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Caporali alla TNT di Piacenza. Gesconet o Gesco Nord?

da:http://senzafrontiere.noblogs.org/

Nelle scorse settimane vi abbiamo parlato della lotta dei lavoratori delle cooperative “Stella” e “Vega” impiegati alla TNT di Piacenza.
A quanto ci risultava le due cooperative sarebbero appartenute al consorzio Gesconet. Gesconet ci scrive minacciando azioni legali, perché Stella e Vega non avrebbero nulla a che fare con loro.
Nonostante i modi poco urbani e il dubbio che questi signori, dalla consolidata fama di caporali, facessero i furbi, cancelliamo ogni riferimento al consorzio dagli articoli sulla lotta alla TNT.
Poi, con calma, facciamo le dovute verifiche.
Stella e Vega appartengono al gruppo Gesco Nord, le firme sulle ipotesi di accordo riportano la sigla “Gesco”. La scritta “Gesco Nord” sulla magliette dei lavoratori TNT di Piacenza è pressoché identica a quella che compare nella testata del sito di “Gesconet”.
Tutto si chiarisce da se. Anna Barbati, a nome del gruppo Gesco, dichiara che Gesco Nord si è costituito all’inizio dell’anno e non ha nulla a che fare con Gesconet.
È la stessa TNT a smentire, forse inconsapevolmente, Barbati: “Gesconet è dentro la Tnt da anni e all’inizio dell’anno ha scorporato il consorzio in Gesco nord e Gesco sud. Le persone all’interno e la dirigenza sono le stesse”.
A questo punto decidiamo di approfondire. Ne vengono fuori delle belle. Circa un anno fa venne aperta un’indagine sul mancato rispetto delle norme di sicurezza nel trasporto di radiofarmaci all’aeroporto di Linate. Neanche a dirlo la logistica era appaltata al gruppo Gesconet.

Malgrado una certa reticenza in gran parte della stampa ufficiale, Gesconet compare regolarmente, a volte solo un accenno, tra i gruppi implicati nel cosiddetto “traffico di clandestini”.
Al di là delle definizioni quello che conta è che Gesconet e i suoi cloni successivi sono “caporali” più o meno legali, che sfruttano all’osso i lavoratori, giocando sulle leggi che rendono ricattabili gli stranieri, specie se privi di permesso di soggiorno.
Il gioco è semplice e brutale.
Spesso in molte cooperative della logistica i soci lavoratori con le carte in regola vengono costretti, attraverso diverse forme di mobbing, a dimettersi. Al loro posto vengono assunti lavoratori con permessi di soggiorno falsi: per loro il licenziamento apre le gabbie del CIE anticamera della deportazione.
Proprio alla Tnt di Piacenza, i primi lavoratori minacciati di licenziamento sono stati quelli cui stava per scadere il permesso di soggiorno che, senza un contratto di lavoro, non avrebbero potuto sottoscriverne un altro.

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Bari. Otto ore di rabbia

da:http://senzafrontiere.noblogs.org/

Lunedì 1 agosto, Bari palese. È rivolta. Esplode la rabbia degli stranieri “parcheggiati” nel C.A.R.A., il centro per richiedenti asilo di Bari. Attendono, giorno dopo giorno, in un limbo del tutto simile ad un carcere, il riconoscimento dello status di rifugiati.
Dall’inizio dell’anno è iniziato l’iter solo per solo 506 delle 3731 domande presentate a Bari.
Da mesi attendono di sapere se avranno o meno il pezzo di carta, che per la legge, fa la differenza tra esistere e non esistere.
Non ne possono più. Sono stanchi del silenzio, della mancanza di risposte, dell’impossibilità di spostarsi altrove, di costruirsi una vita, di cercare un lavoro che non sia la schiavitù riservata a chi non ha diritti da far valere.
In 200 scendono in strada all’alba. Prima incendiano materassi e suppellettili nel centro che, nonostante le porte aperte, somiglia sin troppo ad una gabbia.
Otto ore di rabbia. Occupano la stazione e bloccano il traffico sulla statale, gridando “libertà. La polizia risponde con lacrimogeni e manganelli.
Due giorni dopo era prevista la riunione di una commissione tecnica cui avrebbe partecipato anche il sottosegretario Mantovano: loro miravano a far pressione per ottenere il permesso per motivi umanitari.
Mantovano, dopo la rivolta, annuncerà l’istituzione di una seconda commissione per sveltire le procedure ma – al tempo stesso prometterà “tolleranza zero”.

