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Il governo risponde alla crisi sociale: galera per chi occupa

[articolo pubblicato su Umanità Nova n. 27 del 13/1/22]

Il governo risponde alla crisi sociale: galera per chi occupa

Il programma del nuovo governo è galera e manganello. Con il suo primo provvedimento il Consiglio di Ministri ha istituito il 31 ottobre un nuovo reato, già entrato in vigore. Dal 2 novembre chi occupa potrà essere condannato da minimo 3 a massimo 6 anni di carcere, se l’occupazione viene messa in atto da più di cinquanta persone per organizzare un raduno che si ritiene possa essere pericoloso per l’ordine pubblico, l’incolumità pubblica o la salute pubblica. Annunciata come norma “anti-rave” ha in realtà, come si vedrà, un impatto molto più ampio, e non è altro che un nuovo strumento repressivo. Pochi giorni prima, il 25 ottobre, mentre la Camera votava la fiducia al governo, la polizia caricava una protesta studentesca antifascista all’università La Sapienza di Roma. Due studenti feriti e un fermato, vari contusi tra i manifestanti, questo è stato il risultato della violenta carica di polizia per impedire la semplice esposizione di uno striscione all’esterno della sede di Scienze Politiche, nelle cui aule si svolgeva una conferenza organizzata dal gruppo fascista Azione Universitaria, organizzazione legata al partito di Giorgia Meloni. Una chiara lezione del Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi di concerto con la rettrice della Sapienza Antonella Polimeni al mondo universitario e studentesco, che rappresenta da sempre un fertile ambiente per i movimenti di protesta e dunque una minaccia per i governi. In meno di una settimana il governo ha quindi chiarito il proprio programma, manganellate e galera per chi protesta e in generale per le classi sfruttate e oppresse.

Ma andiamo a vedere in cosa consiste questo primo provvedimento del governo che introduce pesantissime pene per le occupazioni. Il DECRETO-LEGGE 31 ottobre 2022, n. 162, approvato dalla seconda riunione del Consiglio dei Ministri, sancisce all’articolo 5 l’aggiunta di un nuovo articolo al Codice Penale: l’art. 434 bis, che definisce il reato di “Invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”. Chiaramente il provvedimento tratta anche altri temi non di secondaria importanza, come i cosiddetti benefici penitenziari e gli obblighi di vaccinazione anti-covid. Ma non ci occuperemo qui di tali aspetti, soffermandoci invece sul solo articolo 5 che è stato peraltro al centro del dibattito pubblico degli ultimi giorni.

Il provvedimento infatti è stato presentato dal governo e dai media come “decreto-rave”, come una norma che permetterebbe la repressione e la regolamentazione dei rave o free party. Nei giorni precedenti una martellante, pervasiva e trasversale campagna mediatica aveva orientato l’attenzione del dibattito pubblico, secondo i modelli ben collaudati dell’emergenza, su una normale festa non autorizzata in dei capannoni abbandonati nel modenese. In questo clima è stato annunciato il provvedimento governativo, secondo schemi da propaganda di regime: un necessario intervento di polso, severo ma giusto, per porre fine alla confusione normativa e permettere alle forze dell’ordine di svolgere il proprio lavoro impedendo questi raduni che si tengono a causa dell’eccessiva libertà, provocata dall’inazione dei governi precedenti. In realtà questo genere di feste è già da molti anni soggetto a divieti e massicci interventi repressivi, che il più delle volte sono i principali motivi di pericolo in simili contesti. Ma oltre la propaganda proibizionista e autoritaria, che rimane comunque un importante argomento della destra e dell’estrema destra al governo, gli scenari repressivi che questo provvedimento prepara sono molto più vasti, basta leggere il testo.

« Art. 5 Norme in materia di occupazioni abusive e organizzazione di raduni illegali

1. Dopo l’articolo 434 del codice penale è inserito il seguente: «Art. 434-bis (Invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica). – L’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica consiste nell’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica.

Chiunque organizza o promuove l’invasione di cui al primo comma è punito con la pena della reclusione da tre a sei anni e con la multa da euro 1.000 a euro 10.000.

Per il solo fatto di partecipare all’invasione la pena è diminuita.

È sempre ordinata la confisca ai sensi dell’articolo 240, secondo comma, del codice penale, delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato di cui al primo comma nonché di

quelle utilizzate nei medesimi casi per realizzare le finalità dell’occupazione.»

Gli ultimi due commi dell’articolo, che qui non sono citati, definiscono l’entrata in vigore del provvedimento il giorno dopo dalla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, e inseriscono questo nuovo reato tra quelli per cui si possono disporre particolari misure di prevenzione personale, assieme a reati di mafia, corruzione e peculato, ai reati associativi, a quelli di insurrezione armata, devastazione e saccheggio e guerra civile.

È evidente alla lettura del testo che questo reato potrebbe comprendere una grande varietà di casi, dalle assemblee in luoghi non regolarmente concessi, a varie iniziative e forme di protesta che si svolgano all’interno di terreni o edifici occupati, ma anche grandi fenomeni di occupazione abitativa, e ovviamente ogni tipo di iniziativa culturale o festa che si tiene senza concessione degli spazi utilizzati. Basta che l’occupazione sia messa in atto da più di cinquanta persone e che avvenga per svolgere un generico raduno, e che tale raduno possa costituire un pericolo. Ovviamente sono le autorità a definire in cosa consista il pericolo, e in ogni caso prima si sgombera, si denuncia, si avviano processi, confische ed eventuali misure preventive. Poi in caso si vedrà in tribunale se il raduno era effettivamente pericoloso.

