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27 Marzo Crosetto a Livorno – NO A UN MARE DI ARMI!

No a un mare di armi!

Presidio
27 marzo Ore 14
P.zza S Jacopo in Acquaviva, Livorno
Il 27 marzo si terrà a Livorno presso l’Accademia Navale l’evento “La civiltà del mare” organizzato da Marina Militare, CNR e Fondazione Leonardo, il colosso dell’industria bellica italiana.
Saranno presenti i ministri della Difesa Guido Crosetto e della Protezione civile e del Mare Nello Musumeci insieme a esponenti dello Stato Maggiore della Difesa, vertici del mondo industriale e accademico strettamente legati alla ricerca e alla produzione militare.
Un grande evento per presentare un “libro bianco” sulla nuova politica marittima che il governo, insieme ai vertici militari e industriali, prefigura per l’Italia.
L’appuntamento si inserisce in quella campagna di normalizzazione della guerra che Crosetto sta promuovendo anche con la costituzione di un “Comitato per lo sviluppo e la valorizzazione della cultura della Difesa”. Di fatto un comitato per la propaganda di guerra, mirata soprattutto a penetrare nelle scuole e tra le generazioni più giovani. Di questo organismo fanno parte esponenti di spicco del mondo dei media, del mondo delle armi, della cultura, dell’università e dell’economia, alcuni dei quali saranno anche tra i relatori dell’evento livornese.
Il Comitato, secondo Crosetto, dovrà promuovere la “Difesa” come strumento di politica estera e volano dell’economia, e divulgare presunte verità dei fatti e informazioni “verificate”. Quindi economia di guerra e controllo dei media.
Proprio mentre nel Mediterraneo i governi continuano a lasciare morire chi naufraga cercando di raggiungere le coste dell’Europa, questo evento-passerella all’Accademia Navale chiarisce una volta per tutte la visione di chi ci governa: il mare deve essere solo risorsa da sfruttare per l’estrazione di gas, petrolio, minerali e terre rare, per la posa di cavi e gasdotti. Il mare deve essere militarizzato, per la proiezione neocoloniale nel “Mediterraneo allargato” o come snodo per sottomarini nucleari, armi e congegni bellici.
La vita nel e intorno al Mediterraneo è in pericolo come in nessun altro mare per l’alto inquinamento da traffico marittimo e da sversamento dei paesi rivieraschi, per i cambiamenti climatici in accelerazione ben oltre le previsioni, per la pesca intensiva attuata da multinazionali. In particolare, le coste italiane ospitano ben 11 porti nuclearizzati (fra cui il nostro) e l’Italia stessa non ha ancora ratificato il Trattato per la Proibizione delle Armi Nucleari (TPNW) approvato dall’ONU. Invece di proporre soluzioni a questi enormi problemi il governo promette di aumentare le spese militari e destinare ingenti risorse per militarizzare ulteriormente il Mediterraneo mascherandolo dietro la parola “Difesa”.
Diamo una risposta a questa propaganda militarista, diamo voce ai movimenti radicati a Livorno e nelle città vicine. Come le tante iniziative contro le guerre, o la lotta contro le basi e le industrie di morte, tra cui Cheddite e Leonardo, fino all’opposizione al trasporto di armi nei porti e negli aeroporti.
Scendiamo in piazza per respingere questa politica di guerra.
Il mare non è un sito industriale, estrattivo, militare. Il mare non deve essere un cimitero, ma un luogo condiviso dai popoli, com’è stato per secoli, in cui siano favorite e rafforzate le operazioni di soccorso da parte di qualunque imbarcazione. Diciamo sì a un mare vivo e pulito, sì alla cultura della pace! Difendiamoci dalle armi!
Coordinamento per il ritiro delle missioni militari all’estero
Rete Livorno contro le guerre

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Cos’è l’anarchismo? Prima iniziativa di un ciclo di incontri

ANARCHIA

tre momenti di confronto per chi vuole sapere cos’è l’anarchia fuori dalle menzogne dei media ufficiali o dai luoghi comuni che circolano sui social

Le iniziative si terranno tutte presso la FAL in via degli Asili 33

Mercoledì 22 marzo
Dalle ore 19.30 aperitivo
Alle ore 21.00 discussione

Cos’è l’anarchismo?
“espropriazione dei detentori dei suolo e del capitale a vantaggio di tutti, abolizione del governo”
Si parlerà di cos’è il movimento anarchico a partire dal “Programma Anarchico” del 1920
(https://federazioneanarchica.org/archivio/programma.html)