Il bilancio della giornata è pesante: una ventina di manifestanti feriti e 28 arrestati.
Intanto i media parlano di un’indagine volta a svelare una regia nazionale delle rivolte. Negli stessi giorni nei CARA del sud serpeggia la rivolta da Mineo a S. Anna di Capo Rizzuto, dove la sera stessa i richiedenti asilo scendono in strada, bloccando la statale 106 jonica. La polizia carica e due manifestanti vengono arrestati.
I media parlano di “infiltrati”, sostenendo che la rivolta era “troppo” ben pianificata e si era dimostrata la conoscenza di “tattiche di guerriglia”.
Come sempre, per chi ha il potere e per i tutori dell’ordine costituito, l’azione diretta autorganizzata è qualcosa di difficile da mandare giù.

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Foto della commemorazione di Filippo Filippetti

Il primo agosto è stato commemorato l’anarchico livornese Filippo Filippetti, muratore, sindacalista USI ed ardito del popolo, ucciso dai fascisti nel 1922, mentre si opponeva ad una spedizione punitiva.
L’iniziativa alla lapide di Via Provinciale Pisana, organizzata dalla Federazione Anarchica Livornese e dal Collettivo Anarchico Libertario, ha visto anche la partecipazione dell’A.N.P.P.I.A, e la presenza dell’A.N.P.I.

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Polizia Municipale, il corpo più odiato dalla popolazione livornese

da: senzasoste.it


Ci risiamo. L’ennesimo episodio di tensione tra vigili urbani e ambulanti senegalesi nella zona del Mercato ha portato all’arresto di un giovane, con l’accusa, prontamente rilanciata dalla stampa locale, di aver addirittura tentato di strangolare una vigilessa.
Nessuno di noi era presente, ma chi conosce i senegalesi sa che si tratta di persone tranquille e benvolute da tutti. Si contano sulle dita di una mano gli episodi di violenza in cui sono rimasti coinvolti. Sappiamo però che da una vita è in corso una vera e propria persecuzione a danno degli ambulanti, con uno spreco di risorse pubbliche che ha dell’assurdo e metodi da ronde leghiste da parte di alcuni poliziotti e poliziotte municipali.

Questa guerra ai senegalesi non si giustifica neanche con la necessità di rispondere a richieste o petizioni dei cittadini. La popolazione livornese ha sempre solidarizzato con gli ambulanti, aiutandoli a nascondere la merce, avvertendoli della presenza delle “ronde”, protestando vivacemente con i vigili, inviando alla stampa locale lettere di protesta e appelli alla tolleranza. Tranne qualche isolato razzista: guarda caso quando succede qualche tafferuglio al mercato è sempre presente il solito commerciante, sempre pronto a testimoniare contro gli immigrati e a scrivere alla stampa locale lettere di fuoco contro l’abusivismo.
La filastrocca della legalità che viene usata per giustificare queste indegne retate non regge: se davvero si vuole colpire la vendita di merci contraffatte si vada a sequestrarle a chi le produce e le mette in circolazione, e non a lavoratori che le hanno già pagate e dalle quali dipende la loro sopravvivenza. Si dice che dietro ci sia la camorra: forse tremano le gambe? È più facile fare i Rambo con chi deve vendere quattro accendini per arrivare in fondo al mese?

Questo dovrebbe essere l’ABC per un’amministrazione che si dice di sinistra, ma forse il recente incontro tra il sindaco Cosimi e il suo collega fascista veronese Tosi ha partorito più frutti di quanti ce ne potessimo aspettare. E ci sarebbe da fare un discorso, una volta per tutte, su quali e quanti progetti di cooperazione internazionale e di integrazione degli immigrati ha promosso negli ultimi anni il Comune di Livorno. Ricordando, come ultimo esempio poco edificante, la gestione cialtrona dell’emergenza immigrati dal Nordafricacon quattro ragazzi relegati nelle campagne di Monterotondo senza neanche il minimo tentativo di accoglierli nella nostra comunità (e di questo ne parleremo a tempo debito visto che pochi giorni fa membri della maggioranza stessa hanno criticato l’operato dell’amministrazione).

Ma tornando ai vigili, qui ormai il problema non è più soltanto quello del rapporto con gli immigrati: non si contano più gli episodi in cui semplici cittadini lamentano atteggiamenti di arroganza e ottusità da parte della Polizia municipale. Ma fanno dei corsi di formazione? Glielo insegnano in Comune a tenere atteggiamenti provocatori? Dov’è scritto che l’intervento dei vigili debba immancabilmente creare situazioni di tensione? Dov’è scritto che questo corpo di polizia debba venire usato contro i cittadini e non per offrire un servizio alla comunità?