Lasciando a chi ne ha le competenze specifiche un’analisi giuridica di questo provvedimento, si segnalano alcuni aspetti che risultano evidenti. Innanzitutto questo nuovo reato si affianca a quello già previsto di “Invasione di terreni o edifici”, il consueto reato di occupazione previsto dall’articolo 633 del Codice Penale. Gli stessi esponenti del governo in effetti hanno dichiarato che inizialmente c’era l’intenzione di intervenire aggiungendo un’aggravante proprio al 633 CP, ma che il Consiglio dei Ministri ha poi scelto di introdurre direttamente un nuovo articolo. Già il primo governo Conte nel 2018 era intervenuto con un decreto promosso dall’allora ministro Salvini, inasprendo le pene per il 633 CP innalzando da 2 a 4 gli anni di reclusone previsti. Che conseguenze avrà l’introduzione di un nuovo reato di occupazione? Se anche il nuovo 434 bis dovesse intervenire solo in casi specifici, dal momento che costituisce una fattispecie che prevede pene più gravi da utilizzare a scopo repressivo, sarà un ulteriore tassello di quello che chiamiamo “diritto penale del nemico”? L’eventuale concorrenza tra i due reati di occupazione porterà ad una maggiore applicazione del vecchio 633 e quindi ad un ulteriore accanimento verso le occupazioni abitative, o le occupazioni di luoghi di lavoro, di scuole o università, che comunque già oggi vengono represse?

Queste sono solo alcune riflessioni, e può darsi che vi siano altri interrogativi anche più importanti da porsi. La cosa sicura è che il governo vuole la galera per chi occupa. Perché il minimo di reclusione a 3 anni stabilito dal 434 bis esclude la sospensione condizionale della pena. Certo in molti casi si possono richiedere forme alternative, e ogni situazione poi avrà la sua specificità. Ma è chiaro che il governo ha voluto dare un segnale inequivocabile. È un forte segnale di tutela della proprietà per i grandi proprietari e per gli interessi di rendita. Tutti i governi negli ultimi anni hanno fatto provvedimenti a tutela della proprietà, in particolare dichiarando guerra alle occupazioni. Non solo con il già citato decreto Salvini, ma anche il famoso piano casa Lupi-Renzi, che nel 2014 attaccava le condizioni di vita e i diritti di chi abita in occupazione, negando residenza e allaccio alle utenze.

Di fronte a una prospettiva di profonda crisi sociale, alimentata dalle politiche di guerra che questo governo si propone di implementare, con il rischio di una crisi abitativa come quella che ha segnato la prima metà dello scorso decennio e che fu accompagnata da un grande slancio del movimento delle occupazioni per il diritto all’abitare, il nuovo governo si dota di nuovi strumenti repressivi.

Sono state annunciate modifiche, mentre esponenti del governo giurano che questo nuovo reato non sarà utilizzato contro le occupazioni. Chi manifesta nella legalità non avrà niente da temere, dicono secondo una retorica stantia. Comunque si concluda la questione, il governo con il suo primo provvedimento ha mostrato chiaramente che direzione intende seguire.

Una parte dell’opposizione parlamentare ha definito la norma liberticida e contesta al governo di non occuparsi della crisi sociale, del carovita e dell’aumento delle bollette. Non è corretto. Il governo si sta occupando proprio di questi temi sociali, mostrando quale sarà la risposta delle classi dominanti a eventuali proteste, sfodera il manganello e promette la galera a chi occupa, erigendo nuovi bastioni a difesa del privilegio. Dopotutto è stato anche chi oggi siede all’opposizione a normalizzare e legittimare il fascismo, sono stati gli stessi media progressisti a parlare di destra presentabile, sono stati anche loro a invocare la buona vecchia Madonna del Manganello a tutelare l’interesse nazionale in tempi di guerra.

Dario Antonelli

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13 Novembre alla FAL: Ricordiamo Lina Antonelli

Ricordiamo Lina Antonelli a quattro mesi dalla sua improvvisa scomparsa

Domenica 13 novembre ore 17

presso la Federazione Anarchica Livornese in Via degli Asili 33

Per ricordare la figura di Lina Antonelli che ci ha lascato lo scorso 13 luglio si terrà un’iniziativa domenica 13 novembre alle ore 17 della Federazione Anarchica Livornese, in Via degli Asili 33. Sarà presente Franco Schirone, amico, compagno e autore de “La Gioventù Anarchica”, libro dedicato ad una importante esperienza politica che vide Lina tra le promotrici e protagoniste. Dopo i funerali con le bandiere rosse e nere e un primo momento di commemorazione con compagni, parenti e amici mosso dall’immediata esigenza di trovarsi insieme, questa iniziativa vuole mettere in luce l’impegno di Lina nel movimento.

Lina si trasferì a Roma negli anni sessanta, ed è stata fra le animatrici della Federazione Anarchica Giovanile e di importanti iniziative come il convegno giovanile internazionale, il campeggio tenutosi a Marina di Massa e le prime marce antimilitariste. In quegli anni la ripresa organizzativa e politica della Federazione si accompagnava ai primi movimenti giovanili, studenteschi, operai e culturali. Dopo gli attentati dell’aprile 1969 e la Strage di Stato, Lina fu punto di riferimento per le iniziative a sostegno degli anarchici arrestati e per denunciare l’assassinio di Giuseppe Pinelli. Nei primi anni settanta Lina collaborò con il Comitato politico-giuridico di difesa, di cui facevano parte fra gli altri Anna Pietroni, Aldo Rossi, Placido La Torre, contribuendo a tessere quella rete di esperti legali, giornalisti, militanti politici e sindacali, esponenti della cultura e settori notevoli di opinione pubblica che consentì allora di respingere la manovra dello Stato italiano.

Lina inoltre fece parte della redazione di Umanità Nova quando questa fu affidata al gruppo “Bakunin” di Roma, dopo il X Congresso della Federazione Anarchica Italiana (Carrara, 1971). Il passaggio di testimone della redazione fu anche l’occasione per il rinnovamento della veste grafica e dei contenuti del settimanale.