Giovedì 30 marzo
Dalle ore 19.30 aperitivo
Alle ore 21.00 discussione

Il concetto anarchico di rivoluzione
“La funzione dell’anarchismo non è tanto di profetare un avvenire di libertà, quanto di prepararlo”
Si parlerà di anarchia e rivoluzione a partire da alcuni brani da “Dittatura e Rivoluzione” di Luigi Fabbri
(https://umanitanova.org/il-concetto-anarchico-della…/ ; https://umanitanova.org/liberta-o-dittatura-il-concetto…/)

Giovedì 27 aprile
Alle ore 18.00 presentazione del libro
Dalle ore 20.00 aperitivo

Presentazione del libro “Piombo con piombo, il 1921 e la guerra civile italiana” (Carocci, 2023)
Con il curatore Giorgio Sacchetti
Partire da una prospettiva storica per affrontare la questione della violenza
(https://www.carocci.it/prodotto/piombo-con-piombo)

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Ad un anno dall’inizio della guerra in Ucraina: riempiamo le piazze contro la guerra e il militarismo

Ad un anno dall’inizio della guerra in Ucraina: riempiamo le piazze contro la guerra e il militarismo

Contro tutte le guerre, per un mondo senza eserciti e frontiere.

È trascorso un anno da quando la guerra è tornata ad infuriare nel cuore dell’Europa, con un coinvolgimento diretto del nostro paese. Il governo italiano si è schierato in questa guerra inviando armi, moltiplicando il numero di militari impiegati in ambito NATO nell’est europeo e nel Mar Nero, aumentando la spesa bellica sino a toccare i 104 milioni di euro al giorno.

Dal quel 24 febbraio è partita una corsa al riarmo su scala globale, perché la guerra in Ucraina ha nel proprio DNA uno scontro interimperialistico di enorme portata.

Il rischio di una guerra devastante su scala planetaria è sempre più forte. Il prezzo di questa guerra lo pagano le popolazioni ucraine martoriate dalle bombe, dal freddo, dalla mancanza di medicine, cibo, riparo.
Lo pagano le popolazioni russe, sottoposte ad un embargo devastante. Lo pagano oppositori, sabotatori, obiettori e disertori che subiscono pestaggi, processi e carcere.
Lo paghiamo noi tutti stretti nella spirale dell’inflazione, tra salari e pensioni da fame, fitti e bollette in costante aumento.

La guerra in Ucraina è solo un tassello di un mosaico molto più complesso.
Lontano dai riflettori tante altre guerre investono vaste aree del pianeta, dove gli interessi scatenati dalla crisi energetica e dalla voracità per le materie prime innescano una sempre maggiore spirale di violenza. In Africa, dove l’Italia è impegnata in 18 missioni militari, la bandiera con il cane a sei zampe dell’ENI sventola accanto al tricolore.
Nel Mediterraneo la guardia costiera libica rifornita di mezzi e foraggiata dal governo italiano respinge i migranti in viaggio verso le frontiere chiuse dell’Europa. Le leggi varate dal governo Meloni contro le navi delle ONG servono a rendere più difficile il salvataggio dei naufraghi.

Mentre la guerra rende sempre più precarie le nostre vite, il business delle armi non va mai in crisi. Anzi. I profitti dell’industria bellica sono in costante aumento e si moltiplicano gli investimenti nella ricerca con un coinvolgimento sempre più forte delle università.
Giocano la carta del ricatto occupazionale, facendo leva su chi fatica ad arrivare a fine mese.
Occorre capovolgere la logica perversa che vede nell’industria bellica il motore che renderà più prospero il nostro paese. Un’economia di guerra produce solo altra guerra. Il benessere, quello vero, è altrove, nell’accesso non mercificato alla salute, all’istruzione, ai trasporti, alla casa fuori e contro la logica feroce del profitto.
Provate ad immaginare quanto sarebbero migliori le nostre vite se la ricerca e la produzione venissero usate per per la cura invece che per la guerra.
L’industria bellica è il motore di tutte le guerre.