Molto tempo fa, a seguito di un altro episodio come quello che stiamo commentando, scrivevamo: “gli fanno fare gli agguati agli immigrati e alle macchine in divieto di sosta anziché mandarli a fare vigilanza contro la speculazione edilizia, le discariche abusive, i reati ambientali, o tanti altri problemi su cui hanno competenze specifiche. Ci piacerebbe sapere quante risorse vengono impiegate per la verifica di irregolarità nell’edilizia e quante per tartassare i senegalesi”. Non solo da allora la situazione non è migliorata ma è gravemente peggiorata.

Perché, a dire la verità, ora i vigili ci vanno a occuparsi dei problemi ambientali: al Limoncino ad esempio, dove hanno fatto i controlli a quelli che hanno firmato la petizione contro la discarica, seguendo una lista fornita dal padrone. E ci vanno ai blocchi organizzati dai livornesi per difendere il loro territorio, ma per multare i pedoni per intralcio alla circolazione e chiedere i documenti a chi protesta. Legalità, certo. L’utilizzo dei vigili in termini sempre più esplicitamente repressivi è una dimostrazione evidente di quanto questa amministrazione non si ponga più neanche il problema del consenso ma si muova sul territorio come un potere coloniale con il solo obiettivo di imporre balzelli e di garantire i profitti dei suoi “grandi elettori”. Sarà un caso, ma l’ultimo articolo sul manganello ai vigili è uscito subito dopo la contestazione del Comitato del Limoncino in Consiglio comunale. La contestazione è dell’11 luglio e il 16 il Tirreno “lancia un messaggio” riprendendo la questione.

Eppure, come ricordavamo qualche giorno fa sul nostro sito, il sindaco Cosimi nel 2003 dichiarava che i vigili a Livorno non avrebbero avuto i manganelli ma le triglie. Forse è per condire le triglie che gli hanno dato in dotazione lo spray al peperoncino. Oltre naturalmente ai manganelli, a riprova di un’amministrazione che nel rapporto con i livornesi si sente tranquillamente in diritto di dire tutto e il contrario di tutto, promettere e non mantenere, inventarsi balle. O di esultare scompostamente per un referendum che non ha raggiunto il quorum, alla faccia di chi dovrebbe promuovere la partecipazione e su di essa basare la propria legittimità politica. Attenzione, perché in futuro, con una crisi sempre più grave che acuirà il disagio sociale, la tentazione sarà quella di rispondere con un controllo del territorio in chiave esclusivamente repressiva. Le stellette e gli stivaloni al posto dell’assistente sociale, del medico, dell’autista dell’autobus.

La responsabilità della situazione che si è creata è quindi dell’amministrazione comunale, ma prima che succeda il peggio è necessario dare un segnale inequivocabile e arrivare alle dimissioni del comandante dei vigili. L’opposizione per una volta faccia il suo, magari si organizzi una raccolta di firme, ma si intervenga prima che qualcuno si comprometta o succeda qualcosa di grave. (red.)

4 agosto 2011

In foto il comandante della Polizia Municipale Riccardo Pucciarelli (foto tratta da edipol.it)

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Una finanziaria di guerra

da: http://federazioneanarchica.org


Come al solito i potenti sono tutti d’accordo. Il presidente della repubblica, il capo del governo, il ministro dell’economia, i leader politici di maggioranza e della sedicente opposizione.
Mentre l’Istituto Nazionale di Statistica ci informa che in Italia ci sono 8 milioni di poveri, di cui 3 milioni sotto la soglia di povertà assoluta, questi signori hanno deciso, tutti insieme e in tempi record, di far pagare tutti i costi della crisi a chi la crisi l’ha subita tutta: i pensionati, i precari, i lavoratori dipendenti, i disoccupati, le donne, gli immigrati.
I tagli alle cosiddette “agevolazioni” fiscali, introdotte a suo tempo per compensare l’aumento delle aliquote per i redditi più bassi, colpiranno, per l’appunto, solo i redditi più bassi. Tra l’altro, di fronte ad un gettito richiesto dall’aumento della pressione fiscale di 4 miliardi nel 2013 e di 20 miliardi nel 2014, questi tagli prevedono un aumento del prelievo fiscale, a carico delle sole famiglie più povere, di 8 miliardi nel 2013 e di 40 miliardi nel 2014.
L’introduzione dei ticket nei pronti soccorsi e per le ricette trasforma la malattia in un lusso.
Se avessero voluto risparmiare 22 miliardi di Euro avrebbero bloccato il TAV in Val Susa o avrebbero ritirato le truppe dall’estero.
Se ne avessero voluti risparmiare 23 (tanto valgono le indennità percepite dai politici locali e nazionali) avrebbero potuto tagliarsi gli stipendi e i benefit e invece hanno introdotto surrettiziamente un emendamento che comporterà l’aumento della diaria dei parlamentari di 3/400 euro al mese. 
Visto che, nonostante questa manovra, non hanno neanche risolto il problema del disavanzo (con lo stesso sistema già adottato in Grecia) aspettiamoci una nuova crisi del debito a breve che servirà a far passare l’aumento dell’età pensionabile a 67 anni per tutti, l’aumento dell’IVA e la vendita di qualche monumento nazionale (come ha già fatto il Comune di Roma con il regalo del Colosseo a Della Valle). 
Con buona pace di chi si illudeva nel cambiamento determinato dal referendum gli enti locali saranno comunque costretti a vendere le imprese partecipate e le municipalizzate (e non solo gli acquedotti) per non dichiarare fallimento.

