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I sentieri dei ribelli

da: Umanità Nova n.3o

 

In migliaia oltre la zona rossa

Giaglione 23 ottobre
Una domenica d’autunno vera, grigia e freddina, ci ha accolti a Giaglione nel giorno del “taglio alle reti” del cantiere. La strada delle gorge è sempre bellissima: il verde trascolora nel giallo e nel rosso e la foschia opacizza il quadro, rendendo remota a impalpabile la scena.
Sono sulla strada che porta alla baita e guardo avanti: il corteo deve ancora partire, la gente si sta raccogliendo in piazza e nel campo sportivo. È un breve tempo di attesa, quello che da sapore ad un’intera giornata.
Il momento non è facile. Vent’anni di lotte insegnano tanto, ma mai abbastanza. Nel ricordo le giornate del 2005 sono lunghe, lunghissime, scolpite minuto dopo minuto nella memoria, ma a ben pensarci non trascorse nemmeno un mese e mezzo tra il Seghino e le giornate di Venaus.
Nessuno forse se ne ricordava ma il 23 ottobre erano cinque mesi giusti dal primo attacco alla Maddalena. Tanta acqua è passata sotto i ponti della Dora da maggio, quando il suono delle motoseghe scandì il ritmo di quella prima notte di barricate.
Da quel giorno siamo sempre stati in pista. Mille iniziative di resistenza, informazione, lotta. A volte tutti quanti, a volte in pochi, a volte convinti a volte meno.
Da mesi i No Tav assediano il fortino. Ci sono state le nottate rotte dal fragore delle bombe carta e dei petardi, annegate nel fumo dei lacrimogeni e le passeggiate tra le vigne chiuse dal filo spinato. C’è stato Turi sull’albero e i ragazzi che tagliavano le recinzioni, ci sono state le pietre ai poliziotti e i bossoli di lacrimogeno in faccia alla gente. Ci sono state le passeggiate di tutti quanti e gli assalti di chi voleva e poteva.
C’era e c’è un movimento popolare che non si fa spaventare né dalla violenza della polizia, né dagli assalti dei media, né dalle denunce e dagli arresti.
C’è un movimento che si interroga giorno dopo giorno sulle scelte da compiere e prova, non sempre con successo, a percorrere una strada condivisa dai più.
C’è un movimento che a volte fa fatica ad affrontare uno scenario ben diverso da quello del 2005, quando in pochi giorni la rivolta dell’intera Val Susa obbligò il governo ad una rapida marcia indietro.
Le reti del fortino della Maddalena, il filo spinato, gli uomini in armi sono divenuti il simbolo dell’arroganza dello Stato. Il simbolo concreto e violento della volontà di imporre con la forza scelte non condivise.
Nella loro materialità eccessiva sono un chiaro monito: di qui non si passa, i più forti siamo noi. La spinta a tagliarle, a riprendersi la terra e la libertà di scegliere il proprio presente è frutto di una spinta più etica che politica.
Quando crollano le dittature la gente non si accontenta della fine di un regime, ma si affretta ad abbatterne i simboli.
Guardo la valle, che qui a Giaglione è stretta stretta. Le luci violente del fortino appaiono livide nel mattino. Ne abbiamo discusso e ridiscusso, di questa gita alle reti, per tagliarle tutti insieme, a volto scoperto, violando apertamente le leggi. Una sorta di assunzione collettiva di responsabilità, rafforzata dalla consapevolezza che la magistratura potrebbe presentare il conto a chi sceglie di ribellarsi apertamente.
Non a tutti piaceva l’idea. Se ne è parlato e riparlato.
A sciogliere dubbi ed incertezze sulla giornata del taglio alle reti ci ha pensato il governo. Chi siede sulle poltrone del potere crede che l’arroganza, le minacce, la violenza degli uomini in divisa bastino a fermarci. Ancora una volta Berlusconi e Maroni hanno dovuto fare i conti con le nostre teste dure. Teste da bugianen.