In Russia e in Ucraina c’è chi rifiuta la guerra e il militarismo, chi getta la divisa perché non vuole uccidere e non vuole morire per spostare il confine di uno Stato.
Migliaia e migliaia di persone dalla Russia hanno attraversato i confini disobbedendo all’obbligo di andare in guerra, affrontando la via dell’esilio, rischiando anni di carcere.
Dal febbraio 2022 in Ucraina le frontiere sono chiuse per tutti gli uomini tra i 18 e i 60 anni. La debole legge sull’obiezione di coscienza in Ucraina è stata sospesa e le 5.000 domande di servizio civile respinte.
In Russia c’è un esodo che si è intensificato da quando il governo ha annunciato il richiamo dei riservisti.
Molti altri restano e lottano, nonostante la durissima repressione che colpisce antimilitaristi e pacifisti in entrambi i paesi.
In Ucraina c’è chi su posizioni non violente, anarchiche o femministe ha scelto di non schierarsi, di non combattere in questa guerra costruendo reti di solidarietà materiale con le vittime dei bombardamenti, con chi ha perso il lavoro o è obbligat* dalle leggi di guerra del governo Zelensky a turni massacranti spesso senza paga.
In Russia e in Ucraina c’è chi lotta perché le frontiere siano aperte per chi si oppone alla guerra.
Noi facciamo nostra questa lotta contro le frontiere, per l’accoglienza di obiettori, renitenti, disertori da entrambi i paesi.

Noi non ci stiamo. Noi non ci arruoliamo né con la NATO, né con la Russia.
Rifiutiamo la retorica patriottica come elemento di legittimazione degli Stati e delle loro pretese espansionistiche. L’antimilitarismo, l’internazionalismo, il disfattismo rivoluzionario sono stati centrali nelle lotte del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici sin dalle sue origini. Sfruttamento ed oppressione colpiscono in egual misura a tutte le latitudini, il conflitto contro i “propri” padroni e contro i “propri” governanti è il miglior modo di opporsi alla violenza statale e alla ferocia del capitalismo in ogni dove.
Le frontiere sono solo linee sottili su una mappa: un nulla che solo militari ben armati rendono tragicamente reali.

Nel nostro paese l’opposizione alla guerra è rimasta molto forte, nonostante la propaganda militarista martellante. C’è chi, pur avendo operato per la guerra cerca di intercettare i consensi persi nelle urne. Sono i pacifisti con l’elmetto, che in occasione del primo anniversario della guerra, torneranno a fare capolino nelle strade invocando il cessate il fuoco, senza opporsi all’invio delle armi, all’uso delle basi, alle missioni all’estero, all’aumento della spesa militare.

Noi non ci stiamo. Invocare il cessate il fuoco senza opporsi al militarismo è un mero esercizio retorico.

Opporsi alle guerre, all’aumento della spesa militare, all’invio di armi al governo Ucraino, lottare per il ritiro di tutte le missioni militari all’estero, per la chiusura e riconversione dell’industria bellica, per aprire le frontiere ai disertori, agli obiettori e a tutti i migranti, è un concreto ed urgente fronte di lotta.
Per fermare le guerre non basta un no. Bisogna mettersi di mezzo. A partire dai nostri territori, dove ci sono fabbriche d’armi, caserme, poligoni di tiro, porti ed aeroporti militari.
Gettiamo sabbia nel motore del militarismo!

Scendiamo in piazza il 24 e il 25 febbraio!

Sosteniamo le manifestazioni lanciate dagli antimilitaristi a Niscemi,
Pisa, Livorno, Torino…

Assemblea antimilitarista

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FAL: Comunicato stampa su libertà di scelta e tagli alla sanità

pubblichiamo il seguente comunicato della FAL

Comunicato stampa su libertà di scelta e tagli alla sanità

La Federazione Anarchica Livornese ritiene molto importanti le iniziative sul territorio attivate da Non Una Di Meno Livorno a denuncia dei generali tagli sulla sanità e sui consultori in particolare, con le conseguenti pesanti limitazioni alla libertà di scelta su aborto, maternità e contraccezione.

Ritiene gravi e vergognose le posizioni espresse a mezzo stampa dal primario di Ginecologia dell’ospedale di Livorno che denotano una volta di più l’approccio violento delle istituzioni, in questo caso quella sanitaria, all’autodeterminazione delle donne e delle libere soggettività.

La sanità pubblica è sempre più tagliata e malfunzionante. Accedere alle prestazioni è sempre più difficile. Accedere a servizi essenziali come quelli legati a contraccezione, aborto, salute sessuale lo è ancora di più.