Lo sappiamo noi e lo sanno milioni di lavoratori, precari, studenti, senza casa, specie se donne: la finanziaria scarica il peso della crisi sui poveri e rimpolpa le tasche dei ricchi. Niente di nuovo sotto il sole.
La disoccupazione – già fortissima – sarà aggravata dal blocco del turn over negli impieghi pubblici come dalle norme che perpetuano la precarietà. Chi lavora farà ancora più fatica ad arrivare a fine mese. L’ennesimo attacco alle pensioni renderà sempre più difficile la vita di milioni di anziani poveri. Gli ennesimi tagli nei servizi sociali aumenteranno le spese per i lavoratori. Queste misure, messe insieme, faranno sì che tanti dovranno ridurre le spese. Ed ogni riduzione di spesa, in questo sistema perverso, significa ulteriore aumento della disoccupazione perché se la gente non compra, la produzione non può che diminuire.
La crisi, pretesto di ogni furto legalizzato dalle tasche dei più poveri, alimenta se stessa.
In questi anni tutti gli interventi voluti dall’Unione Europea non hanno avuto altro effetto che allargare la crisi: la cura aggrava il male anziché eliminarlo. L’esempio greco è sotto gli occhi di tutti: buona parte della popolazione ellenica lo ha capito benissimo e non vuole altri interventi, non vuole altri prestiti destinati a calmare per un po’ la fame infinita degli istituti bancari.

È tempo di invertire la marcia. In questi anni l’unico paese uscito da una crisi è stata l’Argentina, dove l’estendersi dell’azione diretta e di forme di autogestione popolare territoriale, nonché lo sviluppo di esperienze di economia solidale hanno costretto i governi a scelte del tutto diverse.
In Europa gli sfruttati islandesi hanno dato un segnale forte e chiaro, gettando a mare le ricette di lacrime e sangue e spingendo per l’attuazione di politiche solidali.
Nel Mediterraneo del Sud e nella stessa Europa le proteste sono spesso sfociate in vere e proprie rivolte contro le politiche governative. In alcuni casi le stesse istituzioni – comprese quella della democratica Europa – sono state delegittimate dalle piazze.
La schiavitù salariata – per chi non vive sfruttando gli altri – in questo sistema sociale è l’unico orizzonte possibile. Ma sempre più sfruttati lottano per cambiare radicalmente l’orizzonte.
Anche in Italia i movimenti dell’ultimo anno paiono alludere ad una rinata voglia di autonomia, ad una maggiore consapevolezza della necessità di guadagnarsi un futuro migliore, senza delegare a uno dei due poli o ai sindacati concertativi e complici di governo e padroni il proprio futuro.

Serve tuttavia che le lotte si estendano, che la solidarietà sia il cemento di un movimento radicale e radicato, che sappia spezzare il consenso intorno allo Stato e al capitalismo, per difendere la dignità, la libertà, le condizioni di vita delle classi oppresse e sfruttate.
Ma la difesa non basta. Occorre cambiare registro, occorre che le lotte siano il terreno in cui attecchiscono i semi di una società diversa, egualitaria ed autogestionaria.
Ormai i segnali ci sono tutti: basta saperli ascoltare e fare propri.
A dieci anni da Genova, a dieci anni dalla fine del movimento contro la globalizzazione, serve quel passo in più che mancava allora.
Grecia, Spagna, Portogallo, Egitto, Val Susa sono il segno forte del vento che cambia.
Un vento che questa volta non va imbrigliato nelle vele stanche della democrazia partecipata, del capitalismo dal volto umano, del sindacalismo concertativo ma non troppo.
Non serve un nuovo partito, non serve un nuovo movimento dei movimenti: l’autonomia degli oppressi e degli sfruttati si esprime in modo diretto, dal basso sviluppando movimenti di lotta radicali e radicati.
La gente comune, quella stanca di pagare ed obbedire, sta riprendendo in mano il proprio destino.
È tempo di cambiare rotta.

