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Pisa: Franco vive, i morti siete voi!

organizzato dall’Assemblea dell’Aula R di Pisa

Franco Serantini
“Anarchico ventenne, colpito a morte dalla polizia mentre si opponeva ad un comizio fascista”

Il 5 maggio del 1972 Franco Serantini partecipa ad un presidio contro il comizio del fascista Niccolai del MSI. Il presidio viene duramente attaccato dalla polizia. Franco viene circondato sul Lungarno Gambacorti da un gruppo di poliziotti del I Raggruppamento celere di Roma, e pestato a sangue. Portato nel carcere Don Bosco, Franco sta male, ma le sue condizioni vengono ignorate, nonostante si aggravino rapidamente. Dopo due giorni di agonia e coma, Franco muore il 7 maggio 1972.

Franco Serantini è stato arrestato in piazza mentre faceva attività politica, e questo succede ancora ai nostri giorni.

Franco è stato pestato a sangue e portato via mentre lo Stato garantiva lo svolgimento di un comizio fascista, come succede anche oggi.

Franco è stato portato in carcere dove non riceve le cure necessarie, finisce in coma e muore in quella gabbia, come succede anche oggi.

A quarantasette anni dall’assassinio del compagno, ancora oggi tutto questo succede,

Tenere viva la memoria di Franco significa anche far sì che questo non accada più, significa lottare contro la militarizzazione e la criminalizzazione del dissenso che stiamo vivendo.

Significa lottare contro la violenza di stato che troviamo nelle piazze così come nelle carceri e in tutte le istituzioni.

Significa continuare a battersi affinché i fascismi non abbiamo spazio nelle nostre città.

Oggi come allora contro tutti i governi, contro tutti i fascismi, contro la repressione e la guerra.

E’ questo per noi il significato di commemorare, di avere memoria ed è proprio per questo ci ritroveremo lunedì 7 maggio dalle ore 16:00 in Piazza Serantini (S. Silvestro) e successivamente alle 17:45 andremo tutt al DLF—> https://www.facebook.com/events/283892209209545/

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Primo Maggio anarchico a Carrara

CARRARA, Primo maggio anarchico

ore 9.30 concentramento in piazza Battisti

ore 10 intervento dal palco di Federico Ferretti della Federazione Anarchica Italiana

ore 11 corteo per le strade del centro

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Moby Prince, 28 anni dopo: centoquaranta morti, nessun colpevole

Moby Prince, 28 anni dopo: centoquaranta morti, nessun colpevole

articolo pubblicato su Umanità Nova (umanitanova.org)

Varie centinaia di persone hanno attraversato il centro di Livorno lo scorso 10 aprile dietro allo striscione “Moby Prince: 140 morti, nessun colpevole”.

Il 10 aprile 1991, ventotto anni fa, appena uscito dal porto di Livorno, dopo aver mollato gli ormeggi alle 22:03, il traghetto Moby Prince diretto ad Olbia in Sardegna entra in collisione con la petroliera Agip Abruzzo. In seguito allo scontro si scatena un incendio in cui muoiono tutti i passeggeri e l’equipaggio, con un solo superstite. Le pessime condizioni di sicurezza in cui viaggiava la nave traghetto, di proprietà della Nav.Ar.Ma dell’armatore Onorato, la “non gestione” dei soccorsi da parte della Capitaneria di Porto di Livorno ebbero certo un ruolo determinante nella strage del Moby Prince, una delle più gravi stragi in mare e sul lavoro.

I familiari delle vittime in questi anni hanno lottato per la verità e la giustizia, contro insabbiamenti, manomissioni del relitto, depistaggi e minacce. La giustizia dello Stato in questi anni non solo non ha riconosciuto le responsabilità dell’armatore e delle autorità che avrebbero dovuto gestire i soccorsi, ma le ha coperte e tutelate. La commissione parlamentare d’inchiesta creata nel 2015 ha pubblicato nel gennaio 2018 una relazione finale che conferma quanto già emerso come verità nel corso degli anni dalla lotta condotta dai familiari delle vittime.

In occasione delle commemorazioni della scorsa settimana le associazioni dei familiari delle vittime hanno annunciato di aver presentato un esposto alla Procura di Livorno al fine di citare in giudizio i ministeri delle Infrastrutture e dei trasporti, della Difesa e la presidenza del Consiglio per omicidio plurimo aggravato con dolo eventuale e riaprire il caso.

Come ogni anno prima del corteo si è tenuta una cerimonia nella Sala consiliare del Municipio di Livorno, durante la quale sono intervenuti oltre ai rappresentanti delle associazioni, pure singoli familiari delle vittime del Moby Prince. Presenti anche con un intervento in sala gli esponenti dell’associazione dei familiari delle vittime della strage di Viareggio, ed è intervenuto anche Riccardo Antonini, ferroviere licenziato a causa del suo impegno per la sicurezza sul lavoro, proprio come consulente per i familiari di Viareggio.

Di seguito riportiamo l’intervento di Giacomo Sini, figlio di una delle vittime del Moby Prince e compagno del Collettivo Anarchico Libertario di Livorno.

“Sono passati 28 anni dall’ immane tragedia della Moby Prince che vide l’assassinio di mio padre ed altre 139 persone davanti alle coste della città di Livorno. Si, assassinio, perché le parole assumono un valore importante con il passare degli anni. Come “strage” al posto di “incidente”, “Negligenze e mancanze strutturali” al posto di “tragico errore umano”. “Coperture e depistaggi” al posto di “tragici errori della magistratura livornese” ed infine, ma non meno importante “Sicurezza” al posto di “distrazione dell’equipaggio”.

Quegli stessi anni nei quali le uniche verità trapelate ufficialmente dalla vicenda sono da riscontrarsi nei processi farsa, nelle manomissioni impunite del relitto del traghetto (ordinate chiaramente dallo stesso armatore della compagnia) ed un progressivo insabbiamento della tragedia. Anni nei quali abbiamo dovuto subire continui schiaffi ed offese da chi ha permesso che tale vicenda finisse nel dimenticatoio delle ufficialità, relegata in un angolo buio dei “non misteri italiani” lasciando che le parole “il fatto non sussiste” ed il “destino cinico e baro” mettessero un lucchetto definitivo alla vicenda.

Anni nei quali lo stato italiano, attraverso i suoi organi giudiziari ed in particolare nel processo in I°grado, ha voluto difendere a spada tratta gli interessi imprenditoriali di un armatore per quasi 30 anni, senza inserire la sua persona e le sue responsabilità tra i soggetti colpevoli diretti della vicenda. Anni nei quali lo stato non ha mai voluto permettersi il lusso di puntare il dito contro una sua istituzione di prim’ordine come la capitaneria di porto ed il suo apparato istituzionale, difendendone anzi l’operato e lasciando che questa potesse aprire, mediante plausibili responsabili del disastro, una commissione d’inchiesta sommaria che avrebbe influito su successivi accertamenti.

Anni nei quali chi voleva che non si facesse luce sulla strage del Moby Prince ha provato in ogni modo ad ostacolare chi ancora oggi continua a portare avanti la battaglia per la verità e la giustizia. Sono metodi ben noti, gli stessi usati per coprire le responsabilità delle stragi di stato e delle bombe fasciste. Sono gli stessi metodi usati per coprire le responsabilità di industriali e speculatori che per fare affari avvelenano ed uccidono la popolazione.

Anni nei quali si è costantemente parlato di una salvaguardia degli interessi dell’imprenditoria italiana e nella fattispecie di grandi padroni d’azienda, erogando incentivi e finanziamenti agevolati ad imprese produttive, menzionando poco la sicurezza sul posto di lavoro.

Anni nei quali sono stato assente durante svariate ricorrenze poiché per lavoro come fotogiornalista ho visto con i miei occhi e documentato il percorso di vita di chi fugge da conflitti, fame e cerca sicurezza altrove tentando spesso la via del mare. Proprio con loro e con chi ha perso amici e parenti nelle acque del mediterraneo o tra le reti di confine, ho condiviso paure, incertezze, dolori. Ho condiviso quel timore personale dell’orizzonte scuro tra le spiagge isolate della Turchia e della Grecia, comprendendo meglio quanta importanza abbia quella parola menzionata precedentemente, “sicurezza” ; perché è inconcepibile che ancora oggi si continui a morire in mare.

E’ bene ricordarsi che a causa di politiche d’ingresso in Europa altamente discriminatorie, che vedono nella “sicurezza” la propria base ideologica, migliaia di migranti sono morti davanti agli occhi di chi oggi continua imperterrito a riempirsi la bocca della necessità, ad esempio, di operare più attenzione a tale tema nei contesti di lavoro proprio all’interno dei porti ed in mare aperto. Quegli attori che con il susseguirsi dei governi grazie al continuo attacco ai diritti dei lavoratori ed ai conseguenti tagli in materia di sicurezza, strizzano sempre un occhio a chi continua ad uccidere per la salvaguardia del profitto con il beneplacito della giustizia italiana. Coloro che fanno un utilizzo criminale della frase “porti sicuri”. I porti sicuri sono solo quelli dove non si muore mentre si lavora, dove non si viene rinchiusi in un centro d’identificazione e d’espulsione o si viene torturati con la sola colpa di avere tentato un’odissea via mare cercando un qualsiasi approdo sicuro per potersi salvare la vita.

Argomentazione, quella intorno alla “sicurezza” che in Italia è divenuta centrale all’interno di un circolo propagandistico di ipocrisia che assume come suo punto significativo l’antitesi della propria essenza, come ad esempio la violenza dei respingimenti in mare, assumendo così un significato di morte. Una millantata sicurezza che per chi è riuscito a superare la barriera del mare diviene comunque secondaria, sopraffatta dal piombo dei razzisti che uccidono a sangue freddo nelle strade delle nostre città fomentati da una continua propaganda “d’odio securitario” istituzionalizzata. La sicurezza dei porti chiusi e delle responsabilità, che come nel 1991, oggi vengono invece rimbalzate tra Europa e governi nazionali sulle spalle di chi non è mai stato tratto in salvo.

Quella stessa sicurezza che attraverso vie giudiziarie tenta l’arresto e criminalizzazione di chi solidarizza attivamente con chi ha bisogno di un lido tranquillo dove potersi fermare, di chi va a salvare chi sta annegando, di chi gestisce spazi di libertà aperti a tutti, reprimendo così nella pratica coloro i quali ne manifestano un’idea reale ed universale.

Questi ultimi 28 anni sono anche quelli nei quali non è mai stata data una risposta concreta alle esigenze di verità arrivate con forza prorompente dalle nostre istanze e dalle nostre parole d’ordine supportate con solidarietà attiva da chi si è avvicinato al nostro dolore, da chi lo ha tramutato in lotta e solidarietà attiva. Una battaglia comune a difesa di chi il 10 Aprile venne ucciso dalla negligenza di vari apparati che trovarono successivamente rifugio in quel malato concetto di giustizia. Una mobilitazione continua a difesa di una ben precisa idea di giustizia e verità, affiche queste due parole non rimanessero solo slogan isolati, ma divenissero la battuta d’arresto per chi non ha a cuore la vita delle persone.

Battuta d’arresto che è arrivata infatti negli ultimi anni nei quali vi è stata una forte pressione per la costituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta. A mio avviso, a commissione parlamentare chiusa (e desidero ringraziare chi ne ha permesso la costituzione), credo sia quindi importante sottolineare un fattore. Dopo anni d’indifferenza da parte del governo centrale e dei suoi organi parlamentari silenti e dopo continue dichiarazioni ufficiali di rammarico per la vicenda lanciate nel vuoto, qualcosa negli ambienti istituzionali si è dovuto muovere. Come ogni battaglia storica per la conquista di determinati diritti sociali, è proprio grazie a quella costante pressione e quella determinazione nel portare avanti determinate battaglie, che possiamo dire d’essere arrivati a compiere un passo avanti rispetto alle vicende degli ultimi 28 anni. Ed oggi non ci fermiamo solamente alla commissione d’inchiesta. Come Loris Rispoli ricordava agli amici e parenti delle vittime di vigilare sui “resti” del treno per evitare manomissioni, oggi dobbiamo vigilare per non permettere a coloro che della sicurezza ne fanno un termine strumentale per promuovere politiche assassine che lasciano morire esseri umani davanti ai nostri occhi o non li permettono un attracco sicuro, di mettere i bastoni tra le ruote a chi del raggiungimento di una verità importante, della giustizia e della sicurezza di tutti ne fa un principio basilare per le lotte quotidiane.”

 

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A LORENZO/ORSO/TEKOŞER – “OGNI TEMPESTA COMINCIA CON UNA SINGOLA GOCCIA”

A LORENZO/ORSO/TEKOŞER, A TUTTI GLI INTERNAZIONALISTI E AI COMPAGNI COLPITI DALLA REPRESSIONE “OGNI TEMPESTA COMINCIA CON UNA SINGOLA GOCCIA”

articolo pubblicato su Umanità Nova n. 11 del 31 marzo 2019

Il 23 marzo è caduta l’ultima roccaforte dello Stato Islamico in Siria, Baghouz, lungo il vecchio confine con l’Iraq. Una vittoria costata molte vite, per cui sono cadute molte compagne e molti compagni. Solo pochi giorni prima, il 18 marzo, è stato ucciso proprio a Baghouz Lorenzo Orsetti, anarchico fiorentino di 33 anni, caduto con un’unità araba in un’imboscata durante un’operazione. Era membro della formazione Tekoşîna Anarşîst (Lotta Anarchica) sotto il nome di Tekoşer Piling.

Domenica 31 marzo ci sarà una manifestazione nazionale a Firenze, con ritrovo alle ore 15 in Piazza Leopoldo, a Rifredi. Gli anarchici saranno presenti per commemorare Lorenzo, anarchico, combattente per la libertà.

Lorenzo non è il primo internazionalista italiano caduto in questo conflitto, già Giovanni Francesco Asperti, 53 anni di Bergamo, combattente nelle YPG con il nome di Hîwa Bosco, era morto in Rojava per un incidente il 7 dicembre 2018. Tuttavia è il primo ucciso in combattimento, come giovane partigiano e rivoluzionario. L’assemblea che il 19 marzo si è tenuta al circolo Le Panche di Rifredi, a Firenze, era carica di tutta la forza e la gravità di questa morte, che pone nella quotidianità della nostra vita e nella nostra azione collettiva una vicenda e una prospettiva che normalmente appare lontanissima nel tempo e nello spazio ma che è invece presente qui e ora. Come con migliori parole durante l’assemblea ha detto anche suo padre, Lorenzo non combatteva per i curdi, non ha cercato una causa lontana da sostenere. Lottava perché aveva degli ideali, perché voleva una rivoluzione profonda della società in cui viviamo, e nell’esperienza rivoluzionaria avviata tra l’Anatolia e la Mesopotamia aveva riconosciuto i propri ideali di giustizia, eguaglianza e libertà, lottava quindi per la rivoluzione in tutto il mondo, anche qui.

Non conoscevo purtroppo Lorenzo, non lo ho mai incrociato nonostante fossimo quasi coetanei e non vivessimo neanche a cento di chilometri di distanza, anche per questo non descriverò il carattere umano e politico di questo compagno, perché sicuramente potranno farlo meglio coloro che hanno avuto la gioia di conoscerlo.

In molti però possiamo riconoscerci nelle sue parole, nei suoi ideali, nell’aspirazione comune alla libertà. Dobbiamo però essere coscienti che il suo esempio ci pone di fronte alla necessità di mettere tutto in discussione. La rivoluzione sociale è l’unica alternativa alla guerra fratricida, al fascismo, alla schiavitù e all’oppressione, in Kurdistan come in Europa e nel resto del mondo. Non deve essere la morte di un compagno a ricordarcelo.

Per quello che ho saputo Lorenzo prima di partire non era militante di un gruppo, non faceva attività politica all’interno del movimento. Aveva degli ideali. Nel suo impegno in Rojava e in Siria si dichiarava apertamente anarchico, e faceva parte di una formazione anarchica, per questo è importante che sia ricordato anche per le idee che rivendicava nella sua lotta.

L’internazionalismo non è sostenere una causa lontana, ma è solidarietà rivoluzionaria. L’internazionalismo si pratica in molte maniere, a vari livelli, la scelta di Lorenzo è uno dei modi in cui si può praticare la solidarietà internazionalista. Internazionalismo significa riconoscere che in un mondo governato da proprietari e privilegiati le cause materiali dello sfruttamento e dell’oppressione ovunque sono le stesse, e per questo solo con la solidarietà globale è possibile la liberazione. Con questo spirito in molti hanno scelto di contribuire alla lotta condotta dalle popolazioni del Rojava e dalle YPG/YPJ. Lorenzo era giunto là “nell’autunno del 2017 – si legge nel comunicato della Rojava Internationalist Commune – per unirsi inizialmente alle YPG, combattendo con valore dal primo all’ultimo giorno nella difesa di Afrin, aggredita dallo stato fascista turco e dalle loro bande jihadiste. Ha anche preso parte alle unità internazionaliste di TKP / ML-TİKKO e infine è stato membro di Tekoşîna Anarşîst (Lotta Anarchica) inquadrata nelle forze democratiche siriane, durante l’offensiva contro lo Stato islamico culminata in questi giorni nella sconfitta militare del Califfato.” Sono infatti usciti comunicati sia di Tekoşîna Anarşîst, sia di TİKKO e sia di YPG che ne omaggiano la memoria.

Tra numerosi militanti di varie tendenze politiche sono molti i nomi delle compagne e dei compagni anarchici che hanno pagato con la vita il loro impegno in questa lotta. Anna Campbell Hêlîn Qereçox, Haukur Hilmarsson Sahin Husseini, Olivier François Le Clainche Kendal Breizh, Robert Grodt Demhat Goldman. Sono solo alcuni di questi.

Sono storie diverse, sul piano personale e politico, le loro scelte sono maturate in contesti diversi e in alcuni casi facevano riferimento a differenti correnti dell’anarchismo. Su molte cose sarebbero stati in disaccordo forse, ma certamente hanno tutti scelto di partire non solo e non tanto per combattere lo Stato Islamico, quanto per dare il proprio contributo ad un processo rivoluzionario.

Con l’assedio di Kobanê da parte dello Stato Islamico nel 2014 l’attenzione del mondo si è rivolta a quanto stava succedendo in Rojava. Un esperimento di autogoverno guidato dal Movimento di liberazione curdo, indirizzato dal Confederalismo democratico, contro la modernità capitalista, la guerra, gli stati-nazione, per una società libera, femminista ed ecologica in cui avessero spazio le diverse popolazioni che abitano la regione. Si iniziò a parlare molto della svolta del PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan passato dal maoismo al confederalismo democratico. Si paragonò la lotta per la difesa di Kobanê alla guerra per la difesa della Rivoluzione Spagnola nel 1936, dopotutto avvenne proprio nella data simbolica del 19 luglio l’insurrezione che portò le YPG/YPJ a controllare il Kurdistan occidentale in territorio siriano. La solidarietà a Kobanê dalla Turchia creò una situazione eccezionale. Quel confine, che come tutti gli altri non era altro che una convenzione tra stati per tenere divisi i popoli, stava crollando, era ormai evidente nonostante la massiccia presenza di soldati e carri armati turchi. Grazie alla mobilitazione di massa venivano forzati i blocchi imposti dalla Turchia, passavano profughi e volontari, passavano aiuti e delegazioni politiche. In quei giorni di settembre-ottobre del 2014 sembrava che la rivoluzione potesse estendersi a tutta la regione, contagiando innanzitutto la Turchia.

In questa fase divenne evidente il sostegno della Turchia, membro della NATO, allo Stato Islamico. Si avvia in Turchia una nuova stagione di terrorismo di stato, con le stragi di Suruç e Ankara, con la guerra e i bombardamenti portati nelle stesse città in territorio turco e il definitivo consolidamento di una dittatura informale. Nel 2017 si inasprisce la guerra in Siria. La Turchia invade il cantone di Afrin con l’appoggio di tutte le potenze mondiali e regionali, dimostrazione che il processo rivoluzionario è combattuto da tutti gli stati. In questo contesto la lotta diviene anche una guerra per la sopravvivenza.

La guerra è da sempre una delle principali armi degli stati contro i processi rivoluzionari. Le esigenze militari spesso divengono prioritarie rispetto al processo di trasformazione sociale e politica, e possono bloccarlo. Anche per questo molti anarchici e rivoluzionari di altre tendenze hanno cercato in Rojava di dare il proprio contributo specifico, per sostenere la rivoluzione di fronte al rischio di disorientamenti.

Gli anarchici, in modi diversi, sono stati presenti in questo processo fin dall’inizio. In Kurdistan, in Turchia e in Siria, così come nella solidarietà a livello globale. Spesso anche con posizioni autonome, in certi casi critiche. Consapevoli che lottare contro lo Stato Islamico significa lottare contro il fascismo, inteso come forza controrivoluzionaria, come regime che attraverso la violenza reazionaria assicura la penetrazione degli interessi capitalistici e imperialisti nella regione. Convinti che il contributo anarchico avrebbe favorito lo sviluppo del processo rivoluzionario.

Ora si apre una nuova fase dopo che il 23 marzo il comandante delle SDF (Forze Democratiche Siriane) Mazlum Ebdi ha annunciato la fine del dominio dello Stato Islamico in Siria. Gli USA che hanno opportunisticamente sostenuto le SDF in alcune fasi del conflitto hanno annunciato che abbandoneranno la Siria, mentre la Turchia minaccia di invadere dopo Afrin anche Kobanê e Qamişlo. Il rischio è che si riapra un conflitto ancora più duro, ma anche che accada come da noi dopo il 1945, che il sacrificio di Lorenzo Orsetti sia come quello di Lanciotto Ballerini. Ossia che nonostante l’alto prezzo pagato da compagne e compagni la prospettiva rivoluzionaria sia bloccata dalle forze imperialiste, dalle lotte per il potere e il controllo della regione, e che si riaffaccino sotto altre forme le medesime strutture oppressive.

Credo che la storia di Lorenzo ci ponga queste domande, ci chiede di prendere in mano la fiaccola e di continuare la sua lotta, che è anche la nostra, per la libertà, la giustizia, l’eguaglianza ovunque nel mondo.

Dario Antonelli

 

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Firenze 31 marzo – Spezzone anarchico al corteo per Lorenzo Tekoşer Orsetti

Spezzone anarchico al corteo per Lorenzo Tekoşer Orsetti

Domenica 31 Marzo a Firenze

ore 15 Piazza Leopoldo

In ricordo di Lorenzo Tekoşer Orsetti, anarchico, combattente per la libertà, gli anarchici saranno presenti al corteo che si terrà a Firenze il 31 marzo, con partenza alle ore 15 da Piazza Leopoldo, per la Giornata nazionale in memoria di Orso Tekoşer e per chi lotta per la libertà.

Lorenzo aveva scelto di unirsi alla lotta condotta dalle popolazioni del Rojava e dalle YPG/YPJ nel 2017, era membro della formazione Tekoşîna Anarşîst (Lotta Anarchica) sotto il nome di Tekoşer.
Nel suo impegno in Rojava si dichiarava apertamente anarchico, per questo importante che sia ricordato anche per le idee che rivendicava nella sua lotta.

Anarchici Toscani

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Presidio per Lorenzo Tekoşer Orsetti alla Lapide del Partigiano

Presidio per Lorenzo Tekoşer Orsetti alla Lapide del Partigiano

Venerdì 29 marzo – ore 17

Lapide del partigiano

Via Ernesto Rossi, Livorno

Presidio per ricordare il compagno anarchico Lorenzo Orsetti, ucciso a Baghouz il 18 marzo in un’imboscata dello Stato Islamico. Seguendo ideali di giustizia, libertà ed eguaglianza aveva deciso di unirsi alla lotta delle popolazioni del Rojava, prima nelle YPG, poi a fianco del TIKKO, infine nella formazione Tekoşîna Anarşîst (Lotta anarchica) con il nome di Tekoşer Piling.

Invitiamo a partecipare tutte e tutti coloro che vogliono ricordare il partigiano Lorenzo, il suo impegno internazionalista e rivoluzionario, la sua lotta per la libertà.

Vogliamo lanciare con questa iniziativa la manifestazione nazionale per Lorenzo Orsetti del 31 marzo a Firenze, con ritrovo in Piazza Leopoldo alle ore 15.

BSA Livorno, Collettivo Anarchico Libertario, Ex Caserma Occupata, Federazione Anarchica Livornese, Fdca Livorno

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In ricordo di Lorenzo Tekoşer Orsetti, anarchico, combattente per la libertà

In ricordo di Lorenzo Tekoşer Orsetti, anarchico, combattente per la libertà

Lorenzo Orsetti di Firenze è stato ucciso a Baghouz, vicino Deir Ezzor, il 18 marzo 2019. Purtroppo non lo conoscevamo, né conosciamo il suo percorso politico, ma ci riconosciamo nelle sue parole, nella comune aspirazione alla libertà e all’internazionalismo.
Aveva scelto di unirsi alla lotta condotta dalle popolazioni del Rojava e dalle YPG/YPJ nel 2017, aveva combattuto al fianco del Tikko nella difesa di Afrin, era membro della formazione Tekoşîna Anarşîst (Lotta Anarchica) sotto il nome di Tekoşer.
Nel suo impegno in Rojava si dichiarava apertamente anarchico, come testimoniano interviste e documenti. Per questo riteniamo importante che sia ricordato anche per le idee che rivendicava nella sua lotta.
 
Nell’esprimere solidarietà alla famiglia, ai suoi amici più prossimi, e ai suoi compagni, pensiamo che la cosa migliore in questo momento sia riportare direttamente le sue parole:
 
«Ciao, se state leggendo questo messaggio è segno che non sono più a questo mondo. Beh, non rattristatevi più di tanto, mi sta bene così; non ho rimpianti, sono morto facendo quello che ritenevo più giusto, difendendo i più deboli e rimanendo fedele ai miei ideali di giustizia, eguaglianza e libertà.
Quindi, nonostante questa prematura dipartita, la mia vita resta comunque un successo e sono quasi certo che me ne sono andato con il sorriso sulle labbra. Non avrei potuto chiedere di meglio.
Vi auguro tutto il bene possibile e spero che anche voi un giorno (se non l’avete già fatto) decidiate di dare la vita per il prossimo, perchè solo così si cambia il mondo. Solo sconfiggendo l’individualismo e l’egoismo in ciascuno di noi si può fare la differenza.
Sono tempi difficili, lo so, ma non cedete alla rassegnazione, non abbandonate la speranza; mai! Neppure per un attimo. Anche quando tutto sembra perduto e il mali che affliggono l’uomo e la terra sembrano insormontabili, cercate di trovare la forza e di infonderla nei vostri compagni. E proprio nei momenti più bui che la vostra luce serve.
E ricordate sempre che “ogni tempesta comincia con una singola goccia”. Cercate di essere voi, quella goccia.
Vi amo tutti, spero farete tesoro di queste parole. Serkeftin!
Orso
Tekoşer
Lorenzo»
 
Collettivo Anarchico Libertario
Livorno, 21 marzo 2019

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Corteo del 23 marzo a Roma: appello per spezzone anarchico

Fai la scelta giusta! Autogestione dappertutto!

Sabato 23 marzo si terrà a Roma la manifestazione per il clima e contro le grandi opere. Il Governo promette, attraverso le grandi opere, il rilancio dell’economia e di conseguenza occupazione e benessere per tutti. I sostenitori delle grandi opere, al governo e all’opposizione, si sono autonominati partito del SI’, contro i movimenti popolari diffusi in tutta Italia, che sarebbero il partito del NO: NO al TAV, NO al TAP, NO al MUOS, NO al Terzo Valico ecc…
 
In realtà è il Governo che, come quelli precedenti, attua una politica del NO: NO alla tutela del territorio, NO ai trasporti di prossimità, NO all’aumento dell’occupazione in settori come sanità e istruzione, NO a servizi sociali universali e gratuiti per tutti.
 
Da dove vengono i soldi per le grandi opere, visto che gli investitori privati sono restii a investire se non c’è la garanzia dello Stato? Vengono dalle tasche dei cittadini, sia direttamente, attraverso l’aumento delle tasse, sia indirettamente attraverso i tagli ai servizi sociali. Le grandi opere rappresentano una forma di assistenzialismo per ricchi, a danno dei poveri.
 
Paradigmatica è la vicenda del gasdotto TAP, che attraverserà tutta l’Italia da Brindisi a Milano. Mentre si finanziano le ricerche e i primi lavori della grande opera, le zone dell’Italia Centrale colpite dai terremoti restano abbandonate a sé stesse, i comuni dell’entroterra perdono scuole e presidi sanitari, in nome della razionalizzazione. A un territorio devastato la SNAM porterà un inutile megatubo, che sarà inoltre pagato a caro prezzo. L’Italia appenninica è un esempio dello sviluppo garantito dalle grandi opere: disoccupazione, miseria spopolamento, arricchimento per le multinazionali come la SNAM che beneficiano dei finanziamenti pubblici.
 
Le scelte del Governo mettono in crisi le illusioni di chi sperava che un diverso gruppo parlamentare potesse intaccare la lobby delle grandi opere. Ancora una volta, chi si presentava come diverso, come alternativo al sistema di potere, appena entrato nella stanza dei bottoni si è piegato alle compatibilità del sistema: questo governo, come i precedenti, drena risorse pubbliche per gli interessi delle grandi società amiche.
Lo stesso governo aumenta la spesa di guerra, le missioni militari all’estero, la militarizzazione del territorio: niente soldi per gli ospedali, ma grandi sovvenzioni a polizia e carabinieri.
Il ministro dei trasporti Toninelli ha detto Si al Terzo Valico ma ha chiuso i porti per profughi e migranti.
 
Ancora una volta, la strada elettorale ha diviso e indebolito i movimenti di lotta.
 
Gli sfruttati, i movimenti di opposizione possono vincere solo se fanno paura, se mettono in pericolo l’ordine pubblico. L’unico limite all’arbitrio del Governo, per le grandi opere e in ogni altro campo, è la forza che i movimenti popolari dimostrano di sapergli opporre.
 
La manifestazione di Roma del 23 è importante, perché supera la dimensione locale e pone la questione delle grandi opere a tutte le persone, a tutti i movimenti sociali, come questione generale del tipo di società in cui vogliamo vivere, e come questione immediata legata alla sopravvivenza dei territori, che non vogliono essere sacrificati alla logica del profitto del capitalismo e all’oppressione governativa. Non possiamo credere di vincere con la semplice resistenza. Mai come oggi il resistenzialismo è una strategia di sconfitta.
 
La logica di sviluppo che giustifica le grandi opere è la stessa che provoca il cambiamento climatico. É la logica del capitalismo che mira al profitto costi quel che costi, da cui deriva miseria materiale e morale per la stragrande maggioranza della popolazione, e devastazione e saccheggio per l’ambiente. E’ la logica di potere dei governi che genera la violenza della guerra ai poveri, agli immigrati, a chi si oppone, agli anarchici.
Le catastrofi non hanno niente di naturale, non colpiscono tutti alla stessa maniera. Il cambiamento climatico e la mancanza di sicurezza dei territori ricade sempre sugli stessi, quelli che, magari a livello individuale, fanno una “buona pratica ecologista”.
 
Diciamo NO a chi pone il ricatto del lavoro a contrapposizione di chi difende la Salute e il Territorio
 
Dobbiamo passare all’attacco. La questione non si esaurisce con una valutazione sulla utilità o il danno di TAP, TAV, ecc. Dobbiamo impedire che padroni e governanti siano arbitri delle nostre vite e del nostro futuro. Solo l’azione diretta, il rifiuto della delega e l’autogestione dei territori possono inceppare una macchina che macina le vite di tanti ed il futuro di tutti.
 
Il nostro futuro, il futuro del pianeta passa anche per le nostre scelte individuali. Per questo facciamo appello ad ognuna ed ognuno che il 23 faccia la scelta giusta, scenda in piazza e lotti!
 
Il 23 marzo al corteo che si svolgerà a Roma ci sarà uno spezzone anarchico.
 
PARTECIPIAMO!
 
La Commissione di Corrispondenza della Federazione Anarchica Italiana
 
www.federazioneanarchica.org
 
Ritrovo per partenza corteo ore 14.00 piazza Esedra, arrivo in P.zza San Giovanni. A fine corteo per i compagni e le compagne dello
spezzone rossonero che non ripartono subito ci si trova allo Spazio Anarchico 19 Luglio in via Rocco da Cesinale (Garbatella) per una cena sociale.

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In ricordo di Renato Spagnoli

La Federazione Anarchica Livornese esprime cordoglio per la scomparsa di Renato Spagnoli.

Negli anni sessanta Renato dette vita, all’interno della sede della Federazione Anarchica Livornese, ad una interessante esperienza di avanguardia artistica, il gruppo Atoma, insieme, fra gli altri, a Mario Lido Graziani, Renzo Izzi, Giorgio Bartoli e Renato Lacquaniti. Nel corso degli anni Renato ha sempre rappresentato un punto di riferimento artistico importante e innovativo ed ha mantenuto un rapporto di affetto con gli anarchici livornesi.

Negli anni ’70 del secolo scorso mise a disposizione il suo talento artistico per la solidarietà ai compagni ingiustamente incarcerati per la Strage di Stato, partecipando alla mostra “Gli artisti contro la Strage di Stato”, organizzata dai Gruppi Anarchici Toscani.

Ricordiamo l’artista e la persona che ha saputo mostrare con le sue scelte, spesso operate in modo collettivo, il forte legame tra creatività, pensiero rivoluzionario e spirito di libertà.

Federazione Anarchica Livornese

[immagine di Flavio Costantini, utilizzata per l’opuscolo della mostra “Gli artisti contro la Strage di Stato”]

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Vogliam la libertà – Né Dio, Né Patria, Né Famiglia

documento del Gruppo di lavoro 8 marzo della FAI

Vogliam la libertà – Né Dio, Né Patria, Né Famiglia

L’anarchismo non può che essere antisessista e nemico del patriarcato, perché l’eliminazione di ogni relazione di dominio, di ogni esclusione dai processi decisionali, di ogni negazione delle differenze sono suoi elementi costitutivi.
 
Non c’è un solo femminismo. Alcuni sono estranei ad un approccio libertario, che avversa ogni identità escludente. Il femminismo della differenza non mira a spezzare la gerarchia ma solo a capovolgerla, nell’immaginario e nelle relazioni sociali. Questo femminismo è intimamente autoritario perché punta alla conquista del potere, valorizzando le gerarchie al femminile senza intaccare il dominio. È un femminismo che ignora le periferie del mondo, dove sui corpi asserviti nel nome della razza e del genere si combattono guerre senza esclusione di colpi.
 
Il transfemminismo intersezionale, che in questi anni è dilagato per il pianeta, scaturisce dalla percezione dell’estrema violenza della reazione patriarcale ai percorsi di libertà delle donne e di tutte le soggettività non conformi.
 
Contro le donne è in atto una guerra, che mira alla distruzione degli itinerari di libertà ed autonomia che hanno contrassegnato gli ultimi decenni. Questa guerra durissima, nella quale ogni giorno, in ogni dove ci sono morte, ferite, prigioniere ha dato slancio ad un femminismo che sa bene che la posta in gioco è alta, che niente è per sempre, che la lotta al patriarcato è necessaria per ogni reale trasformazione verso la libertà e l’uguaglianza.
 
Il femminismo intersezionale, cogliendo l’intreccio tra il patriarcato e le altre forme di dominio, si pone come uno degli snodi di una critica e di una lotta radicali alle relazioni politiche e sociali in cui siamo forzat* a vivere.
 
 
L’anarcofemminismo si costituisce nell’intreccio tra questi percorsi, facendo leva sulla critica transfemminista agli stereotipi di genere nella prospettiva di un superamento delle identità precostituite, imposte, rigide.
 
L’anarcofemminismo si nutre anche, e non secondariamente, della consapevolezza che un femminismo rivoluzionario deve tagliare definitivamente il cordone ombelicale che troppo a lungo lo ha legato alla retorica dei diritti e delle tutele, tipica della sinistra statalista.
 
La critica femminista deve liberarsi dalla fascinazione dell’istituito e sottrarsi al pantano welfarista. Chi delega allo Stato la propria libertà lascia che sia lo Stato a determinarne possibilità, estensione, modi.
Salute, istruzione, servizi è possibile ed auspicabile che comincino ad essere sottratti al controllo statale, dando forza alla spinta all’autonomia reale che emerge dai movimenti e dalle individualità e che può aprire la via ad un processo di rottura rivoluzionaria.
 
Non solo. Nella forma attuale dello scontro sociale la pratica dell’autogestione è non solo possibile ma necessaria: è tramontata l’epoca dei compromessi e degli ammortizzatori. Il disciplinamento delle donne, in primis quelle povere, è parte del processo di asservimento e messa in scacco delle classi subalterne. Anzi, ne è uno dei cardini, perché il lavoro di cura non retribuito è fondamentale per garantire una secca riduzione dei costi della riproduzione sociale.
 
 
La cultura patriarcale esercita il proprio dominio attraverso la repressione anche sessuale: un filo rosso sangue lega a nodi stretti il patriarcato alla cultura dello stupro. Lo stupro non è una violenza incidentale ma politica, strutturale, terribilmente “normale”. Figlio legittimo della nostra società sostanzia la frattura e segna il destino delle donne, degli uomini e dei loro corpi. La narrazione patriarcale dà all’uomo il ruolo di protettore/liberatore/aggressore – nel senso di procacciatore di spazio vitale – ed alla donna quello di madre/riproduttrice/vittima. In guerra il corpo delle donne diventa un confine biopolitico cruciale, un campo di battaglia dove il maschio aggressore impone il suo dominio con tutta la sua forza e porta un attacco contro il futuro riproduttivo della nazione. La propaganda bellica fa della violazione del corpo femminile un oltraggio estremo alla domesticità ponendo l’enfasi sulla sicurezza e la sacralità della vita familiare. Lo stupro diventa un forte monito per l’uomo affinché assuma il proprio ruolo di guida in un modello di famiglia gerarchica in cui la donna è una creatura debole da dominare e proteggere.
 
Gli stupri di guerra, in molti casi autorizzati ed incoraggiati dalle gerarchie militari, si rivelano strumenti formidabili di genocidio e frantumazione dell’identità di intere popolazioni o etnie.
 
L’elenco delle guerre in cui lo stupro è stato arma potente con cui abbattere l’identità maschile del nemico è lunghissimo. Gli stupri delle armene durante la deportazione genocida iniziata nel 1915, la Bosnia degli anni Novanta o la Ciociaria nel 1945 sono solo esempi di una pratica di dominio, che comincia con l’asservimento delle donne. Anche le missioni di pace sono state segnate da innumerevoli torture sessuali da parte di caschi blu ONU e altri militari “umanitari.” Nel 1992 i parà della Folgore in missione di “pace” in Somalia si distinsero in violenze e stupri.
 
Anche in Italia l’esercito è stato utilizzato nelle nostre strade e la difesa delle donne è stata uno dei pretesti usati per imporre un’ulteriore militarizzazione del territorio. La storia di Rosa, torturata e stuprata all’Aquila da Tuccia, un militare dell’operazione “Strade Sicure”, è emblematica di quali partite di “civiltà” si giochino sui corpi delle donne e delle identità non conformi. La storia di Rosa, purtroppo, è solo una tra tante.
 
Viviamo tempi grami. Potenti gruppi identitari e nazionalisti danno voce alle paure di chi sa che anche nel nord ricco del pianeta ci sono persone senza futuro né prospettive. I movimenti il cui fulcro sono patria, bandiera, famiglia, frontiera offrono un appiglio simbolico che si nutre di identità escludenti, si fanno forti nella negazione violenta dell’altro, che diviene nemico.
 
Stranieri, migranti, profughi sono i nemici che vengono da fuori, i poveri il cui presente potrebbe divenire il nostro futuro. Le donne sono il nemico interno: il loro asservimento è necessario alla riaffermazione della famiglia, nucleo politico ed etico del patriarcato alle nostre latitudini.
 
La famiglia nella sua materialità è l’incubatrice di infinite violenze di genere, luogo “privato”, separato dalla sfera pubblica: non per caso le politiche sociali dei governi di ieri e di oggi mirano ad un forte rilancio della famiglia. La crisi economica, la crescita della disoccupazione e della precarietà lavorativa, i tagli della spesa sociale provocano una perdita di autonomia economica. La famiglia diventa sempre di più il luogo dove convergono il reddito di sopravvivenza e l’assolvimento delle necessità quotidiane.
 
Il rafforzamento della famiglia comporta una riproposizione marcata dei ruoli tradizionali e della morale sessista, che si traduce in una politica a tutto campo in cui convergono sia le forze tradizionaliste reazionarie (Chiesa cattolica, omofobi, fascisti), sia precise politiche governative, sia iniziative paraistituzionali (vedi mozioni presentate in diversi comuni contro la 194).
 
Il rinnovato familismo, nonostante la matrice ultrareazionaria, ha un andamento trasversale: la famiglia è la fortezza intorno alla quale si pretende di ri-fondare un ordine politico e sociale gerarchico ed escludente. A sinistra come a destra, da chi la vorrebbe estesa alle coppie omosessuali a chi la vuole modellata sulla “sacra famiglia.”
In famiglia avvengono quasi l’80% delle violenze denunciate: è quindi una relazione sociale che genera costitutivamente violenza, perché modellata sulla cultura patriarcale di cui la famiglia è cardine. É una struttura gerarchica, fondata sul dominio del corpo, su identità rigide e sulla divisione del lavoro su base sessuale.
Chi cerca di sfuggire ai ruoli imposti altera l’equilibrio, mette a rischio l’ordine sociale. La famiglia è una garanzia di stabilità per i governi che fanno a gara per affermare il valore della fortezza domestica.
 
Le politiche sociali dei vari governi sono state caratterizzate da interventi che trattavano come un tutto unico la donna e la famiglia, perché nella cultura patriarcale la donna è concepita solo come elemento del nucleo familiare. La politica regolata sulla cultura patriarcale non considera la donna come essere indipendente, la inquadra invece sempre all’interno della vita domestica. Il reddito femminile non è concepito come forma di autonomo sostentamento, ma come reddito accessorio, di supporto all’economia familiare, anche quando, sempre più spesso, le donne sono single o separate. Il piano rivendicativo – debolissimo – sostenuto anche da varie organizzazioni sindacali, punta sempre alla conciliazione di tempi lavorativi e tempi da dedicare alla famiglia.
Vanno in questa direzione misure come l’incentivo al part-time, la diffusione dei contratti atipici, particolarmente intensa in un settore fortemente precarizzato come quello del lavoro femminile, il telelavoro, la flessibilità nel congedo per maternità, il welfare aziendale.
La donna lavoratrice si porta dietro la zavorra di moglie-mamma-nuora-figlia-badante anche quando è al lavoro. Il suo ruolo familiare non decade mai. Il divario retributivo tra uomini e donne che svolgono la stessa mansione ancora esiste in molti settori lavorativi. Ci sono economisti che giustificano il gender gap in base ad una supposta minore produttività delle donne, che andrebbero a lavorare come secondo lavoro, dopo quello di cura familiare. Anche se in molti tentano di sminuirla se non negarla, la disparità di genere legata alla retribuzione è reale, come testimonia anche l’ultimo rapporto sul Gender Gap dell’Unione Europea in cui si sostiene, facendo riferimento solo all’emerso, che “la discriminazione è ancora pervasiva sul lavoro: una donna può essere pagata meno di un uomo per lo stesso lavoro”.
 
Ogni anno vengono diffuse statistiche, dal Gender Pay Gap ai dati ISTAT, che “certificano” questa disparità. Le donne, pur essendo la maggioranza come popolazione, sono più numerose degli uomini tra i neet, ossia quelli che non lavorano, non studiano e non cercano lavoro. Le donne che un lavoro lo cercano hanno meno opportunità di trovarlo e quando lo trovano sono pagate meno a parità di mansioni.
La differenza del salario medio tra uomini e donne in Italia è del 10,4%, come dire che le donne prendono, mediamente all’anno, cinque settimane di paga in meno degli uomini. Questi dati dimostrano che nell’immaginario sociale le donne sono ancora legate alla funzione di cura, e ben poco conta la loro autonomia individuale.
 
 
Le politiche familiste dei governi hanno un raggio d’azione assai ampio, che non si limita all’ambito dell’occupazione. Basta guardare le campagne demografiche lanciate dal governo passato e riprese, in perfetta sintonia, da quello attuale. All’ombra di Renzi la ministra Lorenzin lanciò il fertility day per contrastare la decrescita demografica, cercando di colpevolizzare, con una campagna pubblicitaria vergognosa, le donne che non fanno figli sottraendosi, per scelta o per necessità, al proprio “compito” biologico.
 
Il governo attuale tra i suoi primi atti ha riproposto il Patto per la natalità, dove si sostiene che “in ballo c’è il destino di una nazione”. Con toni che richiamano la dittatura fascista e l’enfasi mussoliniana la riproduzione è indicata come dovere sociale per la vita nazionale, compito/destino della donna fattrice, che deve fare figli per la patria.
Nel contratto di governo sono state messe insieme, come questioni di emergenza sociale, le donne, gli anziani e le periferie. Il governo gialloverde, declinando in versione ultrareazionaria politiche già impostate, ha inaugurato il suo mandato attivando il ministero della famiglia e della disabilità, affidato al leghista Fontana, noto per le iniziative antiabortiste, omofobe ed antigender. il ministro Fontana, inoltre, è promotore per il prossimo 30 marzo a Verona del Congresso mondiale della famiglia dell’Iof (International Organization for the Family). Vi parteciperanno esponenti dell’ultra destra fascista europea, tra cui il ministro dell’Interno Italiano.
 
 
Nello scorso autunno la recrudescenza delle politiche familiste si è fatta sentire in modo marcato. Il Disegno di legge Pillon, duramente contestato, non è ancora andato in porto, ma nemmeno è stato ritirato e rappresenta un incredibile attacco al divorzio, con una drastica revisione dell’affido dei figli e dell’assegno di mantenimento. Nel mirino in particolare le donne, elemento economicamente più fragile, per le quali gli ostacoli alla separazione in molti casi sono anche dei limiti alla possibilità di uscire da situazioni di maltrattamenti e violenza.
 
Le iniziative antiabortiste e pro-life hanno trovato spazio crescente nelle sedi istituzionali, come dimostrano le varie mozioni presentate nei consigli comunali e la legge di bilancio 2019 approvata a fine anno. Questa legge ha alcune misure degne di nota. Il reddito di cittadinanza, tra le altre nefandezze che lo caratterizzano, è pensato su base rigorosamente familista, prendendo come riferimento il nucleo familiare anziché la singola persona, in continuità con il suo immediato predecessore, il REI (reddito di inclusione) di renziana memoria. Ma c’è di più: la legge di bilancio prevede, in un delirio neofeudale che lega persona e terra, la concessione gratuita per venti anni di terre demaniali per chi si impegna a fare il terzo figlio entro il triennio 2019-20-21. Si modifica inoltre il congedo di maternità, “consentendo” alle donne incinte di lavorare fino al giorno del parto e riversare i mesi di astensione nel periodo post-partum: una scelta che per tante sarà obbligata, una politica familista gravissima che sposta l’asse dalla tutela della salute della donna alla cura della prole.
 
 
Questo ed altro si fa in nome del patriarcato. Del resto siamo il paese in cui fino al 1956 il capofamiglia deteneva lo ius corrigendi, il diritto di correggere i comportamenti di moglie e figli anche con la “coazione fisica”, dove le disposizioni sul delitto d’onore permangono fino al 1981. Non è solo una questione che si risolve modificando le norme. Di fronte al permanere radicato della cultura patriarcale, di cui sessismo e familismo sono le esplicitazioni sociali e politiche, di fronte alla cultura dello stupro che ancora pretenderebbe di dominare le nostre vite, s’impone, ora più che mai, di affermare in tutte le forme possibili la costruzione e la pratica della libertà.
 
Siamo contro la famiglia, per gli stessi motivi per cui siamo contro lo stato e tutte le religioni. Le nostre vite, le nostre relazioni non si lasciano rinchiudere in un gabbia normativa voluta dalla chiesa o dal governo.
 
Il femminismo libertario ed anarchico si fonda su una critica radicale dell’istituito, perché ciascun* percorra la propria esistenza con la forza di chi si libera da obblighi e catene.
 
Lo sguardo femminista è indispensabile in un processo rivoluzionario che punta al sovvertimento in senso anarchico di un ordine sociale e politico basato sull’oppressione, lo sfruttamento, la guerra, la negazione delle differenze.
 
Il percorso di autonomia individuale si costruisce nella lotta contro le regole sociali imposte dallo Stato e dal capitalismo. Relazioni libere, plurali, egualitarie si rinforzano nella pratica della solidarietà e del mutuo appoggio.
 
Gruppo di Lavoro “8 marzo” della Federazione Anarchica Italiana
documento pubblicato su Umanità Nova n. 8 del 10/03/19

Umanità nova si può trovare a Livorno:

Edicola P.zza Grande (angolo via Pieroni)
Edicola Via Garibaldi 7
Edicola P.zza Damiano Chiesa
Edicola Porto (Piazza Micheli lato Quattro Mori)
Edicola viale Carducci angolo Viale del Risorgimento
Edicola Dharma – viale di Antignano
Bar Dolcenera via della Madonna 38
Pub “Birra Amiata House” – via della Madonna, 51
Federazione Anarchica Livornese – via degli Asili 33

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