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Lottare contro il militarismo

articolo uscito su Umanità Nova n. 36 del 21 novembre 2021

Lottare contro il militarismo

Saremo a Torino sabato 20 novembre per la manifestazione antimilitarista contro l’Aerospace and defence meetings, la fiera dei mercanti e dei produttori di armi che si terrà nel capoluogo piemontese alla fine del mese. Durante questa fiera rappresentanti di governi, eserciti e compagnie di mercenari stringono accordi con mercanti e produttori di armi per riempire gli arsenali che riforniscono le guerre in giro per il mondo. L’Aerospace and defence meetings si tiene ogni due anni e da oltre un decennio le realtà antimilitariste cittadine organizzano contestazioni e manifestazioni contro la fiera della guerra. Quest’anno l’opposizione antimilitarista si muoverà in un quadro per certi aspetti nuovo e diverso.

Proprio nel corso degli ultimi due anni, mentre il servizio sanitario collassava di fronte alla pandemia e centinaia di migliaia di persone venivano spinte nella povertà e nella disoccupazione, il governo ha deciso di aumentare a 24,97 miliardi la spesa militare per il 2021. Un aumento dell’8,1% rispetto all’anno precedente, a cui corrisponde un taglio delle spese per scuola, sanità e sociale. Inoltre proprio tra 2020 e 2021 il Parlamento ha approvato quasi all’unanimità quattro nuove missioni militari. Nel Golfo di Guinea, nel Sahel, in Somalia e sullo Stretto di Hormuz. Zone molto calde, dove le truppe italiane si troveranno davvero a far la guerra, in particolare nel Sahel, dove la Francia è impantanata da anni nell’operazione Barkhane, facendo anche strage di civili pur di mantenere la propria influenza sulla regione. Missioni che hanno dichiarate ragioni imperialiste come nel Golfo di Guinea, dove si schierano navi da guerra “per difendere gli interessi estrattivi dell’ENI”. Sono missioni che quindi confermano l’inasprimento del carattere aggressivo, predatorio e neocoloniale della politica estera dello stato italiano e che consolidano il riorientamento strategico degli ultimi anni verso il continente africano.

È per dare una risposta a tutto ciò che quest’anno la contestazione dell’Aerospace and defence meetings ha assunto un carattere più ampio, non solo sul piano delle questioni su cui punterà la manifestazione. Infatti il corteo del 20 è stato convocato da un’ assemblea che ha visto la partecipazione di collettivi, gruppi, organizzazioni e associazioni da varie regioni e che si è svolta a Milano lo scorso 9 ottobre presso il Laboratorio Kasciavit. Un confronto vario e approfondito da cui è nato un nuovo organismo di coordinamento, l’Assemblea Antimilitarista, per costruire un percorso unitario che rilanci l’antimilitarismo, di cui la manifestazione torinese è una prima fondamentale tappa.

I punti individuati dall’assemblea di Milano per costruire una campagna antimilitarista cercano di dare visibilità a molte delle questioni su cui sono in corso delle lotte, per creare nuove reti e al contempo formare connessioni e intersezioni con altri movimenti: lotta per il ritiro delle missioni militari; boicottaggio dell’industria bellica per la sua riconversione; lotta contro basi militari, poligoni e servitù militari; contro la militarizzazione dei confini e delle città; contro le spese militari; contro i colossi industriali italiani come l’ENI che dettano l’agenda di guerra; contro le devastazioni ambientali provocate dal sistema militare-industriale; contro il dominio patriarcale asse portante del militarismo; contro il disciplinamento sociale e la propaganda militarista nelle scuole e nelle università.

Uno dei nodi principali è costituito dalle missioni militari all’estero. Perché proprio attraverso le missioni lo stato impone con la presenza militare la sua ingerenza politica ed economica in altri paesi. Le missioni sono anche uno dei motori della produzione di armi perché è l’esigenza di impiegare sul campo armamenti, mezzi e tecnologie di guerra sempre all’avanguardia a giustificare l’enorme impegno dello stato nel sostenere l’industria militare, e le missioni stesse sono spesso una vetrina per mostrare al mercato internazionale la potenza dei nuovi gioielli della produzione bellica.