Commissione di Corrispondenza della Federazione Anarchica Italiana

Commissione di Corrispondenza
Federazione Anarchica Italiana
Corso Palermo, 46 – 10152 Torino
www.federazioneanarchica.org
Tel. 333 3275690

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Anarchico livornrese, antifascista, ucciso dai fascisti

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Viva Gaetano Bresci!

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Cronache dalla Maddalena occupata

riceviamo e pubblichiamo

Cronache dalla Maddalena occupata

Assedio
Venerdì 22 luglio. Al presidio della centrale, dopo il ponte sulla Dora, è
il giorno dell’accerchiamento. Zaini, limoni, bottigliette di acqua e
malox, maschere antigas di tutte le fogge spuntano da ogni parte. Da una
settimana la polizia asserragliata dietro i due sbarramenti che chiudono
l’accesso alla strada dell’Avanà, spara lacrimogeni ai No Tav che cingono
d’assedio il fortino messo su dallo Stato alla Maddalena occupata.
Basta un battitura più intensa, un pezzo di rete tagliata per scatenare la
rappresaglia con idranti e gas nocivi. Ma i No Tav hanno la testa dura. Il
tam tam di movimento diffonde le notizie sulle maschere che costano meno,
su quelle che durano di più, sui posti dove comperarle. Quelle per il
verderame, mi dice una compagna, dovrebbero tenere 8 ore ma con i gas CS
dopo solo 20 minuti il filtro è da cambiare.
I più incoscienti e temerari usano mascherine da ospedale o fazzoletti
bagnati.
Alcuni passano da Giaglione, altri si incamminano sul sentiero No Tav, che
collega la “centrale” con la zona della Baita, girando intorno al piazzale
occupato. Il sentiero con tanto di segnavia “No Tav” è stato aperto,
pulito e segnato nei giorni precedenti.
Un breve scroscio di pioggia apre la serata che torna presto limpida. In
ogni angolo partono ritmiche le battiture: c’è gente sulla strada che
scende alla centrale come su quella che porta al bivio per la Ramats. Sul
sentiero “No Tav” lampeggiano centinaia di luci: un serpentone che
picchietta la montagna di lievi brillii. Alla centrale, lungo la strada e
nel fortino/pollaio in cima ci sono fari potentissimi, che illuminano a
giorno il filo spinato, i container, parte delle vigne.
La potenza debole e arrogante degli occupanti frantuma la notte, nasconde
il cielo, come nel set di un film di guerra. La guerra dichiarata dallo
Stato italiano alle popolazioni ribelli di quest’angolo di nord ovest.
Dal lato Giaglione viene acceso un falò sotto i piloni dell’autostrada,
mentre il gruppo partito dalla centrale raggiunge la gabbia. Gli uomini in
divisa sparano: una pioggia di lacrimogeni si abbatte sui No Tav, volano
sassi e scoppia qualche bomba carta. La polizia decide per l’ennesima
volta di chiudere la A32 tra Susa e Oulx.
Dalla strada che scende a Chiomonte e dal paese il fragore delle battiture
sale sempre più forte. Tutti gli sguardi sono diretti verso l’altro
versante della montagna da cui si leva un fumo denso bianco, come un
calderone.
Chi è lì ma lontano dalla mischia guarda con partecipazione e affetto. “Ma
quelli chi sono?” Saranno i poliziotti?” “No, No! quelli non escono dal
pollaio!” “Tua figlia è là? L’hai sentita?” “No, meglio di no, chiamo
dopo”.
Sento un compagno: “come stai? Tutto bene?” “Sì, adesso va bene: ci
eravamo persi, ma poi ho ritrovato il sentiero. Per poco non ruzzolavo
giù: fortuna che un altro compagno mi ha pescato al volo. Ci hanno
ammazzati di gas”.
Un fuoco d’artificio spezza la notte.