Scelte politiche ed economiche da anni tagliano e riducono servizi sul territorio, incentivano la privatizzazione, dirottano le risorse verso quanto di più distante esista dal benessere delle persone. In questa situazione, il progressivo e spropositato aumento delle spese militari rappresenta, oltre che un pericolo mondiale, un insulto ai bisogni reali, sempre più disattesi. A farne le spese soprattutto le fasce sociali più deboli, in un sistema di gestione della salute sempre più classista.

L’attacco alla autodeterminazione in materia di salute riproduttiva e sessuale, l’attacco all’aborto, il taglio dei consultori e dei relativi servizi ha qualcosa che va oltre le scelte economiche di taglio e privatizzazione. La libertà di scelta delle donne sul proprio corpo è concepita come qualcosa di pericoloso, da ostacolare in ogni modo, perché sovverte la base del dominio, ciò su cui il patriarcato ha basato il suo potere, regolato dalla gerarchia sessista e dall’istituzione familiare come sistema di disciplinamento sociale; su di esso il capitalismo ha modellato la divisione del lavoro e la riproduzione delle condizioni di vita, oltre che della prole, coerenti con la logica del profitto. Una sessualità libera, una libera scelta di maternità, una libera scelta di abortire, un libero orientamento sessuale e un superamento del genere sono elementi pericolosi, che sovvertono l’ordine sociale, politico ed economico costituito.

In Italia l’aborto è regolamentato da una legge che funziona a scartamento ridotto; in alcune zone del paese la percentuale di obiezione di coscienza la rende impraticabile. È come se, in questo ambito, la famosa autonomia differenziata verso la quale si sta andando (attualmente deprecata anche da coloro che a suo tempo le spianarono la strada col referendum sul titolo V della Costituzione) fosse una realtà già da quarantacinque anni. Laddove per svariati motivi, pure tra le varie e sempre maggiori difficoltà, il servizio è più accessibile, abbiamo comunque l’aggressione alla libera scelta determinata dal moralismo, dal giudizio, dallo stigma, dalla colpevolizzazione, dalla condanna. È quanto abbiamo letto nelle parole del primario di Ginecologia dell’ospedale di Livorno, che imputa all’aborto l’origine di tutti i mali, compreso il calo demografico e l’invecchiamento della popolazione livornese, che imputa alle donne la rottura degli schemi relazionali tradizionali, che rivendica per sé e per altri non meglio identificati soggetti la responsabilità di capire “cosa sia meglio per le nostre compagne per le nostre figlie e per noi stessi”. Come se le donne fossero persone incapaci di capire da sé.

La relazione tra aborto e calo demografico, spesso sottolineata dai settori più reazionari, suona quanto mai sinistra e richiama la definizione che l’aborto aveva nel codice penale prima della depenalizzazione, quando era classificato come “reato contro la sanità e l’integrità della stirpe”. E se non è possibile riportare indietro l’orologio come qualcuno vorrebbe, tante sono le iniziative di contrasto alla libertà di scelta sul proprio corpo. Anche perché la ripresa del movimento femminista e transfemminista, le costanti spinte all’autodeterminazione, le possibilità offerte dall’aborto farmacologico, gestibile senza ricorso ad ospedalizzazione e non disciplinato dalla legge 194 mettono paura. E le istituzioni corrono ai ripari per difendere il monopolio patriarcale sui corpi non conformi al destino riproduttivo. Lo fa la Chiesa, con le ribadite condanne espresse dai suoi vari esponenti, lo fanno molti stati e molti governi, lo fa la suprema corte degli stati uniti, lo fanno gli oltre 50 comuni italiani che hanno dedicato spazi ai cimiteri dei feti, lo fanno le regioni, Toscana compresa, che finanziano la presenza delle associazioni antiabortiste nei consultori, lo fanno le politiche di taglio dei consultori, lo fanno i fascisti di turno al governo che vogliono dare personalità giuridica ai feti in modo da imputare di infanticidio chi abortisce.

Non ce la faranno. Siamo convint3 che nonostante la repressione oscurantista, le colpevolizzazioni, gli ostacoli di una legge colabrodo come la 194, la lotta quotidiana per l’autodeterminazione portata avanti dal movimento femminista e transfemminista, dalle donne, dalle libere soggettività e da tutt3 coloro che le affiancano e sostengono andrà avanti. Perché la libertà di scegliere, come tutti i desideri di libertà, si rigenera, si riafferma, rompe le maglie del diritto che vorrebbe irreggimentarla, sfugge a chi vorrebbe domarla, si fa fluida e intersezionale. Questo desiderio di libertà animerà sicuramente le piazze dell’8 marzo, a Livorno, come in tutto il mondo