Per l’anno 2021 il Parlamento ha votato lo scorso luglio l’approvazione di 41 missioni militari. Una di queste era la missione in Afghanistan, conclusa nel corso dell’estate. Una vicenda purtroppo esemplare, che mostra chiaramente come una guerra d’invasione giustificata come “missione di polizia internazionale” prima, con la caccia al terrorista, e come “missione umanitaria” poi, per mantenere la pace, abbia riconsegnato il potere ai talebani, devastato le città, provocato 240000 morti di cui 70000 civili, e mantenuto la popolazione nella miseria, nell’oppressione, nella guerra, nella violenza patriarcale. L’Afghanistan è stato uno dei paesi in cui l’impegno militare italiano è stato più consistente e dispendioso, questi sono i risultati. Non c’è certo da immaginarsi qualcosa di meglio dalle altre missioni di guerra.

Le altre 40 missioni possono essere inquadrate sotto la guida dell’ONU, della NATO o dell’UE, oppure nella partecipazione a specifiche coalizioni, come spedizioni militari basate su accordi bilaterali o come interventi gestiti esclusivamente dall’Italia.

Le missioni condotte sotto le insegne dell’ONU impegnano oltre 1300 soldati, quasi tutti schierati in Libano con la missione UNIFIL, attiva con fasi alterne dal 1982. Alcune unità sono disposte in Somalia, Libia, Mali, Sahara Occidentale, a Cipro e tra India e Pakistan.

Nel quadro della NATO sono attualmente impegnati fino a 1891 militari, a cui andrebbero aggiunti i 1000 soldati che sono stati ritirati dall’Afghanistan nella scorsa estate. In Kosovo sono presenti 638 militari, nel Mediterraneo con la missione Sea Guardian sono 240, in Iraq 280, in Lettonia come parte dello schieramento del patto atlantico per minacciare la Russia sono 237, mentre per la sorveglianza dello spazio navale sono schierati 235 militari e 2 mezzi navali, per la sorveglianza dello spazio aereo 2 velivoli, mentre per l’Air Policing sono impegnati 260 militari e 12 aerei.

Le missioni a guida UE vedono coinvolte invece 1459 unità, nello stretto di Hormuz 193 militari 1 nave e 2 aerei, in Kosovo 4 unità, in Bosnia 50, mentre la missione nel Mediterraneo Sophia impiega 596 militari 1 nave e 2 aerei, in Palestina 1 unità, in Iraq 2, in Mali 30 con due diverse missioni, in Niger 14, nella Repubblica Centraficana 2, nel Corno d’Africa 388 militari 2 navi e 4 aerei, in Somalia 169 soldati con 33 mezzi con due diverse missioni.

In forma autonoma o sulla base di accordi bilaterali con alcuni paesi l’Italia impegna fino a 2357 militari all’estero. Per la missione “emergenza cedri” in Libano del 2020 sono stati impegnati 402 militari, per la missione di addestramento delle forze di sicurezza sempre in Libano sono stati inviati 315 militari, per l’addestramento delle forze dell’Autorità Palestinese 33 unità, per la missione MIASIT in Libia 400 soldati, per la missione di cooperazione in Tunisia 15 unità, per la missione di supporto in Niger 295 soldati, per l’addestramento delle forze di polizia in Somalia, Gibuti e Yemen 63 unità, per la base militare italiana in Gibuti 147 militari, per la missione Mare Sicuro nel Mediterraneo 754 militari, 6 navi e 8 aerei, per la missione nel Golfo di Guinea 394 militari, 2 navi e 4 aerei, come personale di supporto alle missioni nella regione sono dislocati negli Emirati Arabi Uniti, nel Baharain, nel Qatar, 139 unità.

Infine nell’ambito di specifiche coalizioni di intervento sono impegnati fino a 1228 militari, con la missione in Iraq per partecipare alla coalizione contro lo Stato Islamico, con 900 soldati, 84 mezzi e 11 aerei, la missione Takuba nel Sahel, con 250 soldati, 44 mezzi e 8 aerei, e la MFO Sinai in Egitto con 78 militari e 3 mezzi navali.

