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Contro lo Stato di Guerra

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Questo articolo è stato pubblicato sul n. 39 di Umanità Nova

Contro lo Stato di Guerra

Arresti preventivi, perquisizioni, prescrizioni. Divieto per ogni manifestazione, botte, fermi e denunce per chi sfida il divieto. Lo “stato d’urgenza”, dichiarato in Francia dal consiglio dei ministri all’indomani degli attentati dello scorso 13 novembre, ed esteso a tre mesi con il voto parlamentare in cui ha espresso parere favorevole anche il PCF (Partito Comunista Francese), viene attuato con zelo dalle autorità. La sospensione della libertà in nome della sicurezza, che si concretizza anche nella violenta repressione di piazza contro ogni manifestazione, già messa in atto dalla polizia in numerose città francesi, raggiunge il grottesco a Parigi dove la Prefettura di polizia ha cercato di impedire ogni tipo di protesta contro la COP21: dal grave intervento di poliziotti armati di fucili automatici contro quattro studenti che la mattina del 3 dicembre cercavano di bloccare il proprio liceo a Parigi, al ridicolo schieramento di 7 camionette e oltre quaranta agenti in tenuta antisommossa per sciogliere con la forza un gruppo di 12 persone che il 1 dicembre stavano inscenando in Place de la Bastille una performance di danza.

La repressione del dissenso, in qualsiasi modo esso si manifesti, è un punto cardine delle leggi antiterrorismo, dello stato d’emergenza. Le legislazioni speciali che sospendono alcune libertà individuali per rafforzare e facilitare l’intervento delle autorità in situazioni di emergenza, che si tratti di una guerra, di un attacco terroristico o di un disastro naturale, sono sempre rivolte non solo a colpire la minaccia esterna, ma anche quella interna che può mettere in discussione la legittimità dell’autorità.

Per restare rivolti al contesto francese la storia del Carnet B è molto esplicativa in questo senso.

Nel dicembre 1886 il generale Georges Boulanger, allora Ministro della Guerra, dà istruzione alle prefetture per la sorveglianza degli stranieri. Vengono istituiti il Carnet A per schedare gli stranieri in grado di servire l’esercito presenti sul territorio francese, e il Carnet B per schedare tutti gli stranieri e i francesi sospettati di spionaggio. Nella più generale riforma dell’esercito attuata da Boulanger nella prospettiva revanscista di preparazione della guerra contro la Germania, questi schedari facevano parte del sistema di organizzazione della mobilitazione militare e indicavano le persone che dovevano essere sorvegliate e, in caso di guerra, arrestate dalla Gendarmeria che era incaricata dell’esecuzione degli ordini delle autorità militari. Con questi provvedimenti appare evidente il ruolo che viene ad assumere il controllo della popolazione nella politica di guerra.

Nel 1910 entra ufficialmente nel Carnet B una nuova categoria di soggetti pericolosi, quella degli antimilitaristi, che comprende tutti coloro che per ragioni politiche potevano sabotare la mobilitazione. Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale gran parte degli schedati lo sono in quanto antimilitaristi, sindacalisti, socialisti, anarchici, mentre solo meno di un terzo sono schedati per sospetta attività di spionaggio. Nell’agosto del 1914, per la mobilitazione che in pochi giorni avrebbe portato all’inizio della guerra, su ordine del Ministero dell’Interno, il Carnet B non venne utilizzato, in quanto l’allineamento dei vertici della CGT e della SFIO alle posizioni belliciste nel quadro dell’Union Sacrée, in particolare dopo l’assassinio di Jean Jaurès, lasciava pensare che non ci sarebbe stato alcun sabotaggio significativo della mobilitazione e che anzi, proprio i vertici socialisti e sindacalisti avrebbero potuto contribuire a portare gli operai su posizioni di sostegno alla guerra. Solo alcuni singoli antimilitaristi infatti vennero arrestati, per particolare zelo delle prefetture.

Il Carnet B non sembrerebbe essere una vera e propria legislazione speciale. Si tratta infatti di un sistema permanente e non eccezionale di sorveglianza e controllo, che realizza uno schedario, a tutti gli effetti una lista di proscrizione in cui sono elencate le persone di arrestare in caso di guerra, in un contesto in cui le autorità stesse avevano creato una condizione permanente di imminente stato di guerra. Un sistema di controllo che era funzionale alla politica aggressiva di quei settori della classe dirigente francese che spingevano per una nuova guerra contro la Germania. Solo al termine del secondo conflitto mondiale la situazione cambia: il Carnet B viene abolito nel 1947 e meno di dieci anni dopo, nel 1955 nel contesto della guerra d’Algeria, viene organizzato in una legge e proclamato per la prima volta lo “stato d’urgenza”. Non si tratta più di organizzare in nome della revanche la mobilitazione contro il nemico germanico, ma di fornire al potere esecutivo degli strumenti per intervenire efficacemente per sedare un’insurrezione, l’attenzione è quindi ancora più rivolta alla sorveglianza, al controllo e alla repressione. Si tratta di strumenti definiti da una legge in vigore da 60 anni, ben collaudati e già applicati, l’ultima volta nel 2005, durante la rivolta delle banlieues. Sia nel caso del Carnet B sia nel caso dello “stato d’urgenza” quindi si tratta non di misure eccezionali, ma di strumenti definiti e organizzati in modo permanente la cui attuabilità viene preparata in tempo di “pace” con indagini ed esercitazioni specifiche, strumenti che vengono impiegati in situazioni spesso create dalle stesse autorità.