Federazione Anarchica Livornese

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MANIFESTAZIONE – FERMIAMO LA CORSA DEL GOVERNO VERSO LA GUERRA MONDIALE

24 FEBBRAIO MANIFESTAZIONE
Fermiamo la corsa del governo verso la guerra mondiale
h 17:30 P. GRANDE
LIVORNO
– Contro ogni imperialismo
– Contro tutte le guerre e i nazionalismi
– Basta invio di armi e denaro per alimentare la guerra in Ucraina
– Basta missioni militari in Europa Orientale
– Solidarietà tra le classi sfruttate dei diversi paesi
– Sostegno a chi diserta e a chi lotta contro la guerra
Coordinamento per il ritiro delle missioni militari

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PRESIDIO A LIVORNO: FUORI ALFREDO DAL 41 BIS

 

FUORI ALFREDO DAL 41 BIS

GIOVEDÌ 2 FEBBRAIO

ORE 17:30

PIAZZA CAVOUR

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Presentazione della Balkan Anarchist Bookfair 2023

20 anni di Balkan Anarchist Bookfair:
Oltre i muri del nazionalismo e della guerra!*

Presentazione del progetto e dell’evento della BAB a Ljubljana (7-9 luglio 2023)

Sabato 4 febbraio
presso la Federazione Anarchica Livornese
in Via degli Asili 33, Livorno

alle 20 cena buffet
dalle 21 Presentazione con compagn* di Ljubljana dell’assemblea organizzativa della BAB 2023

La Balkan Anarchist Bookfair – Fiera del libro anarchico dei Balcani – è un progetto ventennale che si tiene quasi ogni anno in diversi paesi del Balcani. Iniziato a Ljubljana, in Slovenia, nel 2003, torna a Ljubljana per il suo 20esimo compleanno, dal 7 al 9 luglio 2023.

Per noi il concetto di BAB non ha mai riguardato solo i libri. Lo abbiamo sempre inteso come uno strumento per rafforzare i nostri gruppi, organizzazioni, relazioni e reti a livello locale, regionale e internazionale. Lo intendiamo come uno spazio in cui scambiare le nostre idee, analisi, prospettive e confrontare le nostre pratiche, i nostri modelli di organizzazione e le nostre esperienze di lotta, le nostre partecipazioni ai movimenti sociali e l’inserimento delle nostre idee in essi.

L’assemblea organizzativa della BAB 2023 sta preparando una serie di presentazioni del progetto ai nostri più vicini compagni nella regione, seguendo la decisione dell’assemblea di confermare le nostre relazioni con gruppi più o meno formali, reti e individui che vorrebbero partecipare all’evento nell’estate del 2023.

Presenteremo la storia della fiera del libro, parleremo dei nostri principi organizzativi, delle nostre speranze e dei nostri piani per l’evento a Ljubljana e per il futuro del movimento anarchico e antiautoritario.
Saremmo contenti di ricevere pensieri, idee, commenti sul programma dell’evento, così come di sviluppare una più ampia discussione sul ruolo delle fiere del libro nel movimento anarchico, localmente o internazionalmente.

Ci piacerebbe in particolare incontrare progetti editoriali autoorganizzati, che siano piccoli o grandi, saltuari o periodici, collettivi o individui a cui piacerebbe prendere parte alla fiera del libro, oltre a gruppi politici, organizzazioni, attivisti.

Nessuna nazione ci unisce, nessuna guerra ci dividerà!

Potete trovare maggiori informazioni sulla pagina web e facebook che aggiorneremo regolarmente
https://bab2023.espivblogs.net/

https://www.facebook.com/BalkanAnarchistBookfair

*slogan del movimento anarchico della ex-Yugoslavia che fu usato nelle mobilitazioni antimilitariste e antinazionaliste contro le guerre degli anni ‘90, e che fu anche il nome della testata anarchica che fu pubblicata all’epoca dai compagni di diversi paesi della ex-Yugoslavia

 

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PISA Venerdì 20: BENEFIT Umanità Nova + Dibattito “Fermiamo le armi, e iniziamo da qui! La guerra e il nostro territorio”

Venerdì 20 gennaio

ROOTS AND CULTURE

SERATA BENEFIT PER IL SETTIMANALE ANARCHICO UMANITÀ NOVA
Al Cantiere San Bernardo, Via Pietro Gori

Dalle ore 18
“Fermiamo le armi, e iniziamo da qui!
La guerra e il nostro territorio”

