“Fuori la guerra dall’università!”
[pubblicato su Umanità Nova n. 15 del 28/04/24]
Le cariche della polizia all’ingresso dell’università La Sapienza di Roma e l’arresto di uno studente e di una studentessa non sono che l’ultimo e più eclatante esempio della repressione in atto negli atenei italiani nei confronti del movimento per fermare il genocidio a Gaza che da ormai diversi mesi è sorto in molte sedi universitarie a in alcune città anche nelle scuole superiori. Abbiamo visto scene simili molte volte in questi mesi. A Torino, a Pisa, a Firenze, a Catania, a Bologna. Sempre più spesso la polizia interviene con la forza all’interno delle aree delle università. Ma ci sono anche i casi quotidiani di repressione, con controlli, denunce e divieti.
Il governo non può tollerare che nelle università e nelle scuole le generazioni più giovani mettano in discussione la politica estera del paese, il sostegno allo stato di Israele, le missioni militari, i rapporti tra il mondo dell’istruzione e della ricerca con forze armate e industria bellica.
Perché sono proprio le generazioni più giovani che lo stato dovrà mandare al macello nel caso di un maggiore coinvolgimento italiano nelle guerre in corso in Europa e non solo. Sono le giovani generazioni che dovranno lavorare per lo sforzo bellico. Sono le giovani generazioni che dovranno essere parte, disciplinatamente, della macchina del consenso della propaganda guerrafondaia.
Certo, non è l’unico motivo, ma anche le altre ragioni sono strettamente legate al generale clima di guerra. Questo governo attua verso i giovani una politica nettamente repressiva e autoritaria. Sono stati creati nuovi reati, innalzate le pene, create aggravanti per colpire i più giovani, criminalizzarli e metterne migliaia sotto processo. Molte consuete forme di lotta politica sono sempre più esposte a conseguenze penali. Ma questa stretta colpisce i giovani anche nel più generale contesto sociale in cui vivono, nelle forme di aggregazione, nelle feste, nel consumo di alcol e sostanze. Allo stesso modo nelle scuole e nelle università il clima è pesante, e sono annunciati nuovi provvedimenti autoritari. Bisogna inoltre considerare che l’attacco frontale ai collettivi universitari è uno dei primi impegni di questo governo. Ricordiamo che nel 2022 mentre il governo guidato da Meloni otteneva la fiducia della Camera la polizia caricava gli studenti che a La Sapienza di Roma contestavano un provocatorio convegno fascista organizzato dalle organizzazioni legate al partito di governo. Per quanto riguarda le proteste più recenti la repressione è ovviamente legata anche al peso, spesso più politico che economico, che hanno gli accordi con le università israeliane che gli studenti contestano ai propri atenei e di cui chiedono l’interruzione.
Questa repressione trova ampio sostegno a livello istituzionale e nei media ufficiali. La CRUI, l’organismo che riunisce i rettori delle università italiane, ha preso posizione rifiutando il boicottaggio accademico proposto dai movimenti e condannando la “violenza” delle proteste.
Non stupisce certo questa presa di posizione da parte dei rettori, ma questo è solo un esempio del generale clima di delegittimazione delle rivendicazioni di un movimento studentesco che in realtà mette in atto pratiche di lotta consuete e pacifiche e pone rivendicazioni che il più delle volte rientrano in realtà nei ristretti spazi di agibilità che la stessa istituzione universitaria concede.
Tra le principali rivendicazioni del movimento troviamo: la richiesta che organi di governo degli atenei come il senato accademico e i consigli di dipartimento prendano posizione attraverso una mozione; la richiesta di sospensione o cancellazione degli accordi con le università israeliane o con le istituzioni e le aziende responsabili dell’escalation bellica in atto: la richiesta che professori annullino la propria partecipazione a carrozzoni bellicisti come la fondazione di Leonardo MED-OR; la richiesta di dare spazio nelle lezioni e nei corsi a argomenti significativi per lo sviluppo di un sapere critico. Ovviamente in ogni ateneo la situazione può essere diversa ma questo è l’approccio generale. Le forme di lotta consistono in genere in manifestazioni, brevi occupazioni, semplici forme di disobbedienza civile come incatenarsi davanti a sedi istituzionali, incontri di approfondimento e iniziative di sensibilizzazione, contestazioni a convegni, conferenze che legittimano la strage in corso, contestazioni a cariche accademiche che per il loro ruolo sono considerate avere responsabilità nel sostenere la politica di guerra e di apartheid israeliana, pressione in occasione delle riunioni degli organi accademici che avrebbero il potere di assumere una posizione o prendere decisioni in rapporto alle rivendicazioni studentesche. C’è da segnalare inoltre che non si muove solo la componente studentesca. Nelle università anche da parte di dottorandx e assegnistx, come, anche se in misura minore, da parte di ricercatorx e professorx, c’è stata una presa di posizione a sostegno del movimento e in alcuni casi un impegno diretto.