Tornata a Livorno, Lina non ha mai fatto mancare il suo sostegno, fino all’ultimo, alla  Federazione Anarchica sia a livello nazionale che locale, alla nostra stampa e alle vittime politiche.

È rimasta sempre punto di riferimento per tante compagne e compagni, molto conosciuta dentro e fuori dal movimento anche per il suo carattere unico. Mettendo a disposizione, assieme alla sorella Alba, la sua esperienza e il suo archivio ha dato un notevole contributo alle ricerche sui vari aspetti del movimento anarchico.

Federazione Anarchica Livornese

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Respingiamo il tentativo di criminalizzazione del movimento anarchico

Respingiamo il tentativo di criminalizzazione del movimento anarchico

La Federazione Anarchica Livornese e il Collettivo Anarchico Libertario respingono i tentativi di criminalizzazione del movimento anarchico. La prima pagina de Il Tirreno del 4 novembre titolava “Incendi alle antenne, pista anarchica”. L’articolo che seguiva nella cronaca locale di Livorno, ribadiva nel titolo “Ripetitori e centraline incendiate: ora spunta la PISTA ANARCHICA” con le ultime due parole in rosso.

Nell’articolo vengono messi insieme episodi diversi, da centraline elettriche bruciate all’incendio di alcune abitazioni di fortuna, fino addirittura all’incendio di un camper che ha provocato l’intossicazione di un uomo che per fortuna si è salvato.
L’articolo non fa riferimento a nessuna rivendicazione, né ad indizi o motivi che dovrebbero indicare la “pista anarchica”. Si riporta solo in apertura che “La pista anarchica è quella seguita dalla digos”. Senza neanche citare una dichiarazione degli inquirenti.

Tanto è bastato a Il Tirreno per imbastire un simile titolo. Sappiamo bene che la scelta dei titoli, specie di prima pagina, non è casuale. Non si tratta solo di incompetenza ma di una precisa scelta politica.

La scelta redazionale di una simile titolazione in prima pagina, oltre che puramente gratuita, appare gravemente lesiva di tutti coloro che riconoscendosi nel movimento anarchico svolgono quotidianamente la loro azione politica all’interno di coordinamenti, sindacati, comitati, e situazioni di lotta sociale. Respingiamo queste accuse che hanno il solo scopo di criminalizzare chi ogni giorno è attivo sul territorio. Le persone che ci conoscono sanno quanto siano assurde queste ipotesi. Se non si trattasse di questioni gravi, tali ipotesi risulterebbero ridicole anche soltanto per per le formule stereotipate impiegate. Ma ancora più assurdo è ricondurre questi fatti al movimento anarchico. Gli anarchici sono al fianco di chi lotta per la casa, sono altri in questo paese a dare fuoco a camper, roulotte e alloggi di fortuna.

Non è una novità che contro il movimento anarchico siano periodicamente avviate montature e campagne di criminalizzazione, a cui le anarchiche e gli anarchici hanno sempre saputo dare una risposta ferma trovando la solidarietà di ampi settori sociali. Non vogliamo stare a ricordare la strategia della tensione e le tante pagine nere della storia di questo paese. Il momento politico attuale, nella sua specificità, tende a riprodurre schemi già visti e a ricercare anche nella stampa una cassa di risonanza mediatica.

Fa riflettere che proprio il 4 novembre mentre si tengono iniziative antimilitariste a Livorno e in tutto il paese, che vedono impegnato il movimento anarchico a fianco di tante componenti politiche e sociali, vengano pubblicati questi titoli. Il Tirreno dovrebbe spiegare le ragioni di questa scelta redazionale. Le anarchiche e gli anarchici oggi come ieri non si fanno intimidire e sono più che mai presenti nelle lotte. Di questo si dovrebbe parlare e non di fantomatiche piste.

Federazione Anarchica Livornese
Collettivo Anarchico Libertario

05/11/22

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PRESIDIO – MANIFESTAZIONE : 4 NOVEMBRE CONTRO TUTTE LE GUERRE

BASTA GUERRE!
BASTA MILITARIZZAZIONE DEL TERRITORIO!

Venerdì 4 novembre
piazza GRANDE – ore 17.30
PRESIDIO-MANIFESTAZIONE

Il 4 novembre in Italia è la “Festa delle Forze Armate”, che celebra la “vittoria” della Prima Guerra Mondiale. Solo in Italia morirono oltre 600 mila soldati e oltre 500 mila civili per gli interessi della monarchia e dei circoli finanziari e militari ad essa legati. La retorica dell’unità nazionale fu usata per giustificare questo massacro. Moltissimi furono i disertori, i fucilati e coloro che espressero un deciso rifiuto della guerra. Da sempre una giornata di propaganda guerrafondaia che spesso coinvolge anche le scuole. Oggi più che mai non c’è niente da festeggiare. La guerra in Ucraina a cui l’Italia partecipa come cobelligerante, inviando armi e denaro, ma anche schierando truppe e mezzi militari ai margini del conflitto, crea una inaccettabile escalation militare con ripercussioni pesantissime anche qui: dall’aumento della propaganda militarista nelle scuole, allo sfruttamento massiccio dei territori per scopi militari, all’economia di guerra che viene imposta e che si traduce sempre più in carovita insostenibile, taglio dei salari, dell’occupazione e delle spese sociali.

fermare la guerra innescata e alimentata dau governi di ogni schieramento, sia da quelli legati a Putin e che da quelli legati alla NATO

fermare le guerre diffuse in tutto il mondo, che alimentano povertà, predazione di risorse, migrazioni forzate

bloccare l’invio di armi, l’aumento delle spese militari, il rifinanziamento delle missioni militari

impedire la costruzione della nuova base militare a Coltano, l’ampliamento di Camp Darby e la crescente militarizzazione del territorio

opporsi alla crescente presenza degli ambienti militari nelle scuole, perché le pratiche militari non devono interferire con l’educazione scolastica, formativa, e di sviluppo del libero pensiero degli alunni e degli studenti

rifiutare la propaganda bellica, rifiutare le retoriche patriottiche, rifiutare l’esaltazione della morte e delle stragi, a partire da iniziative di lotta il prossimo 4 novembre

costruzione dello sciopero generale del 2 dicembre contro la guerra, il carovita e l’economia di guerra

esprimere solidarietà alle popolazioni colpite dalle guerre e sostegno ai disertori e a coloro che rifiutano le logiche dei loro governi

In una situazione gravissima come quella che stiamo vivendo l’opposizione alla guerra, per essere reale ed efficace, deve avere obiettivi chiari, precisi e non generici

Coordinamento cittadino per il ritiro immediato delle missioni militari italiane all’estero

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Striscione a Livorno: SOLIDARIETÀ AI DISERTORI RUSSI E UCRAINI BASTA GUERRE!