Da Kabul a Chiomonte: via gli alpini!
Sabato 23 luglio, Baita Clarea. I No Tav della rete “torino&cintura sarà
dura” si sono dati appuntamento per una giornata antimilitarista. Prima di
pranzo facciamo un giro alle gabbie e raccogliamo due borsate di bossoli
di lacrimogeni. Incrociamo forestali e poliziotti che stanno facendo lo
stesso lavoro, per far sparire le tracce della notte precedente. Insistono
per vedere le nostre carte di identità e poi si allontanano.
Intorno alle gabbie hanno sbancato con le ruspe per rendere più difficile
avvicinarsi: all’interno stazionano all’ombra dell’autostrada una
cinquantina di poliziotti e finanzieri. Un cingolato sposta qualche
jersey.
Gli alpini della Taurinense, gli ultimi arrivati nel fortino della
Maddalena, se ne stanno lontani dalle reti.
Il governo, dopo lungo tergiversare, ha deciso di impiegare l’esercito in
Val Susa. Ospitare in albergo poliziotti, carabinieri, finanzieri e
forestali costa troppo: gli alpini dormono in caserma. Dopo la guerra in
Afganistan, nei CIE della penisola o nelle periferie delle nostre città
sono pronti per la Maddalena.
Nel pomeriggio andiamo alle gabbie per un rumoroso saluto ai nuovi
arrivati: collane di fiori, bombe di coriandoli, uno striscione con la
scritta “Da Kabul a Chiomonte: via gli alpini!”.
Attacchiamo alle reti carta e plastica trasparente, dove ciascuno scrive
il proprio messaggio ai nuovi arrivati “Soldà fora d’le bale!”, “Gli
alpini attaccano la gente delle alpi”, “No a tutte le guerre!”.
Poi parte la battitura sul cancello. Una buona mezz’ora e poi si va.
Lungo la recinzione hanno chiuso col filo spinato il camminamento che
consentiva di salire alla strada asfaltata ma il modo di salire lo
troviamo lo stesso: arriviamo sulla strada dell’Avanà, apriamo lo
striscione e partiamo in corteo verso la centrale. A metà strada ci viene
incontro la polizia in assetto antisommossa, che ci spiega a gesti che non
possiamo andare oltre. Gli argomenti sono rozzi ma inequivocabili.
Arriva anche la digos: sono nervosi ed incazzati. È la seconda volta in
due settimane che, in barba a divieti e cancelli, filo spinato e guardie
armate, torniamo sulla strada che porta alla Maddalena.
Alcuni poliziotti ci scortano indietro… sul sentiero sbagliato! Quando i
tutori dell’ordine costituito decidono di salutarci, torniamo sui nostri
passi ed imbocchiamo l’erto cammino dell’andata.
Non hanno abbastanza filo spinato, né guardie armate per serrare la
montagna in una morsa: c’è sempre chi si inventa il modo di passare.

Qui trovi qualche foto della giornata:

I No Tav al corteo storico con la Gemma di Susa
Sabato 23 luglio, Susa. È in programma la sfilata storica per le strade
della città. Questa volta ci sono anche i No Tav con tanto di bandiere e
l’ultima creazione di Piero Gilardi: la sindaca di Susa in gommapiuma con
in braccio tutti i doni malefici del Tav. Assisa su un baldacchino
partecipa anche lei alla sfilata: la sindaca originale alla vista del
proprio doppio si allontana in tutta fretta.
Al termine della sfilata si accodano anche i No Tav. Sfiliamo gridando
“giù le mani dalla Valsusa!” “via le truppe di occupazione”. Molti
applaudono, gli unici fischi vengono da un gruppetto vicino ai Lazzaro e
ai Martina i due imprenditori che per soldi stanno erigendo le
fortificazioni alla Maddalena.
Si chiude in bellezza con foto ricordo davanti al palazzo del Comune.

Qui puoi vedere alcune foto della serata segusina:

Alpini del popolo, gas, un ferito grave
Domenica 24 luglio, presidio No Tav alla Centrale. I No Tav che hanno
fatto l’alpino sono tanti in Valsusa: hanno partecipato alla difesa della
Maddalena e sono presenti all’assedio, veri “alpini del popolo”. Come gli
ex arditi della prima guerra mondiale, che scelsero di opporsi al
fascismo, hanno deciso di schierarsi contro l’occupazione militare della
loro valle.
Discorsi, canti, e poi la marcia per il sentiero No Tav sino alla al
piazzale. Dall’altra parte della gabbia ci sono i reduci dell’Afganistan,
i secondini dei CIE, mercenari che hanno scelto il mestiere delle armi.
Come ogni sera, nell’area del presidio ci sono incontri, chiacchiere,
bambini che giocano. Sul primo dei due cancelli che serrano la strada
dell’Avanà comincia la battitura. Un pezzo di cancello viene giù. La
reazione dei poliziotti è immediata: sparano centinaia di cartucce di gas
CS, incuranti dei bambini, degli anziani, della folla domenicale che
mangia e beve.
La gente reagisce con composta calma. I genitori portano i bimbi lontano
lungo il fiume: ne vedo uno sui sei sette anni, il fazzolettino davanti
alla bocca, che guarda con occhi larghi il fumo denso ed acre, che poco a
poco raggiunge l’area del presidio, si insinua tra le tende, invade la
cucina. Chi l’ha indossa la maschera antigas, prende un fazzoletto
bagnato, afferra un limone. Nessuno scappa.
I ragazzi corrono, afferrano i lacrimogeni e li buttano nella Dora o nelle
bacinelle sempre pronte al presidio.
Qualcuno va sulla statale e blocca il traffico.
Un No Tav si avvicina al cancello per scattare qualche foto: gli sparano
un candelotto in faccia rompendogli il naso e la mandibola, tagliandogli
labbra e palato. Lo soccorre un medico No Tav, poi va all’ospedale di Susa
dove lo ricuciono.
Il giorno dopo La Stampa oserà scrivere che i No Tav hanno usato i bambini
come scudi umani. Dell’uomo con la faccia spaccata non farà parola.