Gli scontri del 15 ottobre a Roma hanno innescato una campagna di criminalizzazione preventiva con pochi precedenti. Secondo il Ministro dell’Interno i No Tav avevano addestrato quelli che la stampa chiama “Black Bloc”. I violenti di tutt’Italia si stavano preparando per radunarsi nei boschi di Chiomonte. L’esito della giornata era già dato per scontato.
A pochi giorni dall’iniziativa, le cui caratteristiche di azione diretta non violenta, o, se si preferisce, di disobbedienza civile collettiva, erano state ampiamente illustrate e sancite dall’assemblea popolare di Villardora, l’attacco si è fatto sempre più crudo.
Venerdì 21 la questura ha istituito una vastissima zona rossa, annunciando la chiusura di strade e sentieri. Sabato 22 chi era alla baita No Tav è stato identificato e minacciato di denunce, poi la zona è stata circondata: non si poteva né entrare né uscire.
Domenica mattina ovunque c’erano posti di blocco con centinaia di carabinieri: la questura si vanta di aver controllato centinaia di auto e migliaia di persone.
Il clima è pesante. Difficile dire come andrà.
Quando il corteo mi raggiunge vedo la gente delle grandi occasioni. Tanta, tanta, tanta. Sulla strada, poco dopo la cappella, in salita verso la zona delle cabine elettriche, serrata dal giorno prima da jersey di cemento e acciaio, la questura ha piazzato una rete. Dietro ci sono tutti: dal capo della Digos Petronzi, al capitano dei carabinieri di Susa Mazzanti, al solito nugolo di digos. Dicono di voler consegnare una notifica di divieto di proseguire, poi indietreggeranno.
Intorno, appollaiati sui muretti a secco, ci sono frotte di giornalisti. Sembra uno spettacolo con tutte quelle telecamere, macchine fotografiche, taccuini, computer.
Uno spettacolo predisposto dalla Questura nella speranza che i No Tav si accontentino del taglio di una rete piazzata per l’occasione.
La rete viene giù in fretta ma tutti proseguono. Nessuno si cura della zona rossa: si sta camminando per strade proibite da un bel pezzo. Si è deciso di non obbedire agli ordini e nessuno esita.
Quando lo sbarramento successivo impedisce di andare non si torna indietro. Qualcuno si era già avviato per il sentiero dei monaci, più lungo ma meno difficile. Gli altri si dividono: qualcuno sale sulla destra, i più ardimentosi scendono a precipizio nel vallone, su una traccia a strapiombo. È pericoloso ma pian pianino la gente va. Tutti si aiutano.
Sui sentieri i cacciatori di Sardegna, il corpo dei carabinieri addestrato per le battute in montagna, non possono nulla contro la marea umana che avanza.
Sul ponte del Clarea, poco prima della Baita, la polizia in assetto antisommossa occupa il ponte. Poco male. Si guada il fiume, infischiandosene degli armati impettiti e un po’ ridicoli sul ponte.
Poco a poco alla baita si raccoglie una piccola folla. Le provviste accumulate nei mesi finiscono subito. Fuori lo scenario non è quello solito, quello immaginato nelle assemblee. La truppe sono fuori dalle reti a pochi metri dalla baita. Impossibile circondare tutti insieme le reti e cominciare a tagliarle: per farlo occorre passare in mezzo agli uomini dell’antisommossa.
La questura ha giocato la sua carta con intelligenza: niente gas, oggi sono pronti i manganelli.
Qualcuno vorrebbe provare lo stesso. I più decidono di tornare indietro, paghi del risultato.
Dieci, forse quindicimila persone che, tutte insieme, violano la zona rossa e arrivano ad assediare il fortino sono l’esito non scontato della giornata. Un esito importante. Forse è la prima volta nel nostro paese che la zona rossa viene ignorata ed aggirata da tanta gente. Forse è stato un bene non offrire il destro per scatenare le truppe.