Dibattito con la partecipazione del Coordinamento Antimilitarista di Livorno

Il territorio tra Pisa e Livorno è segnato da una forte militarizzazione. La presenza della Folgore, della Accademia Navale, della 46a Brigata aerea e delle forze speciali dell’esercito e dei carabinieri fanno di questa zona un nodo strategico per le politiche di guerra dello stato italiano. Sta a noi rompere questa dinamica a partire dall’opposizione alla nuova base militare del Tuscania a Coltano e dall’ampliamento di Camp Darby. L’aeroporto di Pisa e il porto di Livorno hanno un ruolo sempre più importante nel trasporto di materiale bellico anche verso l’Ucraina. Per solidarizzare con i disertori ucraini e russi quindi, e sostenere una coerente posizione antimilitarista e internazionalista contro Putin e contro la Nato dobbiamo cominciare da qui. La solidarietà internazionale parte innanzitutto dalle inziative contro le piattaforme della guerra sul nostro territorio. La recente campagna contro l’azienda Cheddite le cui munizioni sono state usate dalla polizia iraniana, per sparare fucilate sui manifestanti, è un esempio. Opporsi alla produzione bellica, al traffico di armi, alle basi, alla militarizzazione del territorio è un primo passo per inceppare gli ingranaggi del militarismo e della guerra.

Intendiamo costruire su questa base una discussione circolare con tuttx lx interessatx

Dalle ore 20

Apericena vegetariana e

Dj Set ReggaeRootsDub

strettamente su vinile

RootsMilitantHiFi

(RankingTeo-VbraOne-Rastantò)

Circolo Anarchico Vicolo del Tidi

Cantiere San Bernardo

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Da venerdì è in edicola a Livorno il primo numero di Umanità Nova del 2023

Da venerdì è in edicola a Livorno il primo numero di Umanità Nova del 2023

Umanità Nova si può trovare in distribuzione anche a Livorno:
Bar Dolcenera angolo via della Madonna via avvalorati
Edicola Piazza Grande Angolo Via Cogorano
Edicola Piazza Attias lato Corso Amedeo
Edicola Via Verdi angolo Via San Carlo
Edicola Via Garibaldi 7
Edicola Piazza Damiano Chiesa
Edicola piazza Aldo Moro
Edicola viale Antignano 115

 

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2012 – 2022 L’esempio del Rojava

articolo pubblicato sull’ultimo numero di Umantià Nova dello scorso anno, il numero 32 del 18 dicembre 2022

2012 – 2022 L’esempio del Rojava

Tra gli anniversari che hanno segnato questo anno 2022 che si sta andando a concludere, tra tante vicende storiche, uno riguarda un fatto che dieci anni fa fece poca notizia, ma che diede avvio ad un processo, ancora in corso, che ha suscitato negli anni enorme attenzione per aver liberato un grande potenziale rivoluzionario in una zona segnata da uno dei più violenti conflitti interimperialisti degli ultimi decenni.

Il 19 luglio del 2012 iniziava quella che è conosciuta come Rivoluzione del Rojava. Nel contesto della guerra civile siriana, nel vuoto di potere lasciato dal regime di Assad che si trovava indebolito, le Unità di Difesa del Popolo (YPG), milizia del Partito dell’Unità Democratica (PYD), assunsero il controllo della città di Kobanê, lungo il confine tra Siria e Turchia, occupando gli edifici governativi e le vie di accesso alla città. Da quel momento, in quella parte settentrionale della Siria che i curdi chiamano Rojava, il Kurdistan Meridionale in territorio siriano, si avvia un vero e proprio processo rivoluzionario. Le forze delle autorità centrali vengono esautorate e allontanate, le YPG e le YPJ assumono il controllo del territorio e il Movimento per una Società Democratica (TEV-DEM), organizzazione ombrello creata dal PYD, riorganizza la società con l’obiettivo di applicare il confederalismo democratico. Il confederalismo democratico è il nuovo paradigma ideologico elaborato in seno al movimento curdo e adottato dal Movimento delle Comunità Curde (KCK) negli anni 2000. Del KCK fa parte il PYD ma anche il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) attivo nel Bakur, il Kurdistan Settentrionale in territorio turco e i corrispettivi partiti attivi nelle aree segnate dalla presenza curda in territorio iraniano e iraqeno. È il movimento che fa riferimento ad Abdullah Öcalan, fondatore del PKK in carcere dal 1999, e che dichiara di aver abbandonato tra gli anni ‘90 e gli anni 2000 l’ideologia marxista-leninista per abbracciare il confederalismo democratico, un paradigma ideologico eclettico, che assumendo anche riferimenti libertari propone una prospettiva ecologista, femminista e democratica. Ma il principale cardine del confederalismo democratico è il rifiuto dello stato-nazione, un nodo chiave per un partito che si fa portavoce di una minoranza, quella curda, in una regione, quella mesopotamica, marcata dalla presenza di stati di matrice fortemente nazionalista, come la Turchia, la Siria, l’Iran e l’Iraq. Dopo decenni di guerriglia con l’obiettivo dell’indipendenza, per la costruzione di una nuova entità statale basata sull’identità curda, la prospettiva cambia radicalmente. Viene abbandonata l’idea di indipendenza attraverso un nuovo stato-nazione con propri confini, e viene sostituita dalla creazione di forme di autogoverno territoriale che possano rappresentare la pluralità culturale dei diversi popoli della regione, senza confini predeterminati, senza un’unica identità linguistica, etnica o culturale. È in questa prospettiva che il TEV-DEM avvia la costituzione di forme di autogoverno: cooperative, case del popolo, case delle donne, un sistema politico decentrato su più livelli, dal consiglio di quartiere, al cantone, fino al livello più alto, un sistema che non è mai divenuto nel corso degli anni monopartitico.

