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Basta guerra in Kurdistan – Libertà per i prigionieri politici in Turchia!

Di seguito il documento di Livorno per il Rojava

Basta guerra in Kurdistan – Libertà per i prigionieri politici in Turchia!

Anche Livorno risponde all’appello per mobilitarsi per la tutela dei diritti umani, per la liberazione delle persone prigioniere politiche in Turchia, contro la guerra che lo stato turco sta conducendo nel Kurdistan. Il 27 giugno si manifesta in tutta Italia contro il governo turco guidato dal partito conservatore-religioso AKP del presidente della repubblica Erdoğan e dal partito fascista MHP.

In Turchia sono decine di migliaia le persone prigioniere politiche chiuse nelle carceri, e spesso alla privazione della libertà e alla reclusione per queste persone si aggiungono i trattamenti inumani e degradanti cui sono sottoposti nelle prigioni, queste brutali condizioni hanno raggiunto il massimo dell’abominio durante l’attuale pandemia del Covid-19. L’amnistia concessa a causa dell’emergenza sanitaria da parte del governo turco ha permesso a 90000 persone di lasciare le celle ma da tale provvedimento sono stati esclusi i condannati per reati di natura “politica”. Questa limitazione ha impedito la liberazione di circa 50000 persone detenute che sono parte di associazioni, partiti e sindacati, intellettuali, giornalisti, studenti, artisti, militanti e attivisti in genere. Questa scelta è stata chiaramente presa per non mettere in libertà i dissidenti e, di fronte al propagarsi dell’infezione nelle carceri, per decimare le persone incarcerate per motivi politici esponendole al rischio di contagio. È in questo contesto che tre membri del progetto musicale comunista Grup Yorum hanno condotto fino alla morte lo sciopero della fame con cui da mesi chiedevano tra le altre cose l’annullamento del divieto ai concerti del gruppo, e la scarcerazione dei suoi membri. Tra coloro che sono detenuti per motivi politici oltre a esponenti dell’opposizione democratica, ai militanti della sinistra rivoluzionaria, ai socialisti, ai comunisti e agli anarchici, vi sono anche molti attivisti dei movimenti curdi. Tra questi ultimi, 5000 sono membri del Partito Democratico dei Popoli, l’HDP, che sostiene i diritti delle minoranze e le istanze curde. Alcuni di essi sono deputati, co-sindaci, consiglieri comunali e di distretto, o comunque rivestono cariche elettive di cui sono stati esautorati. Lo stato militarista turco ha sempre soffocato ogni aspirazione alla libertà della popolazione sotto il peso di una violenta repressione, ma per comprendere la situazione attuale bisogna guardare al 2015, quando per fermare lo sviluppo dell’esperienza rivoluzionaria dei cantoni del Rojava e il plurale e variegato movimento di solidarietà che era nato in Turchia, lo stato turco scatenò una vera e propria guerra contro i propri cittadini su più livelli. Da una parte cercò di distruggere il movimento di solidarietà con la paura, praticando il terrorismo con gli attentati esplosivi che provocarono stragi a Diyarbakır, Suruç e Ankara, dall’altra, con la giustificazione della lotta al terrorismo, mise in atto bombardamenti aerei e di artiglieria sullo stesso territorio turco colpendo città e villaggi, occupati poi militarmente per compiere omicidi, brutalità, arresti, torture e sparizioni. Nel 2016 la lotta per il potere interna allo stato e ai suoi apparati sfocia in un tentativo di colpo di stato che, sedato con violenza dal presidente della repubblica Erdoğan, diviene occasione per mantenere per due anni lo stato di emergenza, rafforzare le posizioni di potere, riempire le carceri di oppositori, sostituire decine di migliaia di funzionari e dipendenti del settore pubblico sospettati di essere dissidenti con suoi sostenitori, avviare la guerra per il controllo di Afrin e invaderla militarmente ottenendo il consenso anche del partito di opposizione CHP. Lo stato di emergenza è finito da due anni ma la repressione continua ancora oggi. Il 4 giugno i deputati di HDP Leyla Guven e Musa Farisoğulları e il deputato del CHP Enis Berberoğlu con un ulteriore atto autoritario sono stati privati del loro mandato parlamentare e incarcerati. Mentre il 15 giugno le manifestazioni organizzate ovunque nel paese anatolico in occasione della “Marcia per la democrazia” lanciata dal HDP sono state attaccate dalla polizia che ha lanciato lacrimogeni malmenato e arrestato i manifestanti tra cui anche consiglieri e deputati.

