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2012 – 2022 L’esempio del Rojava

articolo pubblicato sull’ultimo numero di Umantià Nova dello scorso anno, il numero 32 del 18 dicembre 2022

2012 – 2022 L’esempio del Rojava

Tra gli anniversari che hanno segnato questo anno 2022 che si sta andando a concludere, tra tante vicende storiche, uno riguarda un fatto che dieci anni fa fece poca notizia, ma che diede avvio ad un processo, ancora in corso, che ha suscitato negli anni enorme attenzione per aver liberato un grande potenziale rivoluzionario in una zona segnata da uno dei più violenti conflitti interimperialisti degli ultimi decenni.

Il 19 luglio del 2012 iniziava quella che è conosciuta come Rivoluzione del Rojava. Nel contesto della guerra civile siriana, nel vuoto di potere lasciato dal regime di Assad che si trovava indebolito, le Unità di Difesa del Popolo (YPG), milizia del Partito dell’Unità Democratica (PYD), assunsero il controllo della città di Kobanê, lungo il confine tra Siria e Turchia, occupando gli edifici governativi e le vie di accesso alla città. Da quel momento, in quella parte settentrionale della Siria che i curdi chiamano Rojava, il Kurdistan Meridionale in territorio siriano, si avvia un vero e proprio processo rivoluzionario. Le forze delle autorità centrali vengono esautorate e allontanate, le YPG e le YPJ assumono il controllo del territorio e il Movimento per una Società Democratica (TEV-DEM), organizzazione ombrello creata dal PYD, riorganizza la società con l’obiettivo di applicare il confederalismo democratico. Il confederalismo democratico è il nuovo paradigma ideologico elaborato in seno al movimento curdo e adottato dal Movimento delle Comunità Curde (KCK) negli anni 2000. Del KCK fa parte il PYD ma anche il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) attivo nel Bakur, il Kurdistan Settentrionale in territorio turco e i corrispettivi partiti attivi nelle aree segnate dalla presenza curda in territorio iraniano e iraqeno. È il movimento che fa riferimento ad Abdullah Öcalan, fondatore del PKK in carcere dal 1999, e che dichiara di aver abbandonato tra gli anni ‘90 e gli anni 2000 l’ideologia marxista-leninista per abbracciare il confederalismo democratico, un paradigma ideologico eclettico, che assumendo anche riferimenti libertari propone una prospettiva ecologista, femminista e democratica. Ma il principale cardine del confederalismo democratico è il rifiuto dello stato-nazione, un nodo chiave per un partito che si fa portavoce di una minoranza, quella curda, in una regione, quella mesopotamica, marcata dalla presenza di stati di matrice fortemente nazionalista, come la Turchia, la Siria, l’Iran e l’Iraq. Dopo decenni di guerriglia con l’obiettivo dell’indipendenza, per la costruzione di una nuova entità statale basata sull’identità curda, la prospettiva cambia radicalmente. Viene abbandonata l’idea di indipendenza attraverso un nuovo stato-nazione con propri confini, e viene sostituita dalla creazione di forme di autogoverno territoriale che possano rappresentare la pluralità culturale dei diversi popoli della regione, senza confini predeterminati, senza un’unica identità linguistica, etnica o culturale. È in questa prospettiva che il TEV-DEM avvia la costituzione di forme di autogoverno: cooperative, case del popolo, case delle donne, un sistema politico decentrato su più livelli, dal consiglio di quartiere, al cantone, fino al livello più alto, un sistema che non è mai divenuto nel corso degli anni monopartitico.

Questo processo si inseriva in un contesto molto particolare. Nel 2011 il Mediterraneo è una delle aree in cui è più forte il conflitto tra le istituzioni e i movimenti di contestazione nati nel quadro della grande crisi economica globale del 2007/2008. Ma se in Europa i movimenti di classe non riescono a scalfire le politiche di macelleria sociale e la contestazione della classe politica non fa che generare nuove forme di legittimazione del potere più autoritarie, lungo la costa sud del Mediterraneo invece un vero e proprio ciclo insurrezionale travolge le dittature. Dopo Tunisia, Libia ed Egitto anche la Siria viene toccata da questo dirompente movimento che viene chiamato “primavere arabe”. Le potenze globali e regionali per evitare che questi processi possano mettere in discussione l’ordine neocoloniale e con esso lo stesso ordinamento sociale, decidono di intervenire sia con l’impegno militare diretto, sia con l’appoggio a “nuovi” gruppi di potere, sia creando bande ed eserciti “controrivoluzionari” o comunque incaricati di assicurare sul campo gli interessi del governo che li arma. Questo porta in Siria alla guerra civile. Nel momento in cui la guerra spazza via dallo scenario della Siria ogni possibilità di una trasformazione sociale dal basso, l’autogoverno del Rojava rappresenta, non senza contraddizioni, uno spazio in cui dare concretezza alle aspirazioni di libertà che animavano i movimenti di quegli anni.

La situazione interna della Turchia giocò anch’essa un ruolo importante. Con la sanguinosa repressione tra la primavera e l’estate del 2013 dell’ampio movimento di protesta che era nato a Gezi Park ad Istanbul contro il modello autoritario e affaristico del governo conservatore religioso guidato dall’AKP di Erdoǧan, la sinistra rivoluzionaria e l’opposizione in genere cercano una strategia per il rovesciamento del blocco di potere al governo. Quando si chiude ogni margine per le trattative di pace tra il governo di Ankara e il movimento curdo, la prospettiva diviene chiara: unire la forze per il cambiamento da una parte e dall’altra del confine, tra Turchia e Rojava. Tra il 2014 e il 2015 questa prospettiva cresce e matura insieme alla solidarietà internazionale che conosce, tra l’esodo della popolazione Ezida dalle montagne di Shengal e l’assedio di Kobanê, il momento di massima attenzione. Dal 2015 fino al 2016, con lo stragismo e la guerra interna lo stato turco scatena una repressione feroce per eliminare fisicamente le opposizione e impedire con la forza lo sviluppo concreto di una prospettiva comune di liberazione tra Siria e Turchia.