Questo processo si inseriva in un contesto molto particolare. Nel 2011 il Mediterraneo è una delle aree in cui è più forte il conflitto tra le istituzioni e i movimenti di contestazione nati nel quadro della grande crisi economica globale del 2007/2008. Ma se in Europa i movimenti di classe non riescono a scalfire le politiche di macelleria sociale e la contestazione della classe politica non fa che generare nuove forme di legittimazione del potere più autoritarie, lungo la costa sud del Mediterraneo invece un vero e proprio ciclo insurrezionale travolge le dittature. Dopo Tunisia, Libia ed Egitto anche la Siria viene toccata da questo dirompente movimento che viene chiamato “primavere arabe”. Le potenze globali e regionali per evitare che questi processi possano mettere in discussione l’ordine neocoloniale e con esso lo stesso ordinamento sociale, decidono di intervenire sia con l’impegno militare diretto, sia con l’appoggio a “nuovi” gruppi di potere, sia creando bande ed eserciti “controrivoluzionari” o comunque incaricati di assicurare sul campo gli interessi del governo che li arma. Questo porta in Siria alla guerra civile. Nel momento in cui la guerra spazza via dallo scenario della Siria ogni possibilità di una trasformazione sociale dal basso, l’autogoverno del Rojava rappresenta, non senza contraddizioni, uno spazio in cui dare concretezza alle aspirazioni di libertà che animavano i movimenti di quegli anni.

La situazione interna della Turchia giocò anch’essa un ruolo importante. Con la sanguinosa repressione tra la primavera e l’estate del 2013 dell’ampio movimento di protesta che era nato a Gezi Park ad Istanbul contro il modello autoritario e affaristico del governo conservatore religioso guidato dall’AKP di Erdoǧan, la sinistra rivoluzionaria e l’opposizione in genere cercano una strategia per il rovesciamento del blocco di potere al governo. Quando si chiude ogni margine per le trattative di pace tra il governo di Ankara e il movimento curdo, la prospettiva diviene chiara: unire la forze per il cambiamento da una parte e dall’altra del confine, tra Turchia e Rojava. Tra il 2014 e il 2015 questa prospettiva cresce e matura insieme alla solidarietà internazionale che conosce, tra l’esodo della popolazione Ezida dalle montagne di Shengal e l’assedio di Kobanê, il momento di massima attenzione. Dal 2015 fino al 2016, con lo stragismo e la guerra interna lo stato turco scatena una repressione feroce per eliminare fisicamente le opposizione e impedire con la forza lo sviluppo concreto di una prospettiva comune di liberazione tra Siria e Turchia.