SOLIDARIETÀ AI DISERTORI RUSSI E UCRAINI
BASTA GUERRE!
Oggi abbiamo voluto lanciare con uno striscione un chiaro messaggio di solidarietà e internazionalismo contro la guerra
Ogni giorno vediamo le conseguenze devastanti della guerra iniziata con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia lo scorso 24 febbraio. Morte e distruzione per chi vive nelle terre direttamente coinvolte nel conflitto, mentre paura, miseria, autoritarismo, militarismo divengono la normalità nel resto del continente. È importante rispondere alla chiamata di coloro che dal cuore del conflitto cercano di opporsi alla guerra o quantomeno di sottrarsi al massacro. In Russia centinaia di migliaia di persone hanno lasciato il paese per sfuggire alla chiamata alle armi, i casi di diserzione aumentano, proteste e sabotaggi continuano nonostante la repressione. In Ucraina la legge marziale impedisce da oltre sette mesi agli uomini tra i 18 e i 60 anni di lasciare il paese, e il rifiuto della guerra è l’unico terreno su cui si è costruita negli ultimi mesi in Ucraina un’autonomia della classe lavoratrice. Lo si vede nelle spontanee iniziative di mutuo appoggio per sfuggire all’arruolamento forzato nelle strade, così come nella richiesta di apertura dei confini per tutti coloro a cui è negata la possibilità di uscire dal paese perché considerati adatti all’arruolamento.
SOLIDARIETÀ AI DISERTORI RUSSI E UCRAINI
BASTA GUERRE!
Federazione Anarchica Livornese

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Guerra e Gas: incontro venerdì 14 a Pisa a Scienze Politiche

Domani a Pisa a Scienze Politiche un’iniziativa organizzata da Aula R Pisa e dal Circolo Anarchico di Vicolo del Tidi per confrontarsi sulle prospettive antimilitariste nella situazione attuale

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Strage della Moby Prince: ANCORA VERITÀ IGNORATE

Strage della Moby Prince:

ANCORA VERITÀ IGNORATE

[articolo tratto dal settimanale anarchico Umanità Nova n. 22 del 9 ottobre 2022]

A metà settembre la seconda commissione parlamentare di inchiesta sulla strage del Moby Prince si è sciolta ed ha reso noti i risultati parziali delle proprie indagini. Lo scioglimento è dovuto al fatto che si tratta di una commissione monocamerale, e non bicamerale come chiesero a tempo debito le associazioni dei familiari delle vittime, destinata quindi a sciogliersi con l’esaurirsi della legislatura, cosa che è avvenuto a causa delle elezioni del 25 settembre.

La vicenda del Moby è considerata il maggiore disastro della marina mercantile italiana. Noi la consideriamo una strage che vede responsabilità precise. Il 10 aprile del 1991 la collisione di un traghetto della Navarma e di una petroliera Agip determinò un incendio in cui persero la vita 140 persone. Il tutto avvenne in una serata primaverile, alle 22, nella rada del porto di Livorno, a poche miglia dalla costa.

Da oltre 30 anni i familiari delle vittime e i soggetti che li hanno sempre sostenuti si battono contro la tesi della tragica fatalità, puntando l’indice suuna situazione oggettiva, di incontrovertibile evidenza: la mancanza di sicurezza della Moby, l’impianto antincendio disattivato, il sistema radar e

radio malfunzionanti, il portellone di prua non chiuso.

Da una parte una nave che non doveva viaggiare, con una responsabilità chiara, ascrivibile in primo luogo all’armatore Onorato. Dall’altra parte una altrettanto chiara responsabilità delle autorità della Capitaneria di Porto, in particolare del comandante Albanese, che non seppero e non vollero gestire i soccorsi. In mezzo 140 persone lasciate a morire.

I processi che si sono succeduti in questi anni hanno sempre ignorato questa lampante evidenza. La verità giudiziaria è che per questi 140 morti non c’è nessun colpevole. Un insulto. La verità gridata dall’associazione delle vittime dei familiari è un’altra. In questi anni è stato condotto un lavoro lucido e determinato, sono stati costruiti collegamenti solidi con altre associazioni che pretendono la verità su altre stragi, su altre morti, tutte determinate, come nel caso della Moby, dalla ricerca di profitto e dalla noncuranza verso le più elementari norme di sicurezza, non certo da tragica fatalità: a Viareggio come a Pioltello, come a Casale Monferrato, come alla Thyssen di Torino. Perché di questa storia si deve continuare a parlare.

Perché una verità esiste, come esistono delle chiare responsabilità. Eppure periodicamente sulla vicenda del Moby escono ricostruzioni sensazionalistiche: l’ipotesi di esplosivo a bordo per un fantomatico attentato, la presenza top secret di navi militari statunitensi legate alla base militare

di Camp Darby, il traffico clandestino di navi nel porto etc.