Quando si sciolgono con la violenza le manifestazioni, quando si hanno centinaia e centinaia di casi di perquisizioni condotte arbitrariamente, di arresti preventivi, di provvedimenti di forte restrizione della libertà nei confronti di militanti, attivisti, avvocati, studenti, semplici sospetti, non siamo di fronte agli effetti collaterali di leggi antiterrorismo che dovrebbero colpire solo i barbari tagliagole dello Stati Islamico. Siamo di fronte alla normale attuazione dello “stato d’urgenza”, in questo contesto il presidente francese Hollande giunge ad affermare che è “scandaloso” che qualcuno abbia osato opporsi al divieto di manifestare.

Lo stato d’emergenza quindi, detto anche d’eccezione, non ha niente di eccezionale. Senza entrare in un dibattito teorico sulla legittimità delle legislazioni speciali, i recenti fatti ci mostrano come la normalità per i governanti sembra adesso essere costituita dalla mancanza di libertà mentre la manifestazione di una protesta o di un dissenso, addirittura divengono fatti “scandalosi”, sono le eccezioni da reprimere.

La guerra è già in corso e le bombe si fanno sentire pure a Parigi, è in atto anche la mobilitazione anche se si tratta di una mobilitazione per le urne e non per il fronte. In Francia rispetto alle scorse elezioni regionali l’affluenza è salita di qualche punto percentuale, mentre il Front National ha conseguito al primo turno del 6 dicembre risultati importanti ed è in testa in sei regioni su tredici. Questo dato, anche se andrà poi verificato con l’esito del secondo turno, associato a quello dell’aumento delle domande per entrare nell’esercito e a quello sull’elevato consenso attorno alla decisione di dichiarare lo stato d’emergenza dopo gli attacchi del 13 novembre, presenta un quadro piuttosto fosco. Se da una parte c’è molta propaganda e probabilmente non c’è tutta questa coesione attorno alle politiche antiterrorismo, dall’altra in un simile contesto bisogna avere la forza e la capacità di prendere una posizione chiara e di trovare gli strumenti adeguati per contrapporsi allo stato di guerra e alla deriva autoritaria.

Nessuno vuole che le bombe esplodano nella strada appena dietro la propria casa. Nessuno, che viva a Parigi, Roma, Beirut, Kabul o Istanbul. Per questo dobbiamo fermare la guerra, lottando proprio contro bombardamenti e leggi speciali che invece alimentano la guerra.

La guerra non consiste solo in missioni, bombardamenti, interventi all’estero. La guerra è anche quella combattuta dentro i confini di un paese. Qui la guerra è il contingente militare schierato in Val di Susa contro il movimento NO TAV, la guerra è nelle strade delle città pattugliate dai militari armati, la guerra è il divieto di manifestare, che a Roma già ha impedito negli ultimi mesi ad alcuni cortei sindacali di sfilare. La guerra è nelle politiche imposte dal governo per peggiorare le condizioni di vita dei lavoratori e della maggior parte della popolazione.

Dopo la Turchia, oggi anche la Francia ci mostra quale sia il ruolo dell’apparato militare quando i governi devono imporre con la forza delle scelte, quando si va verso una guerra, quale sia il loro ruolo nell’imprimere una stretta autoritaria all’intera società.

Per questo opporsi alla guerra così come al militarismo e alla militarizzazione si rende sempre più necessario. Demistificare la retorica securitaria e guerrafondaia e organizzare un movimento antimilitarista significa dare una risposta concreta all’attuale situazione.

Un esempio concreto ci è rappresentato dal movimento NO MUOS in Sicilia, il movimento popolare che da anni si oppone alla realizzazione della base per telecomunicazioni satellitari della US Navy a Niscemi. La lotta condotta con ampio coinvolgimento popolare da parte dei comitati di base NO MUOS, pur dovendosi scontrare con l’arroganza delle istituzioni, è riuscita a rallentare i lavori della base. Tanto che in data 20 novembre l’Avvocatura di Stato ha chiesto al Consiglio della Giustizia Amministrativa della Sicilia di accelerare i tempi circa il procedimento riguardante il MUOS, in quanto gli sviluppi conseguenti agli attentati di Parigi del 13 novembre renderebbero necessaria l’immediata risoluzione della controversia e l’attivazione del sistema MUOS. Sicuramente si tratta di un’argomentazione strumentale da parte dell’Avvocatura di Stato, ma certo è che ad oggi, mentre si intensificano i bombardamenti e la tensione tra le potenze che intervengono nella regione mediorientale è sempre più forte uno strumento come il MUOS non è a disposizione degli USA e dei suoi alleati per i loro interventi militari.