La testimonianza di Alessandro, l’uomo ferito dal candelotto:
http://www.youreporter.it/video_FERITO_GRAVE_DA_LACRIMOGENO_IN_VAL_DI_SUSA

Carabinieri e sassi
Lunedì 25 luglio, presidio No Tav alla centrale. Una serata fredda e calma.
La notizia del giorno è l’attacco subito dalla Italcoge la notte
precedente: un camion distrutto, altri danneggiati. Naturalmente i
giornali puntano subito il dito sui No Tav, dimenticando che spesso le
ditte bollite come quella segusina subiscono attentati, che, grazie alle
assicurazioni, garantiscono loro denaro liquido.
Il giorno dopo è previsto un presidio davanti all’Italcoge: se qualcuno
spera che i No Tav rinuncino si sbaglia. Di grosso. L’assemblea del
presidio conferma l’iniziativa.
Nella notte i carabinieri sono schierati come statuine del presepe
sull’alto muraglione accanto agli sbarramenti.
Chi prova a passare sul ponte rischia una sassata: i militari ammazzano il
tempo giocando con le pietre. Niente di speciale, solo sassolini. Chi ha
l’auto al di là del ponte lo attraversa di corsa.

Collaborazionisti
Martedì 26 luglio, viale Couvert, Susa. Dalle sei del mattino circa
duecento No Tav salutano in ingresso e in uscita i mezzi dell’Italcoge,
una delle ditte che dal 27 giugno collabora con le forze del disordine
statale nel costruire il fortino della Maddalena.
Slogan, bandiere, un tappo della benzina che parte e poi torna. Su tutto
una cantilena orecchiabile che diventa subito contagiosa. “Come mai, come
mai, vi chiamate operai? Siete servi degli sbirri e non vi lamentate mai!”
Una sorta di forca caudina dove camion ed auto sono obbligate a passare,
senza tuttavia che vi sia un blocco delle partenze.
Chi collabora con gli occupanti la deve trovare dura.
Una bandiera No Tav viene issata sul pennone che svetta all’ingresso del
piazzale dell’Italcoge.
La mattinata prosegue con un presidio informativo nella limitrofa piazza
del mercato. Su un banchetto piazzato sotto lo striscione “prodotti del
Tav” vengono esposti centinaia di bossoli di gas CS. Volantini e brevi
comizi informano chi passa.
Una goccia nel mare dell’informazione al servizio del Si Tav. Una goccia
corrosiva.

Qui alcune foto scattate all’Italcoge e al mercato:

Le storie raccontate dai giornali del giorno dopo sono molto diverse.
Da mesi provano senza successo a dividere i buoni dai cattivi, i
valligiani dai facinorosi di pianura. Al di là delle diverse posizioni
politiche tutti hanno le idee chiare: i violenti, i devastatori, chi lucra
sulle vite di tutti per il profitto di pochi siede sui banchi del governo
e su quelli dell’opposizione.
Chi ordina di gasare i bambini in Val Susa è lo stesso criminale ha appena
deciso il rifinanziamento della “missione” militare in Afganistan. Lì i
bambini non hanno scrupoli ad ammazzarli.

Maria Matteo

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Giornata in ricordo di Filippo Filippetti

Anarchico livornese, antifascista,  ucciso dai fascisti

 

Lunedì 1 agosto 2011

ore 18:30

Commemorazione presso la lapide

Via Provinciale Pisana 354

(andando verso Via Firenze, alla ex-scuola di fronte al circolo ARCI “Tamberi”)

 

dalle ore 21:00

Serata di memoria antifascista

Mostre, interventi, distribuzione stampa e materiale anarchico

Al Teatro Officina Refugio, Scali del Refugio 8

 

Filippo Fillipetti, giovane anarchico, viene ucciso il 2 agosto 1922 dai fascisti mentre si oppone, assieme ad altri antifascisti, ad una spedizione punitiva contro Livorno.

Il 2 Agosto 1922 un gruppo di giovani antifascisti, tra i quali alcuni anarchici, ingaggia uno scontro armato nei pressi di Pontarcione con i camion dei fascisti di ritorno dall’aver assassinato i fratelli
Gigli la sera prima. Muore nella sparatoria Filippo Filippetti, membro degli Arditi del Popolo, sindacalista dell’USI per il settore edile.