La seconda commissione parlamentare di inchiesta appena scioltasi ha dato il suo contributo in termini di scoop, affermando, per bocca del suo presidente Andrea Romano, che la rotta della Navarma fu tagliata da una terza nave lì presente, probabilmente un’imbarcazione somala legata ai traffici di armi e rifiuti tossici tra Italia e Somalia, quelli su cui all’epoca indagavano anche Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Ancora una volta si cerca la spiegazione sensazionalistica per una vicenda chiarissima. In questa vicenda più che misteri da svelare ci sono fatti e responsabilità già evidenti, che il sensazionalismo giornalistico contribuisce a lasciare nell’ombra. E ci siamo stancati.

E poi quale sarebbe la notizia straordinaria?

Nella storia di questo paese i traffici illeciti, l’affarismo, le stragi e i disastri determinati dagli interessi economici e politici, così come le trame eversive pianificate ad alto livello, rappresentano qualcosa di ordinario che attraversa le vicende di molte stagioni più o meno recenti. E’ assurdo che in questa ordinarietà si voglia ricercare l’eccezionalità, l’elemento clamoroso. Se l’Italia traffica in armi è comprensibilmente ordinario che in mare si trovino imbarcazioni di trafficanti, più o meno istituzionali. Eppure tutto questo viene elevato ad evento sensazionale.

Meno sensazionale, nella sua verità, è ciò che è sicuramente avvenuto per la strage del Moby come di molte altre, diverse ma tremendamente simili, in cui la mancanza di sicurezza, l’incuria, il disprezzo delle più elementari misure di tutela e delle vite umane sono elevate a sistema ordinario, governato dal profitto. Un sistema ordinario che miete vittime determinando incidenti sul lavoro, incidenti ferroviari, incidenti in mare. Stragi.

Questa enorme ordinaria mancanza di sicurezza non viene minimamente considerata. Non lo è nel quotidiano che tutti ben conosciamo, non lo è nelle indagini che da anni si protraggono sulla vicenda del Moby fra archiviazioni, prescrizioni e riaperture di indagini dovute solo alla perseveranza dei familiari delle vittime.

Con rabbia ci siamo trovati ad ascoltare le parole di Andrea Romano con cui si cerca, ancora una volta, di dare una spiegazione eccezionale alla strage del Moby Prince, di fare apparire straordinario ciò che costituisce un sistema ordinario fatto di traffici sporchi che si svolgono sui mari; traffici di merci, di armi, di persone. Vicende che sappiamo essere ordinarie. L’altro ordinario, non certo sensazionalistico ma chiaro a tutti, viene ignorato con una ostinazione e un’arroganza che ogni volta rappresenta un oltraggio alla nostra coscienza e alla nostra intelligenza. L’ordinario ci parla di una nave che era una carretta, di sistemi di sicurezza che non c’erano, di responsabilità precise che hanno nomi e cognomi. L’ordinario ci parla di inchieste insabbiate, di strumentazioni manomesse, di reperti scomparsi, di speculazioni assicurative, di tentativi di corruzione, di persone che pur essendo al massimo livello di responsabilità, come l’armatore, sono state premurosamente esonerate dal comparire sul banco degli imputati. Ma questo è forse troppo ordinario, non rappresenta una narrazione avvincente.

Eppure ci sono situazioni ordinarie e banali a cui si dà rilievo. E’ disgustosamente ordinario, ad esempio, che tre giorni prima delle elezioni politiche Enrico Letta, in visita a Livorno per la conclusione della campagna elettorale, faccia la sua passerella proprio alla lapide che ricorda, nel porto, le vittime del Moby Prince; è ordinario che, nel farsi immortalare, voglia coinvolgere familiari ancora confusi e storditi dal dolore, dopo più di trent’anni. Ordinario e prevedibile fino alla

nausea. Strumentale e inaccettabile.

E noi ci siamo stancati. Basta con le sfilate periodiche di politici per i quali sicurezza significa solo politiche securitarie, cioè repressione ed esclusione sociale, e non, invece, ciò che può consentire di vivere e lavorare senza rischio in qualsiasi luogo, anche in mare.

Basta con la sfilza di ipotesi sensazionalistiche sulla vicenda Moby, che creano una cortina di nebbia per impedire di vedere l’evidenza. Basta con le vergognose strumentalizzazioni politiche. Ci avete veramente stancato.

Patrizia Nesti

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Riflessioni sparse su Fridays For Future DAL CLIMATE STRIKE ALLA CONVERGENZA

Riflessioni sparse su Fridays For Future

DAL CLIMATE STRIKE ALLA CONVERGENZA

[articolo tratto dal settimanale anarchico Umanità Nova n. 22 del 9 ottobre 2022]

Raccontare oggi il movimento per la giustizia climatica Fridays for Future è complesso. In primo luogo per le sue tante anime, in secondo luogo per le forme diverse in cui si sostanzia in differenti parti del paese. Si può però tentare di coglierne le evoluzioni e di guardare ai processi in corso, consapevoli che non esauriscono la comprensione di questa galassia ma ci danno dei sostanziali indizi e ci mostrano spazi di azione e interstizi che si aprono per una lotta radicale a questo sistema.

Sono stata per diversi anni attivista di Fridays for Future, salvo farmi da parte nel momento in cui una generazione molto più giovane della mia ha preso le redini del gruppo oramai in frammentazione (per più motivi, tra cui l’urgenza di migrare alla ricerca di lavoro o di tornare alla propria città natale finiti gli studi non potendosi permettere di pagare un affitto, una condizione strutturale nella nostra generazione precaria), provando a radicarlo nelle scuole. Tuttavia questa esperienza è stata molto formativa da un punto di vista politico. Ricordo molto bene, nella fase iniziale di questo movimento, la costante raccomandazione – che a volte assumeva toni di giudizio e condanna – da parte di gruppi molto politicizzati che salivano in cattedra a ricordare che l’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio. Mi sono avvicinata a FFF provenendo da una militanza in collettivi radicati nella cultura della sinistra antagonista e come me moltx altr si sono

unitx a FFF provenendo da percorsi di militanza anticapitalista, per cui capivamo bene questi timori.