Pur confermando la dipendenza dalla NATO e dagli USA con missioni come quella in Lettonia, così come con l’aumento della spesa militare sollecitato dall’alleanza atlantica, da questo scenario emerge una particolare rilevanza delle missioni bilaterali o autonome dell’Italia, è infatti in queste missioni che l’impegno militare italiano risulta più forte, almeno in termini di effettivi. Si noti anche che al di là del personale di supporto nella penisola arabica, dell’addestramento presso l’Autorità Palestinese e dello storico e consistente schieramento in Libano, gran parte di queste missioni si svolgono in Africa, in parallelo con alcune missioni a guida UE e con la missione Takuba nel Sahel nel quadro di una coalizione sollecitata dalla Francia. La novità, segnalata anche da analisti certo non antimilitaristi, ma anzi vicini alle Forze armate, sta proprio nel sempre maggior impegno militare all’estero dello stato italiano in missioni autonome, e nel consolidamento definitivo di una nuova strategia verso il continente africano. Bisogna evitare di cadere in forzature perché in certi ambienti militari e politici la storiella di un’Italia che assume un ruolo sugli scenari internazionali serve a nutrire un immaginario sovranista e autarchico. Tuttavia anche nel quadro della definizione di una strategia militare europea comune, è evidente che la politica estera dell’Italia si fa più aggressiva e più apertamente imperialista e neocoloniale. Questo emerge chiaramente dalle motivazioni date dal governo alle missioni, dalla propaganda, dal discorso dominante che sui media e pure a livello accademico propone continuamente la “difesa dell’interesse nazionale” come principale indirizzo della politica estera.

Per questo è importante la manifestazione del 20 novembre. Per aggregare una piazza plurale che possa unire le voci dell’antimilitarismo contrastando uno dei luoghi in cui la guerra si prepara, come l’Aerospace and defence meetings. Per contrastare la crescente strategia aggressiva dello stato italiano, che si realizza innanzitutto nelle missioni militari all’estero, e che si inserisce in un contesto che vede inasprirsi la tensione internazionale tra i poli imperialisti USA, Russia, UE, Cina. Una crisi generale di cui il caso del trattato AUKUS che ha portato a forti contrasti tra USA e Francia è solo un sintomo, ma che emerge in modo sanguinoso ovunque nel mondo: La guerra in Etiopia e il conflitto ininterrotto in Siria, Iraq e Turchia sono solo le situazioni più conosciute alle nostre latitudini.

Per il movimento anarchico l’antimilitarismo non è solo opposizione alla guerra, è lotta contro tutti gli eserciti. Perché il principale ostacolo alle rivoluzioni, in ogni paese, è proprio l’esercito, perché è a questa istituzione molto gelosa dei propri privilegi che lo stato si affida per difendere il proprio potere, per mantenere la divisione in classi della società, per tutelare i profitti e i privilegi della classe dominante. La guerra, le missioni militari, non fanno che rendere necessario l’esercito, il suo continuo ammodernamento, la sua specializzazione e professionalizzazione, il suo continuo finanziamento.

Le guerre, le missioni, si possono fermare. I governi hanno paura dei movimenti di lotta, nel 2011 l’Italia partecipò al bombardamento della Libia ma l’intervento dell’Italia al fianco di USA, Francia, UK, fu tenuto nascosto dal governo per paura di suscitare proteste. Durante l’invasione dello stato turco in Rojava nell’ottobre 2019 il movimento di solidarietà in Italia denunciò la complicità dello stato italiano con il massacro condotto dall’esercito turco, portando l’attenzione sulla presenza di una missione militare italiana in difesa dello spazio aereo turco, la missione Active Fence nel quadro della NATO. Missione che il governo italiano fu costretto a ritirare nei mesi successivi. Questo dimostra che è possibile mettersi in mezzo, fermare le guerre, inceppare gli ingranaggi del militarismo. Iniziamo dal 20 novembre a Torino.

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