Questo caso, pur essendo solo un esempio, ci mostra come costruire forme di resistenza alla repressione e organizzare l’azione antimilitarista in contesti più ampi possibile, sia l’unico modo per porre un argine all’involuzione autoritaria e alla guerra.

Dario Antonelli

Umanità Nova si può trovare anche a Livorno presso le edicole di Via Garibaldi 7, di Piazza Damiano Chiesa, di Piazza Grande (angolo Bar Sole), di Viale Carducci (angolo Via del Risorgimento), di Viale di Antignano 110, di Piazza Micheli (lato Quattro mori), di Piazza della Vittoria (angolo Via Magenta) presso il Bar Dolcenera in Via della Madonna (angolo Viale degli Avvalorati), la Libreria Belforte in Via Roma 69 e presso la sede della Federazione Anarchica Livornese in Via degli Asili 33 (apertura ogni giovedì dalle ore 18 alle ore 20).

 

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10 ANNI DI COLLETTIVO ANARCHICO LIBERTARIO 2005 – 2015

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10 ANNI DI COLLETTIVO ANARCHICO LIBERTARIO
2005 – 2015

Sabato 5 dicembre
presso la Federazione Anarchica Livornese in Via degli Asili 33

dalle ore 15
esposizione del materiale prodotto dal collettivo in questi anni

ore 15:30
assemblea per gruppi di discussione tematica
antimilitarismo – antirazzismo – repressione – scuola – lavoro – autogestione

ore 18:30
dibattito sulla situazione di guerra

ore 20:30
aperitivo

a seguire
jamming, musica e canti in libertà, porta il tuo strumento

Collettivo Anarchico Libertario

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Livorno non si piega! – Assemblea cittadina lunedì 30 ore 21

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Livorno non si piega!
ASSEMBLEA CITTADINA LUNEDI’ 30 NOVEMBRE
PRESIDIO SOLIDALE MERCOLEDI’ 2 DICEMBRE

Il Comitato LIVORNO NON SI PIEGA promuove per lunedì 30 novembre un’assemblea cittadina che si terrà presso la mensa autogestita di via dei Mulini.
Dopo la sentenza per i presidi e le manifestazioni del 30 novembre, 1 e 2 dicembre 2012, con la quale sono stati colpiti i settori politicamente più attivi della nostra città, il Comitato “Livorno non si piega” lancia una serie di iniziative di mobilitazione per tenere viva quella solidarietà agli imputati che in tre anni la città ha sempre manifestato. Ora più che mai occorre mobilitarsi, per mantenere il sostegno agli imputati, per fare controinformazione, per denunciare una condanna che è tutta politica, per opporsi alle manovre repressive, per affermare ancora di più, in un momento di ulteriore riduzione dell’agibilità politica, la libertà di espressione e di manifestazione.

LUNEDI’ 30 novembre ore 21 assemblea cittadina presso la mensa autogestita via dei Mulini
MERCOLEDI’ 2 dicembre ore 17 presidio solidale in Piazza Cavour

Comitato di Solidaretà “Livorno non si piega!”

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Turchia: elezioni e stato d’eccezione legittimazione e violenza dello Stato

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articolo pubblicato sul n.36 del settimanale anarchico Umanità Nova

Turchia: elezioni e stato d’eccezione

legittimazione e violenza dello Stato

Le elezioni generali anticipate tenutesi in Turchia il primo novembre hanno restituito la maggioranza dei seggi in parlamento al Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) del Presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdoğan. Lo scorso giugno il partito conservatore-religioso AKP, che governa la Turchia dal 2002, non aveva raggiunto la maggioranza e nessun partito era riuscito a esprimere un governo di coalizione. A giugno la forte perdita di consensi subita dall’AKP ed al medesimo tempo l’avanzata dei fascisti pan-turchisti del Partito del Movimento Nazionalista (MHP), nonché lo storico risultato del Partito Democratico dei Popoli (HDP) che rappresenta le istanze del movimento curdo riunendo varie tendenze della sinistra turca e curda, erano stati segno del fallimento della politica condotta da Erdoğan e dal primo ministro Davutoğlu. Il risultato delle elezioni di giugno fotografava anche una situazione politica e sociale complessa che proveremo di seguito a ricostruire.