Eppure, mettendo in discussione non i nostri principi ma la nostra postura all’interno di questo movimento, ovvero accettando che – forti del nostro passato militante – non avremmo insegnato niente a nessuno, ma avremo discusso e imparato tutto insieme, abbiamo visto innescarsi processi molto importanti e radicali, che non erano il risultato di un discorso militante assunto da un nuovo movimento, ma l’esito di un processo che ha messo in dialogo visioni e linguaggi differenti e ha immaginato nuove pratiche, andando alla radice del problema.

Persone completamente nuove alla politica ci hanno costrettx a ripensare il lavoro militante, e ci hanno mostrato un campo di possibilità a cui non eravamo capaci di guardare. Così, in questo continuo scambio il più possibile orizzontale e dialettico, lo slogan “diamo voce alla scienza”, è

diventato “va bene la scienza, ma questa va letta dentro specifici rapporti di potere”. Le timide prese di posizione contro le grandi opere devastanti di questo paese sono diventate, nel corso dei mesi, ferme condanne al paradigma energivoro e predatorio della grande opera, portando questo movimento ad attraversare i sentieri della Valsusa contro TAV, i campi di Coltano contro la nuova base militare, le strade di Ravenna contro il CCS [progetto di cattura e stoccaggio della CO2, ndr]. L’appello a ridurre le emissioni di CO2 si è saldato ad una lottaaffinché “chi ha inquinato paghi”.

Tutto ciò ha significato guardare al cambiamento climatico individuandone gli effetti e i responsabili a partire da ciò che abbiamo immediatamente fuori dalla nostra porta di casa. Trovare degli spazi di azione e conflitto concreti attraverso cui declinare territorialmente la lotta per la giustizia climatica, senza perdere il quadro di riferimento globale di questo lotta.

Ma non solo. Questo ha significato anche guardare alla questione ecologica come una questione di rapporti di potere, rifiutando quelle narrazioni che dipingono la natura come un terreno pacificato e la crisi climatica come una sfida che ci vede tutti sulla stessa barca, appiattendo le tensioni e asimmetrie che connotano profondamente questo campo di azione.

Non a caso, a pochi mesi dalla nascita di questo movimento nel marzo 2019, sono iniziate le campagne contro specifici soggetti come grandi aziende delfossile, multinazionali della logistica, marchi della fast fashion ed altre. La campagna Enemy of the planet ha portato vari gruppi di FFF difronte ai cancelli delle raffinerie di ENI, Block Friday ha portato – nella giornata del black Friday – al blocco di grandi catene della logistica come Amazon e di moda come Zara, giusto per fare degli esempi.

Va dunque riconosciuto a FFF, con tutti i limiti che pure esistono e persistono, di aver puntato il dito contro i responsabili del degrado ecologico e del cambiamento climatico riuscendo a portare questo livello di analisi e conflitto fuori da circuiti militanti. Al contempo, non possiamo ignorare il fatto che questo processo non ha avuto luogo allo stesso modo e con la stessa intensità in tutto il paese e che non c’è una totale simmetria in termini di visioni e prospettive tra i gruppi locali e coloro che riempiono le piazze durante i climate strikes. Questi elementi fanno senz’altro di FFF un movimento a più velocità, all’interno del quale si stanno tuttavia tratteggiando nuovi orizzonti e nuove alleanze che potrebbero mutarne la traiettoria.

Fridays for Future, cambiamento climatico e questione operaia

Quando si è iniziato a leggere la questione ecologica come una questione di rapporti di potere, si è colto il fulcro dell’ingiustizia ambientale. L’accesso alla natura e l’esposizione al degrado ecologico non solo uguali per tuttə, ma dipendono dalla stratificazione di oppressioni legate a genere, classe, provenienza, età ed altre, che rendono alcune soggettività più esposte di altre all’ingiustizia ambientale.

In questo contesto, ciò che più risulta paradossale è stato il sedimentarsi, negli ultimi decenni, di un conflitto tra diritto ad un ambiente sano e diritto al lavoro, specie nei territori in cui vi è una consolidata presenza di raffinerie, industrie siderurgiche, chimiche, e in generale fabbriche fortemente impattanti sull’ambiente e sul clima. Eppure, la classe operaia è la più esposta sia al degrado ambientale, a causa della sua interazione quotidiana con la nocività, che al cambiamento climatico, come dimostrano le varie vittime che ci sono state in Italia sui luoghi di lavoro a causa di ondate di calore e il sensibile aumento di incidenti a lavoro connessi allo stress termico (4mila incidenti in più l’anno in Italia secondo l’Inail).

Come se non bastasse, sulle spalle della classe lavoratrice vengono oggi scaricati i costi delle politiche “ambientali” e di “transizione ecologica”. Dalla misura di alzare il prezzo del carburante per ridurre le emissioni di CO2 decretata in Francia nel 2018, che ha portato all’insorgere del movimento dei Gilets Jaunes per lo più a composizione proletaria e proveniente dalle periferie e dalle aree rurali, al licenziamento dei lavoratori GKN di Campi Bisenzio nel 2021 in nome della transizione all’auto elettrica (un mercato che in Italia non risulta essere competitivo secondo l’azienda) la dimensione classista di queste politiche ambientali è emersa in tutta la sua evidenza.

Questo ha aperto concretamente un nuovo terreno di lotta per il movimento per la giustizia climatica, in Italia e nel mondo. La mobilitazione di questa componente operaia ha riaperto una frattura latente, quella tra vita e capitale, che sembrava sopita, frammentata in altre mille tensioni incapaci di connettersi e intersecarsi, o scavalcata dalla frattura ambiente-lavoro che sembrava oramai inscalfibile e naturale.