Negli anni il processo rivoluzionario è stato sempre sotto attacco da più parti e molti sostengono che si sia di fatto arrestato. Spesso anche su queste pagine, come in molte iniziative pubbliche, abbiamo affrontato, anche su un piano critico, i limiti e le contraddizioni di quella che non si è comunque mai qualificata come “rivoluzione anarchica”, ma che senza dubbio rappresenta un esperimento di trasformazione sociale eccezionale in tempi come questi, e non può non suscitare non solo il nostro interesse ma anche il nostro impegno solidale. La guerra portata dalla Turchia, per procura o in forma diretta, con le successive invasioni di Afrin nel 2018, di Serekaniye nel 2019 e oggi con i bombardamenti su Kobanê. La necessità di portare guerra allo Stato Islamico e alle varie gang controrivoluzionarie della regione. Gli intrighi militari e diplomatici delle potenze presenti sul campo, dagli USA alla Russia, all’Iran, fino alle stesse truppe di Damasco, hanno spesso isolato l’esperienza del Rojava, dimostrando come stati formalmente nemici trovino facilmente un accordo quando si tratta di assestare un colpo a una pericolosa prospettiva rivoluzionaria. La guerra continua ha certamente indebolito la prospettiva di profondo cambiamento sociale oltre che politico. È uno dei problemi più classici della storia dei movimenti rivoluzionari, quello della contraddizione tra guerra e rivoluzione. Ma le contraddizioni, gli elementi da discutere sono molti. La questione della proprietà privata in un’economia prevalentemente agricola e disastrata dalla guerra, la questione dell’estrazione delle risorse fossili, la costituzione della Amministrazione Autonoma della Siria del Nord Est e lo spettro della cristallizzazione delle istituzioni statali che potrebbe rendere ineffettive le forme di autogoverno, l’amministrazione della giustizia, la gestione delle migliaia e migliaia di prigionieri di guerra cittadini di paesi europei che si rifiutano di riprenderli, preferendo lasciarli come elemento destabilizzante in Rojava. Elementi che non potrebbero essere riassunti in un breve articolo, che non renderebbe il debito spazio a questioni così importanti e a come si sono sviluppate nel corso di un decennio.

Ma una cosa è certa, se anche questa esperienza dovesse spaventosamente finire con una guerra, se anche le contraddizioni dovessero prendere il sopravvento e bloccare il processo di trasformazione, il Rojava avrebbe comunque uno straordinario esempio da dare al mondo. Il rifiuto dell’egemonia e il riconoscimento della natura plurale della società è probabilmente il messaggio più originale e importante di questo processo. Uno dei più visibili risvolti concreti di questo assunto è la costruzione di forme di convivenza, cogestione, cooperazione tra le diverse identità, popolazioni e culture presenti in quella regione. Questo è un aspetto che non è mai venuto meno nell’esperienza del Rojava, non è mai arretrato, anzi è cresciuto e si è sviluppato nel tempo. Molti solidali quando si iniziò a parlare del Rojava, con uno sguardo non sempre libero da lenti neocoloniali, esaltavano l’importanza di queste pratiche di convivenza e tolleranza in una terra da sempre segnata da conflitti settari, religiosi ed etnici, dal massacro delle minoranze, dalla guerra “tribale”, dall’oppressione delle donne, dal dominio di sangue di un gruppo sull’altro. Ma la vera importanza di tutto questo penso che l’abbiamo potuta capire solo adesso. Mentre nella civile Europa si torna a combattere in nome del nazionalismo etnico e linguistico, e le menzogne sull’identità culturale e di sangue diventano, di nuovo, un discrimine tra “amici” e “nemici”. Nel contesto di guerra in Europa persino alcuni soggetti tra quelli che sostenevano politicamente la rivoluzione in Rojava oggi si schierano a sostenere il “diritto alla difesa” di un popolo, che parli ucraino o russo. Superare l’idea di popolo come unità linguistica ed etnica che costituisce una nazione, riconoscere la pluralità della composizione culturale di una regione, la divisione in classi delle società, il ruolo oppressivo degli stati, sembra essere diventato difficile nell’Europa di oggi. Possiamo trovare delle risposte proprio in quelle terre che molti ritenevano “tribali”. La prospettiva del confederalismo democratico propone delle possibili strade, rifiutando lo stato nazione, riconoscendo la pluralità, rifiutando la polarizzazione imposta dalla guerra e sviluppando una terza via. Dopotutto il movimento curdo approda al confederalismo democratico dopo la feroce guerra che nei primi anni ‘90 provocò massacri e devastazione dei villaggi nel Kurdistan Settentrionale in territorio turco. Il confederalismo democratico fu il tentativo di costruire una strategia di pace. Non intesa come assenza di guerra o come accordo tra i governi, ma come solidarietà tra le classi oppresse e sfruttate. Un aspetto spesso trascurato che ci mostra il valore rivoluzionario della pace.

Dario Antonelli

Posted in Anarchismo, Antimilitarismo, Generale, Internazionale.

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