L’AKP di Erdoğan e Gül aveva raggiunto il potere all’inizio degli anni 2000 ponendosi come forza di rinnovamento, portatrice di libertà religiosa, liberalizzazioni, democratizzazione della Turchia. Per un decennio Erdoğan ha costruito il proprio potere sostituendo i vertici e i livelli intermedi dell’esercito e degli altri apparati statali con propri uomini, facendo leva sul boom economico segnato dalla speculazione nel settore delle costruzioni e dalle cosiddette “Tigri dell’Anatolia”, che sono stati i simboli per eccellenza della crescita economica della Turchia negli ultimi anni. Ha creato un consenso di massa, un popolo di sostenitori, grazie a una fitta rete clientelare capillarmente presente in ogni ambito sociale: dagli apparati dello Stato, alla giovane classe imprenditoriale, alla nuova classe operaia non sindacalizzata del boom economico. L’AKP di Erdoğan ha poi tentato di assicurarsi il potere con una riforma costituzionale. Per fare questo ha sviluppato la cosiddetta politica neo-ottomana, una rivoluzione dell’ideologia dello Stato turco, da nazionalista-etnico secondo la tradizione kemalista a multietnico islamico, come era appunto l’Impero ottomano. Questo doveva servire da una parte a proporsi come paese di riferimento per l’islam sunnita e acquisire un nuovo ruolo protagonista a livello internazionale, dall’altra a garantire maggiori diritti alle minoranze e aprire delle trattative con i vertici del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) per un processo di pace. Il biennio 2011 – 2012 sembra segnare il trionfo dell’AKP: vittoria schiacciante alle elezioni del giugno 2011, pacificazione delle manifestazioni del Primo Maggio ad Istanbul (con decine di migliaia di poliziotti), inizio del “processo di soluzione” della “questione curda”. Tuttavia si preparano ad esplodere enormi contraddizioni sociali: la crescita economica e la modernizzazione delle grandi città corrisponde ad un peggioramento delle condizioni di lavoro, ad un divario sociale sempre più profondo, a politiche autoritarie e di conservatorismo religioso. Nel 2013 il blocco di potere dell’AKP è entrato in piena crisi. A segnare l’inizio della crisi è la rivolta di massa nata da Gezi Park contro la violenza della polizia a fine maggio 2013 e diffusa in tutta la Turchia, la rivolta non porta alla caduta del governo solo perché alla fine l’AKP si accorda con la vecchia classe dominante. Da quel momento la politica dell’AKP si avvia sulla strada del fallimento. Gli scontri nelle regioni curde contro le nuove installazioni militari che violerebbero il processo di pace, la rivolta giovanile contro la violenza della polizia, la strage della miniera di Soma, lo sviluppo di lotte operaie, l’ampio movimento di solidarietà alla Rojava sviluppatosi durante l’assedio di Kobanê, hanno fatto naufragare i piani dell’AKP. La ripresa della politica di guerra contro il popolo curdo, l’interventismo in Siria e il sostegno allo Stato Islamico in funzione anti-curda e controrivoluzionaria, ha trovato una forte opposizione. In questo contesto l’AKP non solo aveva dovuto accantonare i propri piani ma aveva anche perso il ruolo di garante dell’ordine sociale e politico nella regione, andando incontro alla una sconfitta elettorale dello scorso giugno.

Il presidente turco Erdoğan ha tentato allora di presentare ancora il suo partito ed in particolare il suo blocco di potere come il garante internazionale in una situazione sociale e politica esplosiva, con una rivoluzione in corso appena al di là dei propri confini, nella Rojava, che rischia di estendersi anche nel territorio turco e di mettere in discussione le politiche degli Stati che vogliono assicurare i propri interessi nell’area. L’AKP non solo ha messo da parte i caratteri ideologici che avevano contraddistinto il partito negli anni, strizzando l’occhio ai nazionalisti kemalisti, ma ha gettato definitivamente la maschera della democraticità creando attraverso il terrore le condizioni per la propria rielezione. Per fare questo Erdoğan ha scatenato una guerra vera e propria nei confini della Turchia conto la popolazione civile, contro il movimento curdo e i rivoluzionari. La guerra è stata condotta con gli attentati di Amed, Suruç e Ankara, con gli attacchi con l’esercito in città, quartieri e villaggi insorti contro l’autorità statale per evitare arresti, torture e sparizioni, ma anche per rilanciare il progetto rivoluzionario che viene dalla Rojava. Con i bombardamenti contro le postazioni del PKK e delle YPG/YPJ dentro in territorio turco, iraqeno e siriano. Con la militarizzazione, il coprifuoco, lo stato d’eccezione continuo, con i carri armati nelle strade.

In questo contesto l’AKP ha ottenuto il primo novembre il 49,5% dei voti e ha ottenuto 317 seggi parlamentari su 550. Sono calati al medesimo tempo i voti per l’MHP e per l’HDP che comunque è riuscito ad entrare in parlamento. Dopo le elezioni niente è cambiato, lo stato di guerra continua, basti pensare alla strage in corso a Silvan.

Sono state denunciate irregolarità dai partiti di opposizione, si è parlato anche di brogli. In effetti nello stato di guerra in cui si sono tenute le elezioni, con i militari nei seggi, con le città sottoposte al coprifuoco, con i quartieri fino a poche ore prima delle consultazioni assediati da cecchini e bombardati dai mortai, come si può pensare che le operazioni di voto si siano tenute regolarmente?