Si poteva osare di più? Si poteva tentare di avvicinarsi alle reti? Probabilmente sì. Il rischio, chiaro a tutti, era che ne nascesse una colluttazione, che la polizia provasse a provocare lo scontro.
Per mantenere fede agli impegni presi in assemblea bisognava avanzare con le tronchesi in mano affrontando senza reagire le botte. Ne saremmo stati capaci?
Difficile dirlo.
La trappola mediatica era chiara: se le reti non fossero state tagliate, avrebbero detto che ci avevano fermati. Se non fossimo riusciti a mantenere la calma mentre la polizia ci picchiava, avrebbero scritto che le fosche previsioni della vigilia si erano avverate.
Bisogna imparare a dare meno importanza ai media. Quanta più gente si fa capace di autogestire i flussi informativi, quanta più gente se ne infischia dei media main stream, tanto maggiore sarà l’autonomia reale del movimento.
Oggi la scommessa forte è non cadere nella trappola predisposta dai media e dai politici interessati a drenare consensi elettorali: non ci sono i buoni e non ci sono i cattivi. C’è un movimento che lotta e resiste, ciascuno a suo modo, nel rispetto di tutti e di tutte. Occorre non smarrire il sentiero, non divenire ostaggio delle menzogne di media e politici, non permettere a nessuno di dividerci.
Mentre torno indietro il freddo morde più forte. Mi fermo e riguardo il panorama del mattino. Le luci sono sempre lì. Le reti anche. Ma chi sta intorno a quelle reti sa che non c’è zona rossa che tenga, non ci sono sbarramenti che possano fermarci. Li abbiamo aggirati in migliaia e migliaia, camminando su una via impervia al passo ma lieve per chi sa che all’arroganza dei potenti ribellarsi è giusto. In barba alle leggi, ai regolamenti, alle prescrizioni, ai posti di blocco, alle zone rosse.
Domani è un altro giorno.
Il movimento è forte e radicato ma stenta a trovare il ritmo di una rivolta che oltrepassi il cerchio magico e maledetto delle reti del fortino per riversarsi nelle strade, nei palazzi di chi decide, nello sciopero generale e nel blocco di tutto quanto.
Un blocco ad oltranza, che si organizzi per resistere, un blocco popolare dove ci siano tutti. Tutti. I giovani e i meno giovani, quelli che hanno coraggio e quelli che il coraggio se lo devono dare, i non violenti e quelli credono legittima la difesa, chi vorrebbe cambiare il mondo e chi si accontenta di non farlo peggiore di com’é.
Eppure questo ritmo occorrerà trovarlo. Prima o poi proveranno a farlo davvero il cantiere, si prenderanno la baita e spezzeranno la montagna con la dinamite. Noi dobbiamo fermarli prima che sia tardi. Inutile illudersi ed illudere sulla lotta di lungo periodo, perché rischiamo il logoramento, la disillusione, la rassegnazione che hanno minato e distrutto altri movimenti.
Non possiamo aspettarli nel fortino di Asterix, perché quella storia è già scritta e porta impresso il marchio della sconfitta. Non si vince con la forza contro chi ne ha il monopolio legale, non si vince contro i blindati, i lince, gli alpini, i parà, i poliziotti, i carabinieri, i forestali… tutto l’apparato militare dello Stato contro di noi.
La nostra forza è nelle nostre ragioni, la nostra forza e nella pratica del confronto e nell’azione diretta non delegata a nessuno. La nostra forza è il radicamento popolare che potrebbe – ancora una volta – rendere ingovernabile un intero territorio. Da Torino a Chiomonte. Allora dovranno scegliere tra spararci o andarsene. Se sapremo rimanere saldi, uniti nelle nostre mille diversità, sappiamo bene che se ne andranno.

Maria Matteo

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