Non è un caso che nel contempo si inasprisca la guerra portata dallo stato turco in Kurdistan. Il 15 giugno lo stato turco ha attaccato con intensi bombardamenti aerei varie località nel nord dell’Iraq, tra cui Şengal, Maxmur e Qandil, per lanciare il 17 giugno una nuova campagna di guerra con un’incursione via terra impiegando truppe speciali. Questi attacchi minacciano innanzitutto le popolazioni locali e di profughi già martoriate dai conflitti, tra cui la popolazione ezida. Si contano infatti già numerose vittime civili. La nuova operazione di guerra lanciata dalla Turchia – nominata “Artiglio di tigre” – punta a far naufragare ogni tentativo di costruire la pace nell’area mesopotamica, a colpire le forme di autogoverno nella regione e a indebolire ogni prospettiva rivoluzionaria e di liberazione. Anche il governo di Ankara, come ogni altro governo del mondo, utilizza la guerra per esercitare un più rigido controllo repressivo all’interno delle sue frontiere e per imporre il consenso sul proprio operato di fronte alle minacce per la nazione. Con l’attacco ad Afrin nel 2018 lo stato turco ha avviato una fase di espansionismo imperialista che ha acuito la crisi economica del paese, e che sta portando la popolazione nel vicolo cieco della miseria e della guerra. Per questo il regime guidato da Erdoğan mantiene incarcerati migliaia di oppositori politici e muove guerra a tutti quei soggetti che dentro e fuori dalla Turchia conducono in quella regione la lotta per la libertà.

Lo stato turco non conduce questa guerra da solo. Le ultime operazioni sono state effettuate con la cooperazione dell’Iran che ha effettuato dei bombardamenti con l’artiglieria. Ma la Turchia è anche parte, insieme all’Italia, della NATO, che a vari livelli sostiene la politica militare turca. Tra i numerosi paesi che sono partner della Turchia nel fiorente commercio degli armamenti, assieme ad Israele c’è anche l’Italia. Due giorni dopo l’avvio dell’operazione “Artiglio di tigre” si è recato ad Ankara per incontrare il proprio omologo il ministro degli esteri italiano Di Maio, quello che aveva promesso invano lo stop alla vendita di armi verso la stessa Turchia che oggi dichiara “importante partner commerciale”.

Tra i principali fornitori di armamenti allo stato turco c’è la Leonardo, multinazionale dell’industria bellica, di cui il maggior azionista è il Ministero dell’Economia e delle Finanze. Il governo italiano è quindi complice e responsabile della politica di repressione e di guerra condotta dallo stato turco. La grande ondata di proteste e azioni che lo scorso autunno abbiamo messo in atto in Italia contro l’operazione “Fonte di Pace” lanciata dalla turchia contro l’autogoverno della Siria del Nord e l’esperimento confederalista animato dal movimento curdo non ha solo un sostegno politico alla resistenza delle forze di autodifesa ma, con la pressione esercitata sul governo a partire dalle piazze, dalle azioni, dalle manifestazioni, ha spinto il governo ad annunciare il ritiro della missione militare italiana “Active fence” in difesa dello spazio aereo turco. Per questo manifestiamo sabato 27 giugno a Livorno e a Firenze, mentre altre iniziative di piazza si tengono in tutta Italia.

Sabato 27 giugno

LIVORNO h 11 Via Grande angolo Via del Giglio

FIRENZE h 17 Piazza della Repubblica

Livorno per il Rojava

Posted in Antimilitarismo, Carcere, Generale, Iniziative, Internazionale, Repressione.

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