Se le lotte in fabbrica negli anni ’70 in Italia ci parlano di una storia diversa, in cui la classe operaia assume protagonismo dentro la grande “primavera ecologica” di quegli anni ottenendo significativi miglioramenti ambientali nei luoghi di lavoro – e conseguentemente nell’ambiente esterno – e trasformando l’approccio dell’intero Sistema Sanitario Nazionale a partire dalla prevenzione, le lotte che si stanno oggi sviluppando in alcuni luoghi di lavoro ci ricordano che questo conflitto apparentemente cristallizzato è in realtà socialmente costruito dal capitale, e che contro questa dinamica si può agire.

Rispetto a questo spazio di conflitto che si è aperto, animato da lavorator* che giustamente non vogliono pagare il prezzo di una transizione ecologica che risulta essere una grande accumulazione di capitale in chiave “green”, Fridays for Future si è ben inserito, lavorando ad una alleanza e convergenza con la componente operaia.

Questo è avvenuto con il Collettivo di Fabbrica GKN di Campi Bisenzio, portando a due connesse giornate di mobilitazione il 25 e 26 marzo di quest’anno, ma anche a Civitavecchia, dove operai e movimenti ecologisti stanno insieme lavorando per bloccare la riapertura della centrale a carbone e riconvertirne la produzione secondo adeguati standard ambientali e sociali.

Dagli scioperi climatici che mettevano al centro la voce della componente studentesca, che chiedeva retoricamente al mondo a cosa servisse loro continuare a studiare per un futuro che gli è stato sottratto, questo giovane movimento è arrivato a bloccare le catene di distribuzione, contestare le grandi compagnie energetiche tanto ai cancelli delle raffinerie quanto sotto i palazzi in cui si tengono le assemble e degli azionisti, a denunciare la speculazione sulle fossili di banche come

Intesa San Paolo o Unicredit, a occupare le strade con gli operai. Di tutto questo processo è fondamentale tenere conto quando parliamo del movimento ecologista e ci interroghiamo su di esso. È necessario tenerne conto per capire la natura processuale dei movimenti. Le piazze – come

quella del 23 settembre – ci raccontano qualcosa, ma cosa succede tra una piazza e l’altra? Che spazi di confronto si costruiscono? Che relazioni si alimentano? In questa descrizione potrebbero rispecchiarsi tutti i gruppi locali di FFF? Non credo. E naturalmente anche la mia è una prospettiva parziale, che riguarda quel che ho visto, vissuto e contribuito a costruire.

Da militante, oggi esterna a FFF, mi interrogo su questo spazio di lotta, su come attraversalo, contaminarlo e farmi contaminare, senza la pretesa di fornire un giudizio o di insegnare niente a nessuno. Penso sia importante chiedercelo tuttx, e prenderci cura di un terreno di lotta e dialogo che si è aperto, che potrebbe domani chiudersi oppure espandersi, intrecciandosi con tutte le altre lotte che tagliano trasversalmente la questione ecologica. Proprio perché riguarda il diritto stesso a respirare, a mangiare, a bere acqua, in sostanza a vivere, la natura è il terreno più politico che ci possa essere.

Paola Imperatore

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OGGI 7 OTTOBRE: ASSEMBLEA NO BASE A PISA

IL PROGETTO TRIPLICA, IL MOVIMENTO SI MOLTIPLICA
ASSEMBLEA NO BASE
7 Ottobre – h.18
Palazzo Ricci
Dopo l’ultimo tavolo interistituzionale del 28 settembre le istituzioni coinvolte vanno nella direzione di un ampliamento del progetto e di una sua dislocazione in più parti.
Dall’incontro tra istituzioni e Arma dei Carabinieri e Parco emerge l’intenzione di intervenire in due aree interne al Parco di Migliarino – San Rossore – Massaciuccoli, ovvero a Coltano e nell’area del Cisam, e di dislocare parte del progetto a Pontedera.
Il sindaco Conti, in un farsesco duello col Presidente della Regione Giani pretende che tutto il porgetto rimanga sul comune di Pisa e rilancia chiedendo, non contento, di utilizzare anche aree di Ospedaletto, sia pubbliche che private. Chiede inoltre di utilizzare la Paradisa per gli alloggi per i militari.
Anche se il sindaco continua a parlare di consumo di suolo zero, la verità è che l’Arma dei Carabinieri vuole un’area estesa per realizzare il centro di addestramento, che andrà individuata e cementificata. Inoltre, anche la volontà espressa dal tavolo di ristrutturare gli immobili storici di Coltano all’interno di questo progetto malcela l’intenzione di privatizzare quegli spazi e destinarli ad un utilizzo militare.
In sostanza, triplica l’estensione del progetto e con questa i costi, considerando che si parla anche di espropriare enormi aree private.
Nei mesi scorsi abbiamo instancabilmente presidiato il borgo di Coltano organizzandovi incontri, passeggiate e assemblee. Questa volta sentiamo l’urgenza di portare questa lotta in città, dentro gli spazi universitari, affinché possa essere il più partecipata possibile.
Dopo il 2 giugno, dove 10.000 persone hanno attraversato l’area interessata al progetto della base militare, vogliamo continuare a far crescere questo movimento, a farlo radicare nel territorio, a confrontarci con la collettività, a tessere nuove relazioni.
Abbiamo bisogno delle riflessioni, delle energie, dei dubbi e delle proposte di ognun di voi per difendere questo territorio destinato a una militarizzazione pericolosa per le nostre vite e per il nostro futuro.
VI ASPETTIAMO!