La delegittimazione, criminalizzazione e repressione di questo movimento apparirebbero quindi come una reazione sproporzionata del governo, ma sono in realtà una risposta della classe dirigente per serrare le fila di fronte a un’ondata di proteste che rischia di mettere in discussione la coesione del sistema di governo di fronte alle politiche di guerra.
In effetti il movimento che agita le scuole e le università rappresenta qualcosa di nuovo. È da 20 anni probabilmente che non c’era un movimento che mettesse al centro del dibattito nelle aule scolastiche e universitarie il tema della guerra e della politica mondiale. Certo ci sono stati movimenti ben più partecipati contro riforme, tagli, aumenti delle tasse. Ma anche in questo caso la partecipazione, per quanto molto minore, va ben al di là della realtà dei collettivi, delle organizzazioni giovanili e dei sindacati studenteschi. Strutture che hanno una presenza più ridotta rispetto a quella che potevano avere 10 o 15 anni fa, anche se alcune di quelle più legate a partiti hanno conosciuto una crescita negli ultimi anni. Ad ogni modo gran parte di coloro che scendono in piazza non sono parte di queste strutture. Il movimento inoltre sta mantenendo la propria forza attraverso i mesi anziché affievolirsi. Questo lascia pensare che da questa fase di mobilitazione possano consolidarsi nuovi tessuti militanti e strutture di movimento. Infine va sottolineato un ultimo aspetto: il movimento incorpora al suo interno diversi temi, dalla solidarietà alla popolazione palestinese all’opposizione alla guerra, dal rifiuto di una presunta “neutralità” dell’accademia alla denuncia degli accordi con aziende dell’industria bellica. Moltx di coloro che scendono in piazza sono estranei o indifferenti agli storici percorsi e anche divisioni del movimento di solidarietà al popolo palestinese in Italia. Penso si possa vedere piuttosto in questo movimento una più generale risposta politica alle gravi minacce che incombono sulle giovani generazioni, questo movimento nato in reazione al genocidio a Gaza riesce in parte a catalizzare l’esigenza di opporsi al governo, di contrastare il fascismo, di rifiutare la guerra.
Spesso sono questi temi insieme ad agitare le piazze del movimento studentesco, certo non senza confusione, contraddizioni e problemi. All’interno di questo movimento che già usa spesso lo slogan “Fuori la guerra dall’università!” è importante portare con maggior forza la questione dell’antimilitarismo, perché può essere una chiave che contribuisce a far chiarezza ed a legare l’attuale movimento alle mobilitazioni contro la guerra e antimilitariste che hanno caratterizzato gli ultimi due anni.
Anche se la questione del boicottaggio accademico può essere senza dubbio considerato un obiettivo limitato, sia perché richiede un intervento delle istituzioni universitarie sia per la difficoltà di una sua effettiva applicazione, è in questo momento una rivendicazione in grado di rompere la cappa di consenso che il partito trasversale della guerra vorrebbe imporre nelle scuole e nelle università. Riuscire a rompere con questo movimento l’allineamento del mondo accademico alle politiche del governo, permetterà di avere maggiore agibilità nel momento in cui l’Italia dovesse trovarsi maggiormente coinvolta in una guerra, e sarà più difficile per il governo costruire un fronte di unità nazionale.
Dobbiamo rovesciare la paura che la militarizzazione della società e la corsa verso la guerra diffondono nella società, in modo che si trasformi in reazione lucida di opposizione alla guerra.