Dopo un crescendo di aggressioni compiute dai fascisti nei confronti delle organizzazioni del movimento operaio, sedi sindacali, politiche e culturali, e singoli militanti, con decine di morti fra gli antifascisti, i sindacati indicono uno sciopero generale ad oltranza per fermare le violenze.

I fascisti, finanziati da agrari ed industriali, armati dai Carabinieri e dall’Esercito, protetti dalla monarchia e dai circoli militari e clericali, aggrediscono le roccaforti operaie, ma sono dovunque
respinti.

Livorno è uno dei centri dello scontro; militanti anarchici socialisti e comunisti cadono sotto il piombo fascista, ma nei quartieri proletari si resiste all’invasione.

Solo quando la CGL e il PSI, sperando in un ennesimo compromesso, si ritireranno dalla lotta il Governo potè aprire la strada ai fascisti mandando Esercito e Carabinieri a disarmare gli oppositori,
sostituendo gli amministratori di sinistra con commissari prefettizi.
In uno di questi scontri cadde Filippo Filippetti.

Gli anarchici invitano tutti gli antifascisti a partecipare alla commemorazione.

 

Federazione Anarchica Livornese – F.A.I.

cdcfedanarchicalivornese@virgilio.it

 

Collettivo Anarchico Libertario

collettivoanarchico@hotmail.it

http://collettivoanarchico.noblogs.org

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No Tav. L’assedio e la ruspa

riceviamo e pubblichiamo:

 

Sabato 15 luglio, Baita Clarea. Una bella giornata ci saluta sin dal
mattino. La banda di “Torino&Cintura sarà dura” arriva alla spicciolata:
ci sono anche un paio di operai Fiat in sciopero. Siamo armati di tutto
punto: fischietti, pentole e coperchi, un amplificatore portatile, tre
megafoni.
In mattinata facciamo un po’ di giri. La Baita è ancora un’oasi, ma poco
oltre è il caos. Due file di gabbie con filo spinato rinchiudono blindati
e ruspe: gli unici operai che si vedono stanno lavorando a rinforzare le
difese, i poliziotti se ne stanno raccolti all’ombra dell’autostrada.
L’area archeologica è circondata da jersey di cemento armato e ferro, i
pali indicatori sono divelti, l’area pic nic devastata, in terra troviamo
ancora i bossoli dei gas asfissianti, il prato alle spalle dell’ex Museo
si è trasformato in un deposito. Ovunque jersey e sbarramenti. Sul
piazzale sventola il tricolore delle truppe di occupazione. Garrisce su
una gabbia cinta di filo spinato, metafora reale della violenza dello
Stato. Dall’autostrada arriva un camion carico di altri jersey, che
vedremo poi sotto l’autostrada pronti a venire piazzati.
Alla baita ci scambiamo formaggio e frittate di pasta, costolette e panini.
Poi si parte. Saliamo alle recinzioni e ci fermiamo un po’ a suonare e
battere le pentole. La gabbia si riempie subito di digos che vanno su e
giù.
Poi decidiamo di salire: non c’è sentiero, la salita, già erta, è resa
difficile dal filo spinato. Ma alla fine c’è la ricompensa: arriviamo
sulla via dell’Avanà proprio davanti al cancello piazzato a chiudere la
parte finale della strada. Lì scateniamo gli strumenti, mentre a turno
infliggiamo agli occupanti la lettura delle 150 ragioni No Tav.
Poi arriva una ruspa. Di fronte alle nostre bandiere si ferma e pianta il
cingolo nell’asfalto, rompendolo. Vanno avanti i Digos per scortarla, poi
ci spintonano a lato con energia. Per far entrare il mezzo escono dal
fortino anche i finanzieri. Alla fine passa tra fischi e megafonate:
dietro alla grata che lo nasconde al mondo l’autista è una sorta di
automa.
Nel tardo pomeriggio scendiamo: i più decidono di tornare alla baita, dove
scopriranno che poliziotti e forestali hanno fermato e perquisito tre No
Tav. Ad uno vorrebbero persino impedire di arrivare alla Baita.
In cinque decidiamo di scendere dalla strada dell’Avanà sino alla
centrale: i digos ci seguono, i carabinieri all’ingresso sgranano gli
occhi alla vista della nostra bandiera. Al cancello i cattolici stanno
recitando le loro preghiere. Veniamo accolti con felice stupore.
L’assedio continua. Torneremo.

Qui potete vedere alcune delle foto che abbiamo scattato ieri:
http://www.flickr.com/photos/58952321@N07/sets/72157627082860105/show/

Info: notavautogestione@yahoo.it

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