Negli anni il processo rivoluzionario è stato sempre sotto attacco da più parti e molti sostengono che si sia di fatto arrestato. Spesso anche su queste pagine, come in molte iniziative pubbliche, abbiamo affrontato, anche su un piano critico, i limiti e le contraddizioni di quella che non si è comunque mai qualificata come “rivoluzione anarchica”, ma che senza dubbio rappresenta un esperimento di trasformazione sociale eccezionale in tempi come questi, e non può non suscitare non solo il nostro interesse ma anche il nostro impegno solidale. La guerra portata dalla Turchia, per procura o in forma diretta, con le successive invasioni di Afrin nel 2018, di Serekaniye nel 2019 e oggi con i bombardamenti su Kobanê. La necessità di portare guerra allo Stato Islamico e alle varie gang controrivoluzionarie della regione. Gli intrighi militari e diplomatici delle potenze presenti sul campo, dagli USA alla Russia, all’Iran, fino alle stesse truppe di Damasco, hanno spesso isolato l’esperienza del Rojava, dimostrando come stati formalmente nemici trovino facilmente un accordo quando si tratta di assestare un colpo a una pericolosa prospettiva rivoluzionaria. La guerra continua ha certamente indebolito la prospettiva di profondo cambiamento sociale oltre che politico. È uno dei problemi più classici della storia dei movimenti rivoluzionari, quello della contraddizione tra guerra e rivoluzione. Ma le contraddizioni, gli elementi da discutere sono molti. La questione della proprietà privata in un’economia prevalentemente agricola e disastrata dalla guerra, la questione dell’estrazione delle risorse fossili, la costituzione della Amministrazione Autonoma della Siria del Nord Est e lo spettro della cristallizzazione delle istituzioni statali che potrebbe rendere ineffettive le forme di autogoverno, l’amministrazione della giustizia, la gestione delle migliaia e migliaia di prigionieri di guerra cittadini di paesi europei che si rifiutano di riprenderli, preferendo lasciarli come elemento destabilizzante in Rojava. Elementi che non potrebbero essere riassunti in un breve articolo, che non renderebbe il debito spazio a questioni così importanti e a come si sono sviluppate nel corso di un decennio.

Ma una cosa è certa, se anche questa esperienza dovesse spaventosamente finire con una guerra, se anche le contraddizioni dovessero prendere il sopravvento e bloccare il processo di trasformazione, il Rojava avrebbe comunque uno straordinario esempio da dare al mondo. Il rifiuto dell’egemonia e il riconoscimento della natura plurale della società è probabilmente il messaggio più originale e importante di questo processo. Uno dei più visibili risvolti concreti di questo assunto è la costruzione di forme di convivenza, cogestione, cooperazione tra le diverse identità, popolazioni e culture presenti in quella regione. Questo è un aspetto che non è mai venuto meno nell’esperienza del Rojava, non è mai arretrato, anzi è cresciuto e si è sviluppato nel tempo. Molti solidali quando si iniziò a parlare del Rojava, con uno sguardo non sempre libero da lenti neocoloniali, esaltavano l’importanza di queste pratiche di convivenza e tolleranza in una terra da sempre segnata da conflitti settari, religiosi ed etnici, dal massacro delle minoranze, dalla guerra “tribale”, dall’oppressione delle donne, dal dominio di sangue di un gruppo sull’altro. Ma la vera importanza di tutto questo penso che l’abbiamo potuta capire solo adesso. Mentre nella civile Europa si torna a combattere in nome del nazionalismo etnico e linguistico, e le menzogne sull’identità culturale e di sangue diventano, di nuovo, un discrimine tra “amici” e “nemici”. Nel contesto di guerra in Europa persino alcuni soggetti tra quelli che sostenevano politicamente la rivoluzione in Rojava oggi si schierano a sostenere il “diritto alla difesa” di un popolo, che parli ucraino o russo. Superare l’idea di popolo come unità linguistica ed etnica che costituisce una nazione, riconoscere la pluralità della composizione culturale di una regione, la divisione in classi delle società, il ruolo oppressivo degli stati, sembra essere diventato difficile nell’Europa di oggi. Possiamo trovare delle risposte proprio in quelle terre che molti ritenevano “tribali”. La prospettiva del confederalismo democratico propone delle possibili strade, rifiutando lo stato nazione, riconoscendo la pluralità, rifiutando la polarizzazione imposta dalla guerra e sviluppando una terza via. Dopotutto il movimento curdo approda al confederalismo democratico dopo la feroce guerra che nei primi anni ‘90 provocò massacri e devastazione dei villaggi nel Kurdistan Settentrionale in territorio turco. Il confederalismo democratico fu il tentativo di costruire una strategia di pace. Non intesa come assenza di guerra o come accordo tra i governi, ma come solidarietà tra le classi oppresse e sfruttate. Un aspetto spesso trascurato che ci mostra il valore rivoluzionario della pace.

Dario Antonelli

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