Tuttavia gli eventi degli ultimi mesi in Turchia ci dimostrano l’inganno del sistema elettorale, come forma di legittimazione e allo stesso tempo giustificazione dell’arroganza dello Stato.

Di fronte ai risultati delle elezioni del giugno scorso, che non rendevano possibile la creazione di un governo forte, lo Stato ha scatenato una guerra senza quartiere contro i rivoluzionari, ha attuato una politica di terrore e ha militarizzato la società, ha convocato nuove elezioni per formare un governo garante dell’ordine.

I fatti avvenuti in Turchia negli ultimi mesi ci mostrano come un partito possa accantonare totalmente la propria ideologia e i caratteri della propria identità pur di vincere le elezioni, a cosa possa arrivare un governo per mantenersi al potere, a quali mezzi possa ricorrere uno Stato perché non venga messo in discussione l’ordinamento politico e sociale.

Non possiamo correre il rischio di guardare a quello che accade in Turchia attraverso le lenti di un “orientalismo” che ci presenta gli eventi di quella regione come distanti e rispondenti ad altre categorie. Il potere, lo Stato, il capitale sono gli stessi ovunque. Non è la manifestazione di una tendenza al “dispotismo orientale”. La guerra, le stragi non sono un piatto tipico del cosiddetto Medio Oriente. Non solo perché la NATO, gli Stati europei, le potenze regionali, le monarchie arabe, la Russia, la Cina intervengono nell’area alimentando la guerra. Ma perché lo scenario anche nei paesi cosiddetti “occidentali” non è molto diverso.

I governi europei da anni hanno adottato un approccio autoritario e militare per imporre senza concessioni le politiche di austerità. La “solidarietà” nazionale, la coesione sociale, la sicurezza, il taglio degli sprechi, hanno appiattito il dibattito pubblico e la militarizzazione ha provato a mettere a tacere le proteste. I militari nelle strade, che aumentano ad ogni attentato terroristico, sono il vero veicolo del terrore e costituiscono uno stato d’eccezione permanente. La guerra è entrata nel linguaggio dei media come una banalità, è stata normalizzata, legittimata di fatto per garantire la sicurezza degli interessi del paese.

I fatti di Parigi, ci mostrano come la gente non possa morire solo nelle strade di Kobanê o di Cizre. Lo scontro tra gli Stati e le classi dominanti, che si pratichi con la guerra aperta o con la guerra asimmetrica e il terrorismo, semina sempre morte tra la popolazione in modo indiscriminato.

Quello che accade in Turchia ci mostra quanto sia necessario opporsi alle politiche di guerra degli Stati europei e della NATO, al fascismo dei governi, rilanciando l’internazionalismo. Perché lo stato d’eccezione, la guerra, il terrore non sono una condizione eccezionale ma rappresentano la vera natura dello Stato.

Dario Antonelli

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LA RIVOLUZIONE RUSSA IN UCRAINA – PRESENTAZIONE DEL II VOLUME DEL FUMETTO SU MAKHNO

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LA RIVOLUZIONE RUSSA IN UCRAINA

Sabato 21 novembre
ore 17,30
presso la Federazione Anarchica Livornese
Via degli Asili 33, Livorno

Presentazione del secondo volume
dell’albo a fumetti
LA RIVOLUZIONE RUSSA IN UCRAINA

Storia per immagini di Nestor Makhno e della rivoluzione dal 1917 al 1921

saranno presenti gli editori (Archivio Germinal di Carrara)
video intervista all’illustratore Jean Pierre Ducret

A seguire aperitivo e serata conviviale

COLLETTIVO ANARCHICO LIBERTARIO
FEDERAZIONE ANARCHICA LIVORNESE

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“Livorno non si piega!”: presenza solidale durante l’ultima udienza di giovedì 19

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“Livorno non si piega!”: presenza solidale durante l’ultima udienza di giovedì 19

Giovedì 19 novembre alle ore 9 si terrà l’udienza conclusiva del processo per i presidi e le manifestazioni del 30 novembre, 1 e 2 dicembre 2012. Il PM ha chiesto infatti di fare una replica alle arringhe conclusive degli avvocati difensori effettuate lo scorso 29 ottobre; la sentenza è prevista nella giornata. Arriva così a conclusione il primo grado di un processo avviato da oltre due anni e che ha manifestato essere una colossale montatura finalizzata a reprimere l’agibilità politica nella nostra città mirando a colpire i settori politicamente più attivi  con richieste di condanna che complessivamente assommano a ben 38 anni. Nella scorsa udienza la difesa ha efficacemente smontato il teorema dell’azione preordinata su tre giorni, mettendo in risalto le responsabilità delle forze dell’ordine in relazione ai fatti e segnalando le numerose irregolarità che nella conduzione del processo vi sono state.

Il Comitato fa appello a tutti coloro che hanno a cuore la libertà di manifestazione e di espressione del dissenso affinche  manifestino ancora una volta, come continuamente è stato fatto finora, il sostegno agli imputati attraverso una presenza solidale sotto il tribunale (via Falcone e Borsellino) nel corso dell’udienza di  giovedì 19 novembre, a partire dalle ore 9.
Comitato di solidarietà “Livorno non si piega!”

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Parigi: il cordoglio di Mattarella – comunicato CdC Federazione Anarchica Livornese

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Parigi: il cordoglio di Mattarella
Dopo aver graziato il killer di Arzago d’Adda, Sergio Mattarella, presidente della repubblica italiana, ha espresso il sostegno dello Stato italiano a quello francese, per “difendere i valori di democrazia, libertà, tolleranza su cui tutta l’Europa, oggi lacerata da un crimine senza precedenti, è stata fondata e si è sviluppata”.
Tutti sanno bene quale sia la “democrazia” e la “libertà” dei governanti: pistole contro gli studenti come a Pisa, manganelli contro gli insegnanti come a Napoli, sgomberi e deportazioni contro chi occupa come è successo in Via Asti a Torino.
Se quelle di Mattarella non fossero vuote parole, il presidente della repubblica dovrebbe chiedere al governo di iniziare passi concreti per isolare e combattere quelle forze che, nel complesso scacchiere del Medio Oriente, ostacolano la diffusione della democrazia, della libertà e della tolleranza. Accanto ad Israele ci sono gli emirati del Golfo, la monarchia saudita, la Turchia di Erdogan. Si tratta di governi autoritari che reprimono e combattono con violenza e terrore ogni aspirazione alla libertà nella regione. Sono governi ampiamente sostenuti economicamente e dipendenti politicamente dagli Stati Uniti e dal Regno Unito, fedeli alleati della NATO.
E’ credibile che Renzi e Mattarella abbiano il coraggio di mettere i piedi nel piatto ai padroni del mondo?
Del resto, se i paesi “occidentali” volessero veramente ridurre la violenza internazionale, dovrebbero rinunciare alle politiche di saccheggio, guerra e destabilizzazione che conducono nel Medio Oriente, in Africa e nel resto del mondo.

Esprimiamo tutto il cordoglio degli anarchici livornesi per le stragli di Parigi, e la solidarietà nei confronti dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime. Contro la guerra e il terrore degli stati, il 25 novembre saremo a Firenze, alla manifestazione indetta contro il vertice NATO, a contestare quell’alleanza che è una delle principali fonti dell’instabilità e del pericolo di guerra nel mondo.
La Commissione di Corrispondenza
della Federazione Anarchica Livornese

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4 novembre, non c’è niente da festeggiare!

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Con qualche giorno di ritardo pubblichiamo una foto dello striscione del presidio antimilitarista del 4 novembre in Piazza Cavour e il testo del volantino distribuito. Al presidio hanno preso parte circa una quarantina di persone, un buon risultato, dal momento che si trattava di un’iniziativa a carattere principalmente informativo.

4 novembre,

non c’è niente da festeggiare!

Il 4 novembre, festa delle forze armate, viene esaltata la guerra, vengono esaltati i massacri di ieri e di oggi in preparazione di quelli di domani: i “festeggiamenti” di oggi, sono solo un insieme di retorica patriottarda e guerrafondaia.

A sud e a nord del Mediterraneo, ad Est e a Ovest, in Israele, in Siria, in Egitto, in Turchia, gli stati, con la scusa del terrorismo scatenano guerre che si rivolgono principalmente contro le popolazioni e i civili massacrati sono dieci volte più numerosi dei militari morti.

Con la scusa del terrorismo il governo italiano ha sguinzagliato i militari nelle strade, un’altra missione, un altro saccheggio del pubblico erario.

Tutto questo ha un costo di vite umane, militari e civili e economico, in un periodo di crisi in cui si taglia su scuola, sanità, salari e pensioni

Nei giorni scorsi aerei occidentali hanno bombardato ospedali dediti alla cura delle vittime dei “danni collaterali”, allo stesso modo in Italia e nel resto dell’Europa viene bombardata la sanità con tagli e privatizzazioni. Tutto questo mentre non si accenna neppure lontanamente a ridurre le commesse per l’acquisto di nuove armi.

Ed è scandaloso, dato che almeno l’1,7% del nostro Pil è impiegato per armare e addestrare l’esercito, mentre alla ricerca e allo sviluppo viene destinato solo lo 0,5%.

Nel 2014 il Governo italiano ha impegnato 67 miliardi di euro per spese militari e armamenti. Ma a quanto ammontino veramente le spese militari è un mistero: la spesa è stata spezzettata tra varie voci, e assegnata solo in parte al bilancio della Difesa, in parte ai bilanci di altri ministri (come quello dello Sviluppo economico), le spese militari sono per giunta nascoste grazie al “segreto militare”.

Operazioni come quelle compiute dalla Turchia nel Kurdistan, con attentati che provocano migliaia di morti, non avvengono senza l’avallo o il tacito consenso dei servizi segreti, che sono integrati a livello internazionale con quelli degli Stati Uniti, sotto la copertura dell’alleanza atlantica.

Lo stesso si può dire dell’operazione Strade Sicure o del pattugliamento delle coste libiche deciso dal governo italiano.

La NATO è il braccio militare del Fondo Monetario Internazionale, e viceversa, il FMI è il braccio finanziario della NATO: fra i due organismi c’è collaborazione e scambio di dirigenti.

La guerra viene usata dagli stati come principale strumento di gestione della politica internazionale, della spartizione economica e delle aree di influenza.

La politica di guerra dell’esercito e del governo va contrastata con l’azione antimilitarista:

  • boicottando le iniziative di propaganda, come quella di oggi o come il TAN, che cercano di coinvolgere i giovani e la cittadinanza;

  • liberando le nostre strade dall’odiosa presenza di militari armati

  • denunciando il carattere guerrafondaio delle cerimonie commemorative;

  • sostenendo i movimenti popolari di lotta, come il movimento NO MUOS, quello contro gli F-35, quello contro le esercitazioni militari in Sardegna;

  • costruendo un movimento che con la lotta riesca a chiudere le basi militari straniere, a cacciare la NATO dall’Italia, a ritirare le truppe italiane dagli scenari di guerra.

Se vuoi la pace, denuncia, ostacola, combatti chi prepara la guerra!

Antimilitariste/i Livornesi

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4 NOVEMBRE, non c’è niente da festeggiare!

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4 NOVEMBRE, non c’è niente da festeggiare!

Il 4 novembre, festa delle forze armate, viene esaltata la guerra, vengono esaltati i massacri di ieri e di oggi in preparazione di quelli di domani: i “festeggiamenti” di oggi, sono solo un insieme di retorica patriottarda e guerrafondaia.

A sud e a nord del Mediterraneo, ad Est e a Ovest, in Israele, in Siria, in Egitto, in Turchia, gli stati, con la scusa del terrorismo scatenano guerre che si rivolgono principalmente contro le popolazioni e i civili massacrati sono dieci volte più numerosi dei militari morti.
Con la scusa del terrorismo il governo italiano ha sguinzagliato i militari nelle strade, un’altra missione, un altro saccheggio del pubblico erario.

Tutto questo ha un costo di vite umane, militari e civili e economico, in un periodo di crisi in cui si taglia su scuola, sanità, salari e pensioni
Nei giorni scorsi aerei occidentali hanno bombardato ospedali dediti alla cura delle vittime dei “danni collaterali”, allo stesso modo in Italia e nel resto dell’Europa viene bombardata la sanità con tagli e privatizzazioni. Tutto questo mentre non si accenna neppure lontanamente a ridurre le commesse per l’acquisto di nuove armi.
Ed è scandaloso, dato che almeno l’1,7% del nostro Pil è impiegato per armare e addestrare l’esercito, mentre alla ricerca e allo sviluppo viene destinato solo lo 0,5%.

Nel 2014 il Governo italiano ha impegnato 67 miliardi di euro per spese militari e armamenti. Ma a quanto ammontino veramente le spese militari è un mistero: la spesa è stata spezzettata tra varie voci, e assegnata solo in parte al bilancio della Difesa, in parte ai bilanci di altri ministri (come quello dello Sviluppo economico), le spese militari sono per giunta nascoste grazie al “segreto militare”.

Operazioni come quelle compiute dalla Turchia nel Kurdistan, con attentati che provocano migliaia di morti, non avvengono senza l’avallo o il tacito consenso dei servizi segreti, che sono integrati a livello internazionale con quelli degli Stati Uniti, sotto la copertura dell’alleanza atlantica.
Lo stesso si può dire dell’operazione Strade Sicure o del pattugliamento delle coste libiche deciso dal governo italiano.
La NATO è il braccio militare del Fondo Monetario Internazionale, e viceversa, il FMI è il braccio finanziario della NATO: fra i due organismi c’è collaborazione e scambio di dirigenti.
La guerra viene usata dagli stati come principale strumento di gestione della politica internazionale, della spartizione economica e delle aree di influenza.

La politica di guerra dell’esercito e del governo va contrastata con l’azione antimilitarista:

boicottando le iniziative di propaganda, come quella di oggi o come il TAN, che cercano di coinvolgere i giovani e la cittadinanza;
liberando le nostre strade dall’odiosa presenza di militari armati
denunciando il carattere guerrafondaio delle cerimonie commemorative;
sostenendo i movimenti popolari di lotta, come il movimento NO MUOS, quello contro gli F-35, quello contro le esercitazioni militari in Sardegna;
costruendo un movimento che con la lotta riesca a chiudere le basi militari straniere, a cacciare la NATO dall’Italia, a ritirare le truppe italiane dagli scenari di guerra.

Se vuoi la pace, denuncia, ostacola, combatti chi prepara la guerra!

Antimilitariste/i Livornesi

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CON LA ROJAVA LIBERA, CON L’AUTORGANIZZAZIONE KURDA

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COMUNICATO
L’assemblea di Anarchici Toscani, riunitasi a Firenze in data 25 ottobre 2015 ha deciso di aderire alla manifestazione di solidarietà con il popolo kurdo organizzata per il giorno sabato 31 ottobre a Firenze dalla Comunità Kurda e dalle reti di solidarietà.
Gli Anarchici Toscani saranno presenti in maniera organizzata al corteo che partirà da Piazza Santa Maria Novella alle ore 15,30 di sabato ed invitano tutti i compagni anarchici e libertari della Toscana a partecipare, dando vita con noi ad uno spezzone rosso-nero all’interno del corteo stesso.

L’Assemblea di Anarchici Toscani

Di seguito il testo del volantino che sarà distribuito

CON LA ROJAVA LIBERA, CON L’AUTORGANIZZAZIONE KURDA

Un anno fa, come in molte altre città, anche a Firenze si manifestava per sostenere Kobanê, la città che si trova a pochi chilometri dalla Turchia in Rojava, il Kurdistan occidentale in territorio siriano. La città allora era stretta sotto l’assedio da un lato delle truppe fasciste dello Stato Islamico e dall’altro dei soldati e dei carri armati dello Stato turco.

Gli Stati che assediavano Kobanê volevano distruggere un esempio di libertà, un’alternativa di autogoverno dal basso sviluppata dal movimento curdo assieme ai popoli della regione e basata su democrazia radicale, femminismo ed ecologismo. Un processo plurale in cui sono presenti attivamente, a fianco delle altre correnti rivoluzionarie, anche gli anarchici. Un processo rivoluzionario, iniziato nel 2012 che rappresenta un pericolo per le potenze regionali e mondiali.

Oggi grazie alla resistenza condotta dalle forze di autodifesa popolare YPG e YPJ la città di Kobanê è libera. La città, completamente distrutta dopo 4 mesi di assedio, si sta ripopolando e sta iniziando la ricostruzione. Ricostruire Kobanê significa ricostruire la società su nuove basi, ricostruire la vita. Sostenere oggi la ricostruzione di Kobanê significa quindi sostenere la rivoluzione sia nella Rojava, sia in Anatolia.

Lo Stato turco cerca con ogni mezzo di fermare i rivoluzionari, arrivando a scatenare una guerra entro i propri confini contro le opposizioni e l’intera popolazione. Città, villaggi e quartieri hanno dichiarato l’autogoverno anche nel territorio turco, per reagire alla repressione e per estendere il processo rivoluzionario. Il governo turco ha risposto con i carri armati, i cecchini, con il bombardamento delle case delle città ribelli e contro le postazioni del PKK.
Ha risposto il terrorismo: l’attentato di Amed (Diyarbakir) che ha colpito un comizio del Partito Democratico dei Popoli (HDP) nel giugno scorso; le bombe di luglio a Suruci (in cui sono stati uccisi anche 5 giovanissimi compagni anarchici), che hanno voluto colpire i giovani della sinistra rivoluzionaria turca; le bombe di Ankara lo scorso 10 ottobre contro una manifestazione sindacale, per colpire l’intera opposizione e il movimento sindacale, provocando centinaia di feriti e 128 morti, tra cui anche i nostri compagni Ali Kitapçi, ferroviere e anarcosindacalista di Ankara e Tayfun Benol, sindacalista e militante del gruppo anarchico DAF di Istanbul.

Questa politica di terrore condotta dallo Stato turco contro i rivoluzionari e contro la popolazione è sostenuta dalla NATO, che ha affermato di sostenere la lotta del governo turco “contro il terrorismo”. Le potenze mondiali e regionali che intervengono militarmente nell’area, dalla Russia agli Stati Uniti, dalla Francia alla Cina, si stanno scontrando per spartirsi la Siria e tutto il Medio Oriente, ma sono tutti d’accordo nel combattere la rivoluzione della Rojava. Il governo italiano guidato da Renzi che già interviene in Iraq con i ricognitori, sta valutando anche operazioni di bombardamento.

CONTRO IL TERRORISMO DELLO STATO TURCO!

CONTRO LA GUERRA CONDOTTA DALLA NATO E DALLE ALTRE POTENZE PER SPARTIRSI IL MEDIO ORIENTE!

SOSTENIAMO LA RIVOLUZIONE DELLA ROJAVA, PER UNA SOCIETA’ LIBERA E AUTOGESTITA!

SOSTENIAMO LA LOTTA PER LA LIBERAZIONE DI TUTTI GLI SFRUTTATI IN ANATOLIA E MESOPOTAMIA!

Anarchici Toscani

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