convocato sabato 17 una nuova manifestazione che è stata attaccata con violenza dalla polizia nella centrale Istiklal Caddesi. Vedremo nelle prossime settimane cosa resterà di queste giornate di lotta. Certo questa ennesima strage di lavoratori, accompagnata dalle arroganti dichiarazioni dei potenti, ci mostra l’urgenza della rivoluzione sociale, della liberazione dallo sfruttamento capitalista e dall’oppressione dello Stato. Ci mostra come solo con l’azione diretta, solo con la propria forza i lavoratori possano ottenere dei risultati concreti.

Dario Antonelli

aggiornamento: il 19 maggio nell’ambito dell’inchiesta sul disastro è stato arrestato anche il manager operativo della compagnia mineraria Ramazan Doğru.

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Volantino: SI CAMBIA CON LA LOTTA, NON COL VOTO!

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Testo del volantino diffuso oggi dirante il presidio astensionista in Via Grande

SI CAMBIA CON LA LOTTA,

NON COL VOTO !

La disoccupazione a Livorno è quasi il doppio della media Toscana, con punte clamorose tra la popolazione giovanile.Gli sfratti sono triplicati nel giro di cinque anni. La spesa sociale del comune di Livorno è inferiore alla media Toscana e, nel settore sanitario, è la più bassa anche tra i comuni della provincia.

A tutto questo l’amministrazione locale PD, contornata da un’opposizione da operetta, ha risposto negli anni con scelte che hanno solo aumentato i problemi:

  • progetti inutili, dannosi e nocivi (rigassificatore, megainceneritore, nuovo ospedale)

  • speculazioni e cementificazioni (Porta a Terra, Porta a Mare, Nuovo Centro)

  • disinteresse per la drammatica situazione occupazionale, con ambizioni di lancio turistico che in 15 anni, dalle sciagurate scelte speculative sulle aree del Cantiere, non sono peraltro mai decollate.

  • Sfratti, uniti a sgomberi e denunce per chi tenta di trovare una soluzione alla mancanza di casa.

Con le elezioni spuntano liste elettorali “alternative” che propongono improbabili rinnovamenti più o meno “da sinistra”, presentandosi come elemento di rottura e cambiamento. Ma cambiare giunta è la vera soluzione? In una società divisa in classi, all’interno della struttura autoritaria dello stato le istituzioni ,e quindi anche l’amministrazione comunale, hanno la funzione primaria di mantenere la divisione e favorire le classi privilegiate.

Nessun cambiamente è possibile se si accettano le regole del gioco, se non si ha una prospettiva di radicale cambiamento sociale

Nessun cambiamento passa attraverso il voto

Stare dentro al gioco significa andare a votare. Ci dicono di delegare, di affidare a qualcuno il nostro voto perchè siano i professionisti della politica, magari quelli “alternativi”, a risolvere i nostri problemi, standocene buoni fino alle prossime elezioni: chi fa così è un “cittadino responsabile”. Non è vero! Non c’è cambiamento attraverso la delega e il consolidamento delle struture di potere politico. Le elezioni hanno dimostrato da tempo la loro inefficacia: è nelle istituzioni che si attenta quotidianamente alle nostre libertà, è lottando contro e fuori di esse che si prepara una socieà nuova.

Gli anarchici sono presenti attivamente nelle lote sociali antiistiituzionali. Gli anarchici si battono per una società diversa. L’anarchia non è disordine o confusione, ma è una forma di società organizzata, una volta abolite la poprietà privata e l’oppressione del Governo, per opera di libere associazioni e federazioni di produttori e consumatori, fatte e modificate secondo la volontà dei componenti. Saranno i lavoratori a prendere in mano la produzione, saranno i cittadini a risolvere i problemi dell’inquinamento, della sanità, della casa ecc. che le istituzioni hanno creato.

NON VOTARE

Non affidarti a chi ti tradisce

per sostenere banche, preti, padroni, militari e caste varie

NON VOTARE

Non seppellire la tua lotta dentro un’urna

FEDERAZIONE ANARCHICA LIVORNESE –cdcfedanarchicalivornese@virgilio.it

COLLETTIVO ANARCHICO LIBERTARIO – collettivoanarchico.noblogs.org

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