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NOSTRA PATRIA È IL MONDO INTERO!

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NOSTRA PATRIA È IL MONDO INTERO!

Da Ventimiglia a Calais fino all’Ungheria la repressione e il blocco dei profughi alle frontiere dell’Europa dimostra come le stragi in mare o nei TIR non siano tragiche fatalità ma il frutto delle politiche messe in atto dai governi europei.
Politiche di guerra nel contesto di una sempre maggiore tensione nello scontro tra le potenze per accaparrarsi le risorse e trovare manodopera a basso costo da sfruttare.
Politiche razziste che limitano la libertà di movimento di coloro che fuggono da condizioni di guerra e miseria, creando forze speciali di polizia come FRONTEX, costruendo centri di espulsione, veri e propri lager, dove migliaia di persone sono detenute solo perché clandestine, costrette a vivere in situazioni disumane, a subire violenze e maltrattamenti.

Negli ultimi mesi i vari governi europei hanno assunto posizioni differenti riguardo all’accoglienza dei profughi; infatti mentre alcuni governi hanno deciso di chiudere le frontiere, altri si sono dichiarati disponibili a ricevere profughi, altri ancora hanno cambiato posizione, anche più volte, nelle ultime settimane. Questa diversità di posizioni è causata dalla concorrenza tra gli Stati e dalle differenti esigenze politiche ed economiche che orientano i vari governi nella gestione del movimento dei profughi che rappresenta allo stesso tempo una massa difficile da controllare e una utile riserva di manodopera a basso costo.
Non esistono quindi governi “umanitari” disposti all’accoglienza, ma solo governi interessati a gestire nuovi flussi di lavoratori immigrati ricattabili e sottopagati. Così come le politiche razziste e la propaganda xenofoba non servono a fermare alcuna fantomatica “invasione” ma ad alimentare il razzismo, criminalizzando le persone immigrate, per dividere i lavoratori tra locali e stranieri, rompendo la solidarietà di classe e assicurando sempre maggior potere, profitti e privilegi per chi ci governa e ci sfrutta.

I profughi e i cosiddetti “immigrati economici” fuggono tutti dalla stessa guerra. Sia che si tratti di conflitti armati, spesso con l’intervento più o meno diretto di potenze mondiali o regionali, sia che si tratti del saccheggio delle risorse, delle nuove forme di colonialismo che creano miseria e disoccupazione. È la stessa guerra che in Italia come negli altri paesi europei subiamo tutti i giorni. La guerra condotta dagli sfruttatori contro gli sfruttati, dai governanti contro i governati.
La solidarietà tra gli sfruttati di ogni paese è quindi l’unica risposta possibile alla miseria, alla guerra e all’oppressione imposte dal potere politico ed economico in tutto il mondo.

La solidarietà si pratica con l’azione diretta a sostegno di chi cerca di superare i controlli alle frontiere, come succede a Ventimiglia e a Calais; la solidarietà si pratica nelle lotte, sul lavoro come per la casa, creando spazi di confronto e azione collettiva; la solidarietà si pratica unendosi e organizzandosi di fronte ai ricatti e alla repressione. Per liberarci dai padroni che ci vorrebbero divisi e in lotta gli uni contro gli altri per un pugno di euro. Per liberarci dagli Stati, che impongono frontiere e polizie, che sfruttano questa ennesima “emergenza profughi” per costruire nuovi campi di concentramento, per militarizzare le città e le frontiere, e per giustificare la guerra, come hanno fatto Francia e Inghilterra lanciando nuovi raid aerei in Siria.
CONTRO LA GUERRA E LA MILITARIZZAZIONE

CONTRO LE POLITICHE RAZZISTE DEI GOVERNI

CHIUDERE SUBITO I C.I.E. E TUTTI I LUOGHI DI DETENZIONE E CONCENTRAMENTO

Se in Toscana ad oggi non è presente un C.I.E. è soprattutto grazie a chi si schierò nel 2010 contro la giunta regionale guidata da Rossi, organizzando comitati e promuovendo assemblee, iniziative e manifestazioni in molte città. Questo per ricordarci che anche la lotta contro le politiche razziste può conseguire dei risultati.

PER UN MONDO SENZA STATI NÉ FRONTIERE
SOLIDARIETA’ AUTORGANIZZAZIONE AZIONE DIRETTA

Collettivo Anarchico Libertario

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Grecia: MEDITERRANEAN ANARCHIST MEETING 10 GIORNI DI EVENTI-DISCUSSIONI-AZIONI 09-18 OTTOBRE 2015

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MEDITERRANEAN ANARCHIST MEETING
10 GIORNI DI EVENTI-DISCUSSIONI-AZIONI
09-18 OTTOBRE 2015
incontro conclusivo: 16-18 ottobre, Chania, Crete

La Campagna anarchica Internazionalista di Solidarietà “Tre Ponti”, con il sostegno attivo di IFA-IAF (Internazionale di Federazioni Anarchiche) organizza un Meeting Anarchico del Mediterraneo in Grecia, dal 9-18 OTTOBRE 2015. Questa riunione di 10 giorni sarà piena di eventi-dibattiti-azioni aperte, che si terranno nelle città / località delle realtà locali, singoli o gruppi greci che partecipano alla campagna “tre ponti” (Atene, Salonicco, Patrasso, Larissa, Chania, Heraklion,
Rethymno). Allo stesso tempo, saranno organizzati gruppi di discussione tematici, con la partecipazione di compagni di federazioni anarchiche nazionali o regionali, gruppi anarchici o singol* compagn*, organizzazioni anarco-sindacaliste, squat anarchici/libertari, etc.
I 3 GIORNI di EVENTI-e di DISCUSSIONI TEMATICHE, a Chania, Creta dal 16 -18 ottobre, saranno il fulcro del MAM.
Il MAM ha l’obiettivo di costruire un contatto diretto, così come relazioni di conoscenza e di interscambio di esperienze, tra gli anarchici e le anarchiche che vivono e agiscono nel bacino del
Mediterraneo. Durante il Mediterranean Anarchist Meeting intendiamo affrontare temi come la questione degli immigrati, dei rifugiati, la minaccia del fondamentalismo religioso, la lotta per il
confederalismo democratico nelle regioni curde, la crisi economica, la disoccupazione e la povertà, l’ascesa del nazionalismo in generale ed in particolare nei Balcani, il conflitto militare in Crimea, le lotte contro la distruzione ecologica di vaste aree, l’emergere di comunità auto-organizzate, la repressione di stato e le lotte anarchiche in ogni paese.
In questo angolo di mondo, numerose e implacabili domande vengono sollevate. Per questo motivo esatto, ci si aspetta di esplorare i percorsi che costruiamo, o ragionare su quelli che dovremmo seguire per avere una risposta a queste domande. Quel che è certo è che solo la solidarietà internazionalista di coloro che lottano dal basso può essere l’aspetto principale alla base di queste
risposte. Questa solidarietà deve essere espressa attraverso l’effettiva costruzione di ponti di cooperazione e di solidarietà con un carattere internazionalista, in modo da oltrepassare qualsiasi
limitazione o abbattere il muro del dominio dello Stato e del capitalismo, così come del totalitarismo sostenuto dall’esistenza del razzismo, del nazionalismo e del fondamentalismo religioso.
Three Bridges Anarchist Campaign of International Solidarity
http://3gefires.org/en/mediterranean-anarchist-meeting

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Contro i meccanismi repressivi del governo turco

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Contro i meccanismi repressivi del governo turco

Suruç è una delle città curde in territorio turco più vicine a Kobane, non solo geograficamente ma anche per la sua componente demografica e per il ruolo politico che essa ricopre.
Suruç è infatti una delle basi più importanti per il movimento di solidarietà alla rivoluzione in Rojava. Dopo la strage al centro culturale Amara nel centro della città, dove hanno perso la vita più di trenta persone, tra cui anche cinque compagni anarchici, la città è stata testimone di continue tensioni con il governo turco.
Già nella giornata dell’attentato, infatti, numerosi attivisti della SGDF (Federazione delle Associazioni dei Giovani Socialisti), si trovavano presso il centro culturale per una conferenza stampa in cui stavano denunciando la repressione attuata dal governo turco, il quale aveva negato il permesso ai giovani militanti di passare il confine per lavorare a progetti di ricostruzione della città di Kobane. Pochi minuti dopo l’esplosione, difatti, le prime sirene udite dalle persone presenti nei dintorni, non sono state quelle delle ambulanze bensì quelle delle polizia, accorse per reprimere la rabbia della popolazione.
Nei giorni successivi all’attentato, il governo turco ha iniziato una campagna repressiva violentissima contro la sinistra rivoluzionaria turca, contro ogni gruppo organizzato e singoli che presentassero qualsiasi forma di opposizione radicale al governo turco e supporto alla resistenza curda. Inoltre il governo ha lanciato una pesantissima operazione militare contro il PKK, nel Kurdistan in territorio iracheno ed in alcuni villaggi e città del Kurdistan in territorio turco, mietendo molte vittime fra i civili. Il tutto, non a caso, è stato accompagnato da un’operazione di propaganda che ha utilizzato l’attacco ad Amara, che rispondeva perfettamente agli interessi del governo turco e dei suoi sicari di bloccare qualsiasi forma di attività rivoluzionaria nella regione, per fermare una volta per tutte l’attività di solidarietà, con la scusa di una operazione generale contro il terrorismo a guardia della sicurezza interna.
Tra i gruppi colpiti dalla repressione, che ha posto sullo stesso livello militanti della sinistra rivoluzionaria turca e curda con sedicenti membri dello Stato Islamico, vi sono difatti tutti quei soggetti che, come la SDGF, organizzano e si attivano per un supporto diretto ai processi rivoluzionari in Rojava ed alla resistenza contro lo stato turco ed il suo fedele alleato IS.
A riprova dell’attuazione di un progetto repressivo contro qualsiasi oppositore scomodo ai progetti dello stato turco vi è l’imminente opera di rafforzamento dei controlli nella città di Suruç ed in particolare al centro Amara.
Rispetto a diversi mesi fa, infatti, il centro è stato messo sotto stretto controllo da parte delle autorità turche. All’interno della struttura, la polizia, in collaborazione con le autorità nazionali sul territorio, ha posto un ingente numero di telecamere e piazzato microfoni in svariati angoli del centro. Un messaggio chiaro da parte dello stato turco verso chiunque si voglia avvicinare al centro per costruire nuovi meccanismi di solidarietà ed attuare progetti di ricostruzione sociale nel territorio della Rojava e non solo.
Un messaggio che mette in evidenza ancor di più il ruolo che la Turchia, con il suo terrorismo di stato ha avuto nell’esplosione avvenuta al centro Amara. Una mano pesante sulla quale non si debbono fare riflessioni in termini di terrorismo indiscriminato. Una pistola puntata volutamente alla testa di quei militanti che ha avuto come scopo quello di eliminare fisicamente dei giovani rivoluzionari che, con i loro progetti reali, mettevano seriamente a rischio i progetti distruttivi dello stato turco e dei suoi sicari.
Non è neanche un caso osservare come nelle ultime settimane l’area sia stata il teatro di un incremento pesante della presenza di militari e di polizia, già ben consolidati sul territorio dopo l’inizio del processo rivoluzionario in Rojava nel 2013. Camminando per le vie della città, soprattutto nelle ore serali, la presenza di militari, blindati e personale armato si fa pesante e minacciosa.
Nonostante il clima di terrore diffuso dalla Turchia e le minacce perpetrate dallo stato turco a chiunque si fosse permesso nella zona di svolgere incontri, manifestazioni o presidi, Suruç ed in particolar modo alcuni villaggi circostanti hanno continuato ad essere un’importante base per il movimento di solidarietà alla resistenza curda.
A dimostrazione del fatto che la Turchia, nonostante il suo permeante apparato repressivo e la stretta autoritaria e violenta perpetuatasi negli ultimi mesi, non possa in alcun modo entrare nei meccanismi di solidarietà costruitesi con un aumento generale dell’opposizione sociale, vi sono alcune esperienze di solidarietà attiva che ancora oggