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PRESIDIO – MANIFESTAZIONE : 4 NOVEMBRE CONTRO TUTTE LE GUERRE

BASTA GUERRE!
BASTA MILITARIZZAZIONE DEL TERRITORIO!

Venerdì 4 novembre
piazza GRANDE – ore 17.30
PRESIDIO-MANIFESTAZIONE

Il 4 novembre in Italia è la “Festa delle Forze Armate”, che celebra la “vittoria” della Prima Guerra Mondiale. Solo in Italia morirono oltre 600 mila soldati e oltre 500 mila civili per gli interessi della monarchia e dei circoli finanziari e militari ad essa legati. La retorica dell’unità nazionale fu usata per giustificare questo massacro. Moltissimi furono i disertori, i fucilati e coloro che espressero un deciso rifiuto della guerra. Da sempre una giornata di propaganda guerrafondaia che spesso coinvolge anche le scuole. Oggi più che mai non c’è niente da festeggiare. La guerra in Ucraina a cui l’Italia partecipa come cobelligerante, inviando armi e denaro, ma anche schierando truppe e mezzi militari ai margini del conflitto, crea una inaccettabile escalation militare con ripercussioni pesantissime anche qui: dall’aumento della propaganda militarista nelle scuole, allo sfruttamento massiccio dei territori per scopi militari, all’economia di guerra che viene imposta e che si traduce sempre più in carovita insostenibile, taglio dei salari, dell’occupazione e delle spese sociali.

fermare la guerra innescata e alimentata dau governi di ogni schieramento, sia da quelli legati a Putin e che da quelli legati alla NATO

fermare le guerre diffuse in tutto il mondo, che alimentano povertà, predazione di risorse, migrazioni forzate

bloccare l’invio di armi, l’aumento delle spese militari, il rifinanziamento delle missioni militari

impedire la costruzione della nuova base militare a Coltano, l’ampliamento di Camp Darby e la crescente militarizzazione del territorio

opporsi alla crescente presenza degli ambienti militari nelle scuole, perché le pratiche militari non devono interferire con l’educazione scolastica, formativa, e di sviluppo del libero pensiero degli alunni e degli studenti

rifiutare la propaganda bellica, rifiutare le retoriche patriottiche, rifiutare l’esaltazione della morte e delle stragi, a partire da iniziative di lotta il prossimo 4 novembre

costruzione dello sciopero generale del 2 dicembre contro la guerra, il carovita e l’economia di guerra

esprimere solidarietà alle popolazioni colpite dalle guerre e sostegno ai disertori e a coloro che rifiutano le logiche dei loro governi

In una situazione gravissima come quella che stiamo vivendo l’opposizione alla guerra, per essere reale ed efficace, deve avere obiettivi chiari, precisi e non generici

Coordinamento cittadino per il ritiro immediato delle missioni militari italiane all’estero

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Striscione a Livorno: SOLIDARIETÀ AI DISERTORI RUSSI E UCRAINI BASTA GUERRE!

SOLIDARIETÀ AI DISERTORI RUSSI E UCRAINI
BASTA GUERRE!
Oggi abbiamo voluto lanciare con uno striscione un chiaro messaggio di solidarietà e internazionalismo contro la guerra
Ogni giorno vediamo le conseguenze devastanti della guerra iniziata con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia lo scorso 24 febbraio. Morte e distruzione per chi vive nelle terre direttamente coinvolte nel conflitto, mentre paura, miseria, autoritarismo, militarismo divengono la normalità nel resto del continente. È importante rispondere alla chiamata di coloro che dal cuore del conflitto cercano di opporsi alla guerra o quantomeno di sottrarsi al massacro. In Russia centinaia di migliaia di persone hanno lasciato il paese per sfuggire alla chiamata alle armi, i casi di diserzione aumentano, proteste e sabotaggi continuano nonostante la repressione. In Ucraina la legge marziale impedisce da oltre sette mesi agli uomini tra i 18 e i 60 anni di lasciare il paese, e il rifiuto della guerra è l’unico terreno su cui si è costruita negli ultimi mesi in Ucraina un’autonomia della classe lavoratrice. Lo si vede nelle spontanee iniziative di mutuo appoggio per sfuggire all’arruolamento forzato nelle strade, così come nella richiesta di apertura dei confini per tutti coloro a cui è negata la possibilità di uscire dal paese perché considerati adatti all’arruolamento.
SOLIDARIETÀ AI DISERTORI RUSSI E UCRAINI
BASTA GUERRE!
Federazione Anarchica Livornese

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Guerra e Gas: incontro venerdì 14 a Pisa a Scienze Politiche

Domani a Pisa a Scienze Politiche un’iniziativa organizzata da Aula R Pisa e dal Circolo Anarchico di Vicolo del Tidi per confrontarsi sulle prospettive antimilitariste nella situazione attuale

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Strage della Moby Prince: ANCORA VERITÀ IGNORATE

Strage della Moby Prince:

ANCORA VERITÀ IGNORATE

[articolo tratto dal settimanale anarchico Umanità Nova n. 22 del 9 ottobre 2022]

A metà settembre la seconda commissione parlamentare di inchiesta sulla strage del Moby Prince si è sciolta ed ha reso noti i risultati parziali delle proprie indagini. Lo scioglimento è dovuto al fatto che si tratta di una commissione monocamerale, e non bicamerale come chiesero a tempo debito le associazioni dei familiari delle vittime, destinata quindi a sciogliersi con l’esaurirsi della legislatura, cosa che è avvenuto a causa delle elezioni del 25 settembre.

La vicenda del Moby è considerata il maggiore disastro della marina mercantile italiana. Noi la consideriamo una strage che vede responsabilità precise. Il 10 aprile del 1991 la collisione di un traghetto della Navarma e di una petroliera Agip determinò un incendio in cui persero la vita 140 persone. Il tutto avvenne in una serata primaverile, alle 22, nella rada del porto di Livorno, a poche miglia dalla costa.

Da oltre 30 anni i familiari delle vittime e i soggetti che li hanno sempre sostenuti si battono contro la tesi della tragica fatalità, puntando l’indice suuna situazione oggettiva, di incontrovertibile evidenza: la mancanza di sicurezza della Moby, l’impianto antincendio disattivato, il sistema radar e

radio malfunzionanti, il portellone di prua non chiuso.

Da una parte una nave che non doveva viaggiare, con una responsabilità chiara, ascrivibile in primo luogo all’armatore Onorato. Dall’altra parte una altrettanto chiara responsabilità delle autorità della Capitaneria di Porto, in particolare del comandante Albanese, che non seppero e non vollero gestire i soccorsi. In mezzo 140 persone lasciate a morire.

I processi che si sono succeduti in questi anni hanno sempre ignorato questa lampante evidenza. La verità giudiziaria è che per questi 140 morti non c’è nessun colpevole. Un insulto. La verità gridata dall’associazione delle vittime dei familiari è un’altra. In questi anni è stato condotto un lavoro lucido e determinato, sono stati costruiti collegamenti solidi con altre associazioni che pretendono la verità su altre stragi, su altre morti, tutte determinate, come nel caso della Moby, dalla ricerca di profitto e dalla noncuranza verso le più elementari norme di sicurezza, non certo da tragica fatalità: a Viareggio come a Pioltello, come a Casale Monferrato, come alla Thyssen di Torino. Perché di questa storia si deve continuare a parlare.

Perché una verità esiste, come esistono delle chiare responsabilità. Eppure periodicamente sulla vicenda del Moby escono ricostruzioni sensazionalistiche: l’ipotesi di esplosivo a bordo per un fantomatico attentato, la presenza top secret di navi militari statunitensi legate alla base militare

di Camp Darby, il traffico clandestino di navi nel porto etc.

La seconda commissione parlamentare di inchiesta appena scioltasi ha dato il suo contributo in termini di scoop, affermando, per bocca del suo presidente Andrea Romano, che la rotta della Navarma fu tagliata da una terza nave lì presente, probabilmente un’imbarcazione somala legata ai traffici di armi e rifiuti tossici tra Italia e Somalia, quelli su cui all’epoca indagavano anche Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Ancora una volta si cerca la spiegazione sensazionalistica per una vicenda chiarissima. In questa vicenda più che misteri da svelare ci sono fatti e responsabilità già evidenti, che il sensazionalismo giornalistico contribuisce a lasciare nell’ombra. E ci siamo stancati.

E poi quale sarebbe la notizia straordinaria?

Nella storia di questo paese i traffici illeciti, l’affarismo, le stragi e i disastri determinati dagli interessi economici e politici, così come le trame eversive pianificate ad alto livello, rappresentano qualcosa di ordinario che attraversa le vicende di molte stagioni più o meno recenti. E’ assurdo che in questa ordinarietà si voglia ricercare l’eccezionalità, l’elemento clamoroso. Se l’Italia traffica in armi è comprensibilmente ordinario che in mare si trovino imbarcazioni di trafficanti, più o meno istituzionali. Eppure tutto questo viene elevato ad evento sensazionale.

Meno sensazionale, nella sua verità, è ciò che è sicuramente avvenuto per la strage del Moby come di molte altre, diverse ma tremendamente simili, in cui la mancanza di sicurezza, l’incuria, il disprezzo delle più elementari misure di tutela e delle vite umane sono elevate a sistema ordinario, governato dal profitto. Un sistema ordinario che miete vittime determinando incidenti sul lavoro, incidenti ferroviari, incidenti in mare. Stragi.

Questa enorme ordinaria mancanza di sicurezza non viene minimamente considerata. Non lo è nel quotidiano che tutti ben conosciamo, non lo è nelle indagini che da anni si protraggono sulla vicenda del Moby fra archiviazioni, prescrizioni e riaperture di indagini dovute solo alla perseveranza dei familiari delle vittime.

Con rabbia ci siamo trovati ad ascoltare le parole di Andrea Romano con cui si cerca, ancora una volta, di dare una spiegazione eccezionale alla strage del Moby Prince, di fare apparire straordinario ciò che costituisce un sistema ordinario fatto di traffici sporchi che si svolgono sui mari; traffici di merci, di armi, di persone. Vicende che sappiamo essere ordinarie. L’altro ordinario, non certo sensazionalistico ma chiaro a tutti, viene ignorato con una ostinazione e un’arroganza che ogni volta rappresenta un oltraggio alla nostra coscienza e alla nostra intelligenza. L’ordinario ci parla di una nave che era una carretta, di sistemi di sicurezza che non c’erano, di responsabilità precise che hanno nomi e cognomi. L’ordinario ci parla di inchieste insabbiate, di strumentazioni manomesse, di reperti scomparsi, di speculazioni assicurative, di tentativi di corruzione, di persone che pur essendo al massimo livello di responsabilità, come l’armatore, sono state premurosamente esonerate dal comparire sul banco degli imputati. Ma questo è forse troppo ordinario, non rappresenta una narrazione avvincente.

Eppure ci sono situazioni ordinarie e banali a cui si dà rilievo. E’ disgustosamente ordinario, ad esempio, che tre giorni prima delle elezioni politiche Enrico Letta, in visita a Livorno per la conclusione della campagna elettorale, faccia la sua passerella proprio alla lapide che ricorda, nel porto, le vittime del Moby Prince; è ordinario che, nel farsi immortalare, voglia coinvolgere familiari ancora confusi e storditi dal dolore, dopo più di trent’anni. Ordinario e prevedibile fino alla

nausea. Strumentale e inaccettabile.

E noi ci siamo stancati. Basta con le sfilate periodiche di politici per i quali sicurezza significa solo politiche securitarie, cioè repressione ed esclusione sociale, e non, invece, ciò che può consentire di vivere e lavorare senza rischio in qualsiasi luogo, anche in mare.

Basta con la sfilza di ipotesi sensazionalistiche sulla vicenda Moby, che creano una cortina di nebbia per impedire di vedere l’evidenza. Basta con le vergognose strumentalizzazioni politiche. Ci avete veramente stancato.

Patrizia Nesti

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Riflessioni sparse su Fridays For Future DAL CLIMATE STRIKE ALLA CONVERGENZA

Riflessioni sparse su Fridays For Future

DAL CLIMATE STRIKE ALLA CONVERGENZA

[articolo tratto dal settimanale anarchico Umanità Nova n. 22 del 9 ottobre 2022]

Raccontare oggi il movimento per la giustizia climatica Fridays for Future è complesso. In primo luogo per le sue tante anime, in secondo luogo per le forme diverse in cui si sostanzia in differenti parti del paese. Si può però tentare di coglierne le evoluzioni e di guardare ai processi in corso, consapevoli che non esauriscono la comprensione di questa galassia ma ci danno dei sostanziali indizi e ci mostrano spazi di azione e interstizi che si aprono per una lotta radicale a questo sistema.

Sono stata per diversi anni attivista di Fridays for Future, salvo farmi da parte nel momento in cui una generazione molto più giovane della mia ha preso le redini del gruppo oramai in frammentazione (per più motivi, tra cui l’urgenza di migrare alla ricerca di lavoro o di tornare alla propria città natale finiti gli studi non potendosi permettere di pagare un affitto, una condizione strutturale nella nostra generazione precaria), provando a radicarlo nelle scuole. Tuttavia questa esperienza è stata molto formativa da un punto di vista politico. Ricordo molto bene, nella fase iniziale di questo movimento, la costante raccomandazione – che a volte assumeva toni di giudizio e condanna – da parte di gruppi molto politicizzati che salivano in cattedra a ricordare che l’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio. Mi sono avvicinata a FFF provenendo da una militanza in collettivi radicati nella cultura della sinistra antagonista e come me moltx altr si sono

unitx a FFF provenendo da percorsi di militanza anticapitalista, per cui capivamo bene questi timori.

Eppure, mettendo in discussione non i nostri principi ma la nostra postura all’interno di questo movimento, ovvero accettando che – forti del nostro passato militante – non avremmo insegnato niente a nessuno, ma avremo discusso e imparato tutto insieme, abbiamo visto innescarsi processi molto importanti e radicali, che non erano il risultato di un discorso militante assunto da un nuovo movimento, ma l’esito di un processo che ha messo in dialogo visioni e linguaggi differenti e ha immaginato nuove pratiche, andando alla radice del problema.

Persone completamente nuove alla politica ci hanno costrettx a ripensare il lavoro militante, e ci hanno mostrato un campo di possibilità a cui non eravamo capaci di guardare. Così, in questo continuo scambio il più possibile orizzontale e dialettico, lo slogan “diamo voce alla scienza”, è

diventato “va bene la scienza, ma questa va letta dentro specifici rapporti di potere”. Le timide prese di posizione contro le grandi opere devastanti di questo paese sono diventate, nel corso dei mesi, ferme condanne al paradigma energivoro e predatorio della grande opera, portando questo movimento ad attraversare i sentieri della Valsusa contro TAV, i campi di Coltano contro la nuova base militare, le strade di Ravenna contro il CCS [progetto di cattura e stoccaggio della CO2, ndr]. L’appello a ridurre le emissioni di CO2 si è saldato ad una lottaaffinché “chi ha inquinato paghi”.

Tutto ciò ha significato guardare al cambiamento climatico individuandone gli effetti e i responsabili a partire da ciò che abbiamo immediatamente fuori dalla nostra porta di casa. Trovare degli spazi di azione e conflitto concreti attraverso cui declinare territorialmente la lotta per la giustizia climatica, senza perdere il quadro di riferimento globale di questo lotta.

Ma non solo. Questo ha significato anche guardare alla questione ecologica come una questione di rapporti di potere, rifiutando quelle narrazioni che dipingono la natura come un terreno pacificato e la crisi climatica come una sfida che ci vede tutti sulla stessa barca, appiattendo le tensioni e asimmetrie che connotano profondamente questo campo di azione.

Non a caso, a pochi mesi dalla nascita di questo movimento nel marzo 2019, sono iniziate le campagne contro specifici soggetti come grandi aziende delfossile, multinazionali della logistica, marchi della fast fashion ed altre. La campagna Enemy of the planet ha portato vari gruppi di FFF difronte ai cancelli delle raffinerie di ENI, Block Friday ha portato – nella giornata del black Friday – al blocco di grandi catene della logistica come Amazon e di moda come Zara, giusto per fare degli esempi.

Va dunque riconosciuto a FFF, con tutti i limiti che pure esistono e persistono, di aver puntato il dito contro i responsabili del degrado ecologico e del cambiamento climatico riuscendo a portare questo livello di analisi e conflitto fuori da circuiti militanti. Al contempo, non possiamo ignorare il fatto che questo processo non ha avuto luogo allo stesso modo e con la stessa intensità in tutto il paese e che non c’è una totale simmetria in termini di visioni e prospettive tra i gruppi locali e coloro che riempiono le piazze durante i climate strikes. Questi elementi fanno senz’altro di FFF un movimento a più velocità, all’interno del quale si stanno tuttavia tratteggiando nuovi orizzonti e nuove alleanze che potrebbero mutarne la traiettoria.

Fridays for Future, cambiamento climatico e questione operaia

Quando si è iniziato a leggere la questione ecologica come una questione di rapporti di potere, si è colto il fulcro dell’ingiustizia ambientale. L’accesso alla natura e l’esposizione al degrado ecologico non solo uguali per tuttə, ma dipendono dalla stratificazione di oppressioni legate a genere, classe, provenienza, età ed altre, che rendono alcune soggettività più esposte di altre all’ingiustizia ambientale.

In questo contesto, ciò che più risulta paradossale è stato il sedimentarsi, negli ultimi decenni, di un conflitto tra diritto ad un ambiente sano e diritto al lavoro, specie nei territori in cui vi è una consolidata presenza di raffinerie, industrie siderurgiche, chimiche, e in generale fabbriche fortemente impattanti sull’ambiente e sul clima. Eppure, la classe operaia è la più esposta sia al degrado ambientale, a causa della sua interazione quotidiana con la nocività, che al cambiamento climatico, come dimostrano le varie vittime che ci sono state in Italia sui luoghi di lavoro a causa di ondate di calore e il sensibile aumento di incidenti a lavoro connessi allo stress termico (4mila incidenti in più l’anno in Italia secondo l’Inail).

Come se non bastasse, sulle spalle della classe lavoratrice vengono oggi scaricati i costi delle politiche “ambientali” e di “transizione ecologica”. Dalla misura di alzare il prezzo del carburante per ridurre le emissioni di CO2 decretata in Francia nel 2018, che ha portato all’insorgere del movimento dei Gilets Jaunes per lo più a composizione proletaria e proveniente dalle periferie e dalle aree rurali, al licenziamento dei lavoratori GKN di Campi Bisenzio nel 2021 in nome della transizione all’auto elettrica (un mercato che in Italia non risulta essere competitivo secondo l’azienda) la dimensione classista di queste politiche ambientali è emersa in tutta la sua evidenza.

Questo ha aperto concretamente un nuovo terreno di lotta per il movimento per la giustizia climatica, in Italia e nel mondo. La mobilitazione di questa componente operaia ha riaperto una frattura latente, quella tra vita e capitale, che sembrava sopita, frammentata in altre mille tensioni incapaci di connettersi e intersecarsi, o scavalcata dalla frattura ambiente-lavoro che sembrava oramai inscalfibile e naturale.

Se le lotte in fabbrica negli anni ’70 in Italia ci parlano di una storia diversa, in cui la classe operaia assume protagonismo dentro la grande “primavera ecologica” di quegli anni ottenendo significativi miglioramenti ambientali nei luoghi di lavoro – e conseguentemente nell’ambiente esterno – e trasformando l’approccio dell’intero Sistema Sanitario Nazionale a partire dalla prevenzione, le lotte che si stanno oggi sviluppando in alcuni luoghi di lavoro ci ricordano che questo conflitto apparentemente cristallizzato è in realtà socialmente costruito dal capitale, e che contro questa dinamica si può agire.

Rispetto a questo spazio di conflitto che si è aperto, animato da lavorator* che giustamente non vogliono pagare il prezzo di una transizione ecologica che risulta essere una grande accumulazione di capitale in chiave “green”, Fridays for Future si è ben inserito, lavorando ad una alleanza e convergenza con la componente operaia.

Questo è avvenuto con il Collettivo di Fabbrica GKN di Campi Bisenzio, portando a due connesse giornate di mobilitazione il 25 e 26 marzo di quest’anno, ma anche a Civitavecchia, dove operai e movimenti ecologisti stanno insieme lavorando per bloccare la riapertura della centrale a carbone e riconvertirne la produzione secondo adeguati standard ambientali e sociali.

Dagli scioperi climatici che mettevano al centro la voce della componente studentesca, che chiedeva retoricamente al mondo a cosa servisse loro continuare a studiare per un futuro che gli è stato sottratto, questo giovane movimento è arrivato a bloccare le catene di distribuzione, contestare le grandi compagnie energetiche tanto ai cancelli delle raffinerie quanto sotto i palazzi in cui si tengono le assemble e degli azionisti, a denunciare la speculazione sulle fossili di banche come

Intesa San Paolo o Unicredit, a occupare le strade con gli operai. Di tutto questo processo è fondamentale tenere conto quando parliamo del movimento ecologista e ci interroghiamo su di esso. È necessario tenerne conto per capire la natura processuale dei movimenti. Le piazze – come

quella del 23 settembre – ci raccontano qualcosa, ma cosa succede tra una piazza e l’altra? Che spazi di confronto si costruiscono? Che relazioni si alimentano? In questa descrizione potrebbero rispecchiarsi tutti i gruppi locali di FFF? Non credo. E naturalmente anche la mia è una prospettiva parziale, che riguarda quel che ho visto, vissuto e contribuito a costruire.

Da militante, oggi esterna a FFF, mi interrogo su questo spazio di lotta, su come attraversalo, contaminarlo e farmi contaminare, senza la pretesa di fornire un giudizio o di insegnare niente a nessuno. Penso sia importante chiedercelo tuttx, e prenderci cura di un terreno di lotta e dialogo che si è aperto, che potrebbe domani chiudersi oppure espandersi, intrecciandosi con tutte le altre lotte che tagliano trasversalmente la questione ecologica. Proprio perché riguarda il diritto stesso a respirare, a mangiare, a bere acqua, in sostanza a vivere, la natura è il terreno più politico che ci possa essere.

Paola Imperatore

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OGGI 7 OTTOBRE: ASSEMBLEA NO BASE A PISA

IL PROGETTO TRIPLICA, IL MOVIMENTO SI MOLTIPLICA
ASSEMBLEA NO BASE
7 Ottobre – h.18
Palazzo Ricci
Dopo l’ultimo tavolo interistituzionale del 28 settembre le istituzioni coinvolte vanno nella direzione di un ampliamento del progetto e di una sua dislocazione in più parti.
Dall’incontro tra istituzioni e Arma dei Carabinieri e Parco emerge l’intenzione di intervenire in due aree interne al Parco di Migliarino – San Rossore – Massaciuccoli, ovvero a Coltano e nell’area del Cisam, e di dislocare parte del progetto a Pontedera.
Il sindaco Conti, in un farsesco duello col Presidente della Regione Giani pretende che tutto il porgetto rimanga sul comune di Pisa e rilancia chiedendo, non contento, di utilizzare anche aree di Ospedaletto, sia pubbliche che private. Chiede inoltre di utilizzare la Paradisa per gli alloggi per i militari.
Anche se il sindaco continua a parlare di consumo di suolo zero, la verità è che l’Arma dei Carabinieri vuole un’area estesa per realizzare il centro di addestramento, che andrà individuata e cementificata. Inoltre, anche la volontà espressa dal tavolo di ristrutturare gli immobili storici di Coltano all’interno di questo progetto malcela l’intenzione di privatizzare quegli spazi e destinarli ad un utilizzo militare.
In sostanza, triplica l’estensione del progetto e con questa i costi, considerando che si parla anche di espropriare enormi aree private.
Nei mesi scorsi abbiamo instancabilmente presidiato il borgo di Coltano organizzandovi incontri, passeggiate e assemblee. Questa volta sentiamo l’urgenza di portare questa lotta in città, dentro gli spazi universitari, affinché possa essere il più partecipata possibile.
Dopo il 2 giugno, dove 10.000 persone hanno attraversato l’area interessata al progetto della base militare, vogliamo continuare a far crescere questo movimento, a farlo radicare nel territorio, a confrontarci con la collettività, a tessere nuove relazioni.
Abbiamo bisogno delle riflessioni, delle energie, dei dubbi e delle proposte di ognun di voi per difendere questo territorio destinato a una militarizzazione pericolosa per le nostre vite e per il nostro futuro.
VI ASPETTIAMO!

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Movimento No Base a Coltano, L’Arma accontenta tutti fuorché i cittadini

Movimento No Base a Coltano

L’Arma accontenta tutti fuorché i cittadini

Dopo la determinata e variopinta manifestazione del 2 giugno (10 mila in corteo), il Movimento No Base a Coltano (Pisa) non si è fermato praticamente mai nella sua mobilitazione contro questo ennesimo progetto di militarizzazione del territorio pisano e livornese. Nato dall’incontro di diverse aree antimilitariste e/o anticapitaliste (pisane e livornesi) con il comitato di cittadini coltanesi, il Movimento No Base ha saputo tenere alta l’attenzione su una questione, che si inscrive, per altro, nel drammatico contesto della sanguinosa guerra in Ucraina. Il progetto governativo, lo ricordiamo, è quello di utilizzare 73 ettari di terreno a Coltano, all’interno del Parco di San Rossore, per ricollocare il Gruppo di Intervento Speciale del reggimento paracadutisti Tuscania e del Reparto Centro Cinofili.

Una struttura che ha un costo stimato di 190 milioni di euro (presi al sociale naturalmente), e che sarebbe in stretta connessione con le molteplici e pesantissime strutture militari presenti nei 20 chilometri tra Pisa e Livorno, a cominciare dalla nota e famigerata base USA di Camp Darby.

Contro il progetto governativo il Movimento No Base ha sempre detto parole chiarissime e cioè che l’unica base buona è quella che non esiste e quindi non va fatta né a Coltano né altrove.

Incassato il successo del grande corteo a Coltano, gli attivisti No Base hanno subito dato continuità alla propria azione l’8 giugno con un presidio di oltre 200 persone sotto il palazzo del Comune di Pisa, in occasione del tavolo interistituzionale convocato nel municipio pisano per discutere il futuro della base militare. Diversi gli attori presenti a quel tavolo: dal Comune di Pisa (Lega), alla Regione Toscana (PD), all’Ente Parco, al Ministero della Difesa. Attori tutti concordi e determinati nel volere la base, ma divisi da appetiti configgenti riguardo alla torta di denaro pubblico che è in ballo.

In particolare, l’8 giugno emersero la posizione del Sindaco di Pisa, favorevole ad una divisione della base in vari siti sparsi sul territorio comunale, e la posizione del Presidente della Regione Toscana, invece favorevole all’opzione di Pontedera in alternativa a Coltano. Proprio per rispondere a quest’ultima ipotesi, il 9 giugno il Movimento organizzò una assemblea pubblica a Pontedera per sensibilizzare anche il territorio pontederese contro il progetto della base. Nel frattempo il Movimento No Base comincia a prendere contatti con altre realtà di lotta contro la militarizzazione e la devastazione ambientale del territorio e a questo proposito il 2 luglio vengono presentati pubblicamente i vari campeggi estivi che caratterizzeranno l’estate in varie parti d’Italia:

dal Campeggio “Climate Social Camp” a Torino, a quello NO MUOS in Sicilia, ad altri ancora. A questi campeggi gli attivisti NO BASE parteciperanno, invitati a parlare.

L’8 luglio si svolge un’affollata assemblea nel centro di Pisa, per informare la cittadinanza e fare il punto della situazione dopo il tavolo interistituzionale che si era tenuto il giorno prima a Roma, per altro senza novità di rilievo. Il 20 luglio in località La Vettola (prossima al CISAM di San Piero e alla base di Camp Darby) si tiene un’assemblea NO BASE incentrata sull’ipotesi, ventilata, di costruire la base presso il sito del CISAM. Poi altri appuntamenti estivi: il 22 luglio a Livorno, il 27 a Ospedaletto, il 21 agosto a La Spezia. A settembre si riparte con la tre giorni di Coltano organizzata dal Movimento No Base (9-11 settembre) per dare impulso alla ripresa autunnale. Tre giorni di dibattiti, gruppi di lavoro e proiezioni che ha visto una grande partecipazione e voglia di protagonismo di una realtà di movimento certamente composita e articolata. In particolare è stata estremamente positiva l’assemblea conclusiva (quasi 150 perso ne) che ha visto confrontarsi realtà di movimento provenienti da vari territori (Empoli, Piombino, Amiata, ecc.) che lottano contro la militarizzazione e la devastazione del territorio.

Seguono i tre ultimi presidi sotto il Comune di Pisa del 13, 19 e 28 settembre. In particolare, il presidio del 28 era convocato in occasione dell’ennesimo tavolo interistituzionale sul progetto di base militare. Dal tavolo sarebbe emersa l’insidiosa proposta dell’Arma dei Carabinieri – prima interessata al progetto – di realizzare a Coltano la sola parte residenziale della base e a Pontedera la parte dell’addestramento militare. Il tutto per mezzo anche di espropri a privati con relativi lucrosi indennizzi. Anche il CISAM di San Piero dovrebbe essere coinvolto nel progetto. In questo modo sarebbe assicurato un consenso ampio alla realizzazione della base, cointeressando sia la Regione Toscana, sia il Comune di Pisa, sia l’Ente Parco, tramite la ripartizione e la moltiplicazione del flusso di denaro pubblico a questa ennesima opera di occupazione militare del territorio. Per altro, il Sindaco leghista Conti ha rilanciato anche la sede di Ospedaletto (località limitrofa a Pisa e a Coltano), anche lì con l’uso degli espropri.

Si prospetta, dunque, una gara delle varie istituzioni ad accaparrarsi la torta che avrà l’inevitabile conseguenza di moltiplicare la spesa pubblica per l’opera, andando molto più in là dei 190 milioni previsti. Tra un mese lor signori si rivedranno a Roma. È auspicabile che il Movimento NO BASE intensifichi la sua mobilitazione allargandola a tutti i territori interessati e ponendosi sempre più

come momento di autorganizzazione popolare orizzontale, fuori e contro il quadro istituzionale sempre più asservito alla logica del militarismo e della guerra. È auspicabile anche che il

Movimento divenga uno dei punti di riferimento per le prossime mobilitazioni contro la guerra in Ucraina, intrecciando il suo percorso con quello del sindacalismo conflittuale e alternativo.

Claudio Strambi

[articolo pubblicato sul n. 22 del settimanale anarchico Umanità Nova, 09/10/2022]

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Assemblea al Refugio: FURIOS3: RISALE LA MAREA PER l’ABORTO LIBERO SICURO E GRATUITO

*A Livorno 28 settembre ore 18 assemblea presso Teatrofficina Refugio: per discutere, per ascoltarci, per capire le nostre esperienze, per gridare insieme la nostra rabbia e i nostri desideri!*
FURIOS3: RISALE LA MAREA
PER l’ABORTO LIBERO SICURO E GRATUITO
Il 28 settembre torniamo nelle piazze di tutta Italia per la giornata internazionale per l’aborto libero, sicuro e gratuito perché in questo scenario politico, tra guerre, crisi economica,climatica e campagna elettorale, i nostri corpi continuano ad essere un campo di battaglia.
Lottare per la libertà di abortire significa per noi poter scegliere sui nostri corpi e sulle nostre vite, e contro tutte le condizioni che ce lo impediscono.
Gli attacchi e le restrizioni all’aborto sono attacchi diretti a donne, persone con capacità gestante, persone migranti e senza reddito. Lo sappiamo che la violenza è più brutale sui corpi di chi vive in una regione in cui il tasso di obiezione è altissimo e non ha un reddito per spostarsi, sui corpi di chi ha un’identità di genere non conforme e sui corpi di scappa dalla guerra.
Siamo furios3 perché in tutto il mondo non è possibile abortire in sicurezza e ciò significa la morte per milioni di persone (22 milioni all’anno).
In Italia la legge 194, che disciplina l’accesso all’aborto, permette l’obiezione di coscienza del personale medico, che nel nostro paese arriva quasi al 70%. I consultori pubblici sono stati progressivamente ridotti, dagli anni 70 ad oggi: sono adesso molto meno di un consultorio ogni 20.000 abitanti. Non si investe sull’educazione sessuale e all’affettività e sulla contraccezione gratuita. Quando decidiamo di abortire,siamo stigmatizzat3 e colpevolizzat3 e il percorso per acccedere all’IVG diventa più difficile. Rivendichiamo con forza che non ci pentiamo di aver abortito e che continueremo a farlo.
Siamo furios3 perché la nostra libertà di scelta è messa ancora più sotto attacco da venti reazionari che soffiano da Stati Uniti, Ungheria, Polonia, Malta. Anche in Italia assistiamo a un rilancio della triade “Dio, patria e famiglia”, declinata nelle forme più sessiste, razziste, omolesbobitransfobiche e abiliste, che impone rigidi ruoli di genere e assegna alle donne il compito della riproduzione e della crescita della nazione bianca, patriarcale e eterossessuale.
Siamo furios3 perché l’attacco all’aborto si rafforza in un momento di crisi economica e sociale, estremizzata dalle conseguenze di una guerra che riduce i salari con l’inflazione, alimenta la crisi energetica, ci impoverisce e ci rende più ricattabili. Scendiamo in piazza perché a questa crisi corrisponde un aumento incessante dei femminicidi, degli stupri, della violenza maschile contro le donne e della violenza omolesbobitransfobica, della violenza razzista.
Saremo in piazza tre giorni dopo le elezioni perché non vogliamo un patriarcato conservatore, e non ci accontentiamo di un patriarcato democratico.
La destra conservatrice strumentalizza la violenza sulle donne per portare avanti politiche razziste e vuole rafforzare il controllo sui nostri corpi e sulla nostra sessualità. Ci impone la maternità e il lavoro di cura in cambio di briciole, mentre ci spinge a lavorare sottopagate, promettendo a confindustria sgravi fiscali. I democratici promettono diritti e libertà civili in cambio di politiche che continuano a peggiorare le nostre condizioni di vita.
Vogliamo essere libere di scegliere, e perciò rifiutiamo queste finte alternative. Vogliamo lottare per mettere fine alla violenza patriarcale, razzista, coloniale, omolesbobitransfobica, abilista e classista che trova nella guerra e nelle sue conseguenze la massima espressione.
Noi ci vogliamo viv3 e liber3.
Ci vogliamo viv3 e liber3, per questo non possiamo accettare la mancanza di uno stato di welfare
Ci vogliamo viv3 e liber3, per questo vogliamo un reddito di autodeterminazione
Ci vogliamo viv3 e liber3, per questo non possiamo accettare la guerra e le sue conseguenze
Ci vogliamo viv3 e liber3, per questo vogliamo un permesso di soggiorno senza condizioni
Ci vogliamo viv3 e liber3, per questo vogliamo più finanziamenti ai consultori, ai centri antiviolenza, all’educazione sessuale nelle scuole e alla contraccezione gratuita
Ci vogliamo viv3 e liber3, per questo vogliamo un aborto libero, sicuro e gratuito
Ci vogliamo viv3 e liber3, per questo vogliamo molto di più della 194.
Vogliamo la libertà di decidere sul nostro corpo, vogliamo che l’attenzione alla vita sia attenzione all’autodeterminazione per tutte le persone.
Sosteniamo il personale medico e infermieristico che con tenacia cerca di arginare le difficoltà causate dall’elevato tasso di obiezione. Sosteniamo tutte le persone e le organizzazioni che forniscono informazioni, accesso alle pillole abortive e servizi di assistenza all’aborto. Ci riuniamo in sorellanza da ogni angolo del mondo per imparare, sostenerci a vicenda e lavorare insieme per rivendicare il diritto all’aborto sicuro.
Per tutto questo è necessario scendere in piazza, perchè siamo furios3, non ne possiamo più e vogliamo rilanciare un percorso che va verso e oltre il 28 settembre, per costruire insieme una lotta che sia davvero di tutt3 e fare risalire insieme la marea.
AMORE E RABBIA
Non una di meno

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Presidio NO Base a Pisa

PRESIDIO A PISA
ORE 15 P. XX Settembre sotto il Comune
NO BASE MILITARE!
 

Domani di nuovo in piazza, in contemporanea al tavolo interistituzionale che discuterà di dove costruire la base militare. Carabinieri, comune e provincia di Pisa, regione Toscana, Parco e Governo (?) insieme per sottrarre alla collettività 190 milioni di euro e devastate un territorio con uno strumento di guerra.

La nostra risposta sarà sempre la stessa dalla fine di marzo: NÉ A COLTANO NÉ ALTROVE.

Presidio dalle 15, conferenza stampa alle 15.30!

 

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Elezioni: che l’astensione diventi diserzione

Elezioni: che l’astensione diventi diserzione

[Questo articolo uscirà su Umanità Nova n. 22 che potrete trovare in edicola da venerdì 30 anche a Livorno]

Ancora una volta una cosa è chiara, il prossimo parlamento e il prossimo governo saranno più distanti che mai dalle classi sfruttate. Neanche due elettori su tre sono andati a votare, in alcune regioni appena uno su due, con una partecipazione al voto che a livello nazionale si è fermata al 63,9% con un calo di ben nove punti percentuali dalle elezioni precedenti. Nel momento in cui scrivo non è ancora concluso il conteggio dei voti, ma i dati, già stabili, assegnano la prevalenza alla coalizione di destra. Sembra infatti che nonostante il crollo della partecipazione alle urne la destra abbia mantenuto i consensi ottenuti nelle precedenti elezioni, con poco più di 12 milioni di voti. Se questo dovesse portare, come annunciano tutti i giornali ufficiali, ad un governo guidato dalla destra fascista, allora la casta militare, la produzione bellica e in particolare aerospaziale, Confindustria e la Chiesa avranno al governo il primo alfiere dei loro privilegi.

Ma attenzione, l’agenda politica di miseria e guerra a cui dovremo opporci nei prossimi mesi era già quella di Draghi, e sarebbe stata assunta da qualsiasi governo, in nome dell’interesse nazionale. I media e i partiti hanno invocato in coro un governo forte, ma dal momento che non potrà essere comunque forte nei consensi, dobbiamo immaginare che il prossimo governo sarà forte col bastone.

Probabilmente cercheranno di governare il conflitto sociale con elargizioni paternaliste, con la propaganda di unità nazionale e con l’aiuto dell’opposizione di palazzo attraverso PD, sinistra istituzionale e CGIL. È importante dare un terreno diverso alle lotte, rafforzando le strutture di base e le forme di opposizione sociale.

Il governo Draghi prima di passare il testimone al prossimo esecutivo ha ancora per le mani alcuni compiti importanti: la presentazione della Nota di aggiornamento del DEF e la prosecuzione delle trattative per la definizione del tetto europeo al prezzo del gas. Gli indirizzi politici di fondo su difesa, energia e lavoro sono trasversali, come hanno dimostrato le scelte dei vari governi di unità nazionale che si sono succeduti in questi anni. L’ultimo di questi, che ha unito Lega, FI, M5S, PD, LEU – con ripetuti tentativi imbarcare anche FdI – ha reso chiaro a tutti che gli appelli al voto “contro il fascismo” sono vuote parole da campagna elettorale. Anche per questo il numero degli astenuti, 14,8 milioni, supera di gran lunga il numero di voti ottenuti da qualsiasi coalizione. Ma l’astensionismo non è disorientamento provocato dal voltafaccia di questo o quel partito. La crisi dei meccanismi di consenso anche clientelari, assieme al generale peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro di gran parte della popolazione, e alla scomparsa di ogni margine di mediazione del conflitto sociale, hanno fatto esplodere da 15 anni la sfiducia verso le istituzioni politiche. Dalle elezioni del 2008 il grande obiettivo dei partiti in periodo elettorale è stato quello di raccogliere consensi nella sempre più larga schiera dell’astensione. Ma se chi governa e chi aspira a governare legge l’astensione come un serbatoio di voti, come un bacino di consenso da contendersi, come una massa passiva, chi vuole trasformare radicalmente la società in senso rivoluzionario non può che riconoscervi invece un elemento di cambiamento. Non è detto che questa spinta di cambiamento non possa essere presto o tardi riassorbita nelle forme di compatibilità del sistema politico. Ma il non voto è sempre una scelta, indipendentemente dalle ragioni da cui si muove. È una dimensione attiva, quella del rifiuto, che già segna la distanza dal governo, ma che può essere anche la base per ulteriori forme di rifiuto e di opposizione.

Le immagini che giungono dalla Russia, con i giovani in fuga per evitare l’arruolamento forzato e con le proteste nelle città contro la mobilitazione parziale duramente represse, ci mostrano che è possibile rifiutare il massacro imposto dai governi, che anche con la grave minaccia repressiva di un regime autoritario è possibile scegliere, rifiutare e agire. La forza di questi esempi di lotta contro la guerra è formidabile. Sono esempi che ci chiamano ad impegnarci in prima persona, a organizzare e dare concretezza al nostro rifiuto della guerra e dell’economia di guerra.

Per fronteggiare la generale sfiducia nelle istituzioni, nei partiti e nel governo, si prepara ormai da tempo una via autoritaria. Gli organi della stessa democrazia rappresentativa, cercando forme di stabilità per il potere di fronte alla sfiducia nelle istituzioni e all’aumento dell’astensione, stanno rivedendo anche radicalmente le forme istituzionali. Nel nome della governabilità, dell’efficienza, della stabilità e della salvaguardia dell’interesse nazionale si fanno strada soluzioni dirigiste, anche sotto la pressione di modelli autocratici sempre più influenti a livello globale. Gli sviluppi della guerra in Europa non hanno fatto che accelerare questi processi. Da ogni parte la propaganda, in un generale clima di incertezza e di disastro incombente, crea il bisogno del leader e del “governo forte”. Ma c’è chi non risponde alla chiamata alle urne, nonostante la campagna elettorale sia stata più che mai incentrata sulle personalità dei leader politici, nonostante le grandi paure che viviamo in questi anni a causa del vicolo cieco in cui ci conducono lo Stato e il Capitale, dalla guerra alla pandemia, dalla miseria alla catastrofe climatica. C’è una parte della società che non partecipa all’elezione del governo forte, che ha scelto il rifiuto. Per il prossimo governo sarà in ogni caso un problema. Sta a noi e a tutte le forze che si muovono sul terreno delle lotte dal basso far si che questo rifiuto delle elezioni non venga riassorbito da qualche nuovo partito o leader di governo, che non venga arruolato in nessun esercito, ma che si trasformi in rifiuto della guerra e dello sfruttamento, in diserzione di massa dal macello in cui ci vorrà gettare il prossimo governo.

Dario Antonelli

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