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Economia politica dello stupro

(da Umanità Nova n.9 dell’8 marzo 2009)


Di fronte agli stupri di queste ultime settimane accompagnati dal
vergognoso rito delle strumentalizzazioni in chiave "anti-immigrati" e
"sicurezza" (e con il solito contorno di decreti legge urgenti e
istituzione di ronde fasciste), mi chiedo se siamo condannate alla
ripetizione, una ripetizione oramai logorante e che sembra smentire
quel repetita iuvant che tante volte in questi anni mi sono ripetuta
(ci siamo ripetute).
Mi chiedo (con molta rabbia e nessuna rassegnazione): quante volte
ancora sarà necessario denunciare quella che definisco economia
politica dello stupro? Perché, purtroppo, lo sappiamo: la storia
non è nuova.
Ne parlava già Angela Davis più di vent’anni fa in Sex,
Race and Class, quando denunciava l’uso del "mito dello stupratore
nero" nell’America razzista dei linciaggi e della supremazia bianca. Ma
forse potrebbe tornarci utile cominciare a ricostruire, anche solo per
frammenti, la storia della versione italica del mito.
Il 30 ottobre 2007; a Roma, una donna viene brutalmente aggredita,
picchiata e stuprata. La donna, Giovanna Reggiani, morirà, senza
riprendere conoscenza, qualche giorno dopo, mentre lo stupratore,
Romulus Mailat, sarà in seguito condannato a 29 anni di carcere.
Basta dare un’occhiata ai dati Istat 2007 (che, con variazioni minime,
sono validi a tutt’oggi), per avere conferma che questo episodio,
seppur terribile, non rappresenta un’eccezione: in Italia, patria
dell’amor cortese e del delitto d’onore, milioni di donne sono vittime
di gravi violenze fisiche e psicologiche fino all’omicidio e circa 200
al giorno sono gli stupri (o tentati stupri) che si consumano
nell’assordante silenzio e indifferenza dei media mainstream e dei
poteri pubblici e politici.
Eppure intorno a questa vicenda si scatena immediatamente un’imponente
campagna mediatica e politica che dura molte settimane, al punto che il
nome di Giovanna Reggiani (insieme forse a quello di Hina Salem)
diviene uno dei pochi nomi di donne vittime di violenza sessuale
entrati nella memoria collettiva. Non credo sia superfluo chiedersi
perché.
La risposta è brutale: a differenza di centinaia di altri
episodi che non hanno meritato neanche un trafiletto, questo ha come
"protagonisti" un uomo e una donna dalla "pelle giusta", per dirla con
il titolo di un libro di Paola Tabet. Giovanna Reggiani è la
vittima perfetta (italiana, moglie e lavoratrice esemplare, tra l’altro
attiva nel volontariato cattolico) così come Romulus Mailat
è lo stupratore perfetto: è nel "nostro" paese
illegalmente, vive in una baracca sepolto dall’immondizia, dedito al
furto, è un cittadino rumeno di etnia rom, o meglio (o forse,
strumentalmente, soprattutto) un "romeno" come viene prontamente
ribattezzato dalla maggior parte della stampa (che svela profonda
ignoranza: perché se molti rom hanno la cittadinanza rumena, ve
ne sono anche di macedoni, kosovari e serbi, ma la maggioranza dei rom
è costituita da italiani, proprio come le vittime dell’assalto
compiuto dalla cosiddetta Banda della Uno Bianca al campo nomadi di via
Gobetti, a Bologna).
E’ quanto serve (e basta) a riattivare ancora una volta (e in grande
stile) "l’equazione sciagurata tra violentatore e immigrato", equazione
già denunciata l’anno precedente a Bologna dalle donne migranti
durante una manifestazione contro la violenza sulle donne. Un fatto di
cronaca, simile a centinaia di altri altrimenti passati sotto silenzio,
viene preso a pretesto per scatenare una campagna politica
(ignobilmente sostenuta dalla grande maggioranza degli organi di
stampa) contro "lo straniero stupratore".
Il guadagno che si ricava dall’operazione è doppio. Da una parte
si fomenta, agitando uno dei fantasmi più tenaci di un certo
immaginario in specie maschile, il razzismo mai sopito degli italiani
brava gente (in un clima di isteria collettiva c’è anche chi
assalta con bombe molotov dei campi rom in diverse città
italiane) e un allarme sociale che permette di varare decreti d’urgenza
contro i/le "clandestin*". Dall’altra (e concordemente), amplificando
ad arte la percezione del rischio stupro da parte di sconosciuti
(stranieri) si trasforma la violenza sulle donne in un problema di
"ordine pubblico", in una questione di sicurezza e di controllo del
territorio.
E questo nonostante i dati mostrino che solo il 10% delle violenze
sulle donne è commesso da stranieri e solo il 6% da estranei
(ancora dati Istat 2007), mentre la maggior parte avviene tra quelle
che vengono (impropriamente) definite "pareti domestiche" ad opera di
uomini perfettamente conosciuti dalle vittime. Questi sono per la
maggior parte italiani, in primis mariti e amanti (in specie se "ex") e
parentame vario, ma anche datori di lavoro, insegnati, medici, preti e
tutori dell’ordine (in questi casi quasi esclusivamente italiani).
Nella grande manifestazione contro la violenza maschile sulle donne
tenuta a Roma a qualche mese dalla morte di Giovanna Reggiani, avevamo
ribadito in maniera forte e chiara la nostra volontà di non
essere strumentalizzate per fomentare il cosiddetto scontro di
civiltà e giustificare la deriva securitaria in atto e pratiche
sempre più autoritarie e lesive della libertà di tutti e
tutte e in particolare proprio di quei soggetti che si vorrebbero
"tutelare", cioè noi "donne" (e tra queste in particolare le
migranti). Sappiamo che la violenza contro le donne non ha confini
geografici, né di cultura o religione, ma è l’espressione
di un violento rapporto di potere (che è sociale, politico ed
economico) esercitato dagli uomini (non come categoria "naturale", ma
"sociale": "bianchi", eterosessuali, borghesi, cattolici …) sulle
donne. È questo rapporto che va denunciato, combattuto e
distrutto. Ma il suo smantellamento non sarà possibile senza
affrontare la prova, difficile e urgente, di nuove forme di
articolazione delle lotte antisessiste e antirazziste.

Vincenza Perilli

 

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