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Movimento No Base a Coltano, L’Arma accontenta tutti fuorché i cittadini

Movimento No Base a Coltano

L’Arma accontenta tutti fuorché i cittadini

Dopo la determinata e variopinta manifestazione del 2 giugno (10 mila in corteo), il Movimento No Base a Coltano (Pisa) non si è fermato praticamente mai nella sua mobilitazione contro questo ennesimo progetto di militarizzazione del territorio pisano e livornese. Nato dall’incontro di diverse aree antimilitariste e/o anticapitaliste (pisane e livornesi) con il comitato di cittadini coltanesi, il Movimento No Base ha saputo tenere alta l’attenzione su una questione, che si inscrive, per altro, nel drammatico contesto della sanguinosa guerra in Ucraina. Il progetto governativo, lo ricordiamo, è quello di utilizzare 73 ettari di terreno a Coltano, all’interno del Parco di San Rossore, per ricollocare il Gruppo di Intervento Speciale del reggimento paracadutisti Tuscania e del Reparto Centro Cinofili.

Una struttura che ha un costo stimato di 190 milioni di euro (presi al sociale naturalmente), e che sarebbe in stretta connessione con le molteplici e pesantissime strutture militari presenti nei 20 chilometri tra Pisa e Livorno, a cominciare dalla nota e famigerata base USA di Camp Darby.

Contro il progetto governativo il Movimento No Base ha sempre detto parole chiarissime e cioè che l’unica base buona è quella che non esiste e quindi non va fatta né a Coltano né altrove.

Incassato il successo del grande corteo a Coltano, gli attivisti No Base hanno subito dato continuità alla propria azione l’8 giugno con un presidio di oltre 200 persone sotto il palazzo del Comune di Pisa, in occasione del tavolo interistituzionale convocato nel municipio pisano per discutere il futuro della base militare. Diversi gli attori presenti a quel tavolo: dal Comune di Pisa (Lega), alla Regione Toscana (PD), all’Ente Parco, al Ministero della Difesa. Attori tutti concordi e determinati nel volere la base, ma divisi da appetiti configgenti riguardo alla torta di denaro pubblico che è in ballo.

In particolare, l’8 giugno emersero la posizione del Sindaco di Pisa, favorevole ad una divisione della base in vari siti sparsi sul territorio comunale, e la posizione del Presidente della Regione Toscana, invece favorevole all’opzione di Pontedera in alternativa a Coltano. Proprio per rispondere a quest’ultima ipotesi, il 9 giugno il Movimento organizzò una assemblea pubblica a Pontedera per sensibilizzare anche il territorio pontederese contro il progetto della base. Nel frattempo il Movimento No Base comincia a prendere contatti con altre realtà di lotta contro la militarizzazione e la devastazione ambientale del territorio e a questo proposito il 2 luglio vengono presentati pubblicamente i vari campeggi estivi che caratterizzeranno l’estate in varie parti d’Italia:

dal Campeggio “Climate Social Camp” a Torino, a quello NO MUOS in Sicilia, ad altri ancora. A questi campeggi gli attivisti NO BASE parteciperanno, invitati a parlare.

L’8 luglio si svolge un’affollata assemblea nel centro di Pisa, per informare la cittadinanza e fare il punto della situazione dopo il tavolo interistituzionale che si era tenuto il giorno prima a Roma, per altro senza novità di rilievo. Il 20 luglio in località La Vettola (prossima al CISAM di San Piero e alla base di Camp Darby) si tiene un’assemblea NO BASE incentrata sull’ipotesi, ventilata, di costruire la base presso il sito del CISAM. Poi altri appuntamenti estivi: il 22 luglio a Livorno, il 27 a Ospedaletto, il 21 agosto a La Spezia. A settembre si riparte con la tre giorni di Coltano organizzata dal Movimento No Base (9-11 settembre) per dare impulso alla ripresa autunnale. Tre giorni di dibattiti, gruppi di lavoro e proiezioni che ha visto una grande partecipazione e voglia di protagonismo di una realtà di movimento certamente composita e articolata. In particolare è stata estremamente positiva l’assemblea conclusiva (quasi 150 perso ne) che ha visto confrontarsi realtà di movimento provenienti da vari territori (Empoli, Piombino, Amiata, ecc.) che lottano contro la militarizzazione e la devastazione del territorio.

Seguono i tre ultimi presidi sotto il Comune di Pisa del 13, 19 e 28 settembre. In particolare, il presidio del 28 era convocato in occasione dell’ennesimo tavolo interistituzionale sul progetto di base militare. Dal tavolo sarebbe emersa l’insidiosa proposta dell’Arma dei Carabinieri – prima interessata al progetto – di realizzare a Coltano la sola parte residenziale della base e a Pontedera la parte dell’addestramento militare. Il tutto per mezzo anche di espropri a privati con relativi lucrosi indennizzi. Anche il CISAM di San Piero dovrebbe essere coinvolto nel progetto. In questo modo sarebbe assicurato un consenso ampio alla realizzazione della base, cointeressando sia la Regione Toscana, sia il Comune di Pisa, sia l’Ente Parco, tramite la ripartizione e la moltiplicazione del flusso di denaro pubblico a questa ennesima opera di occupazione militare del territorio. Per altro, il Sindaco leghista Conti ha rilanciato anche la sede di Ospedaletto (località limitrofa a Pisa e a Coltano), anche lì con l’uso degli espropri.

Si prospetta, dunque, una gara delle varie istituzioni ad accaparrarsi la torta che avrà l’inevitabile conseguenza di moltiplicare la spesa pubblica per l’opera, andando molto più in là dei 190 milioni previsti. Tra un mese lor signori si rivedranno a Roma. È auspicabile che il Movimento NO BASE intensifichi la sua mobilitazione allargandola a tutti i territori interessati e ponendosi sempre più

come momento di autorganizzazione popolare orizzontale, fuori e contro il quadro istituzionale sempre più asservito alla logica del militarismo e della guerra. È auspicabile anche che il

Movimento divenga uno dei punti di riferimento per le prossime mobilitazioni contro la guerra in Ucraina, intrecciando il suo percorso con quello del sindacalismo conflittuale e alternativo.

Claudio Strambi

[articolo pubblicato sul n. 22 del settimanale anarchico Umanità Nova, 09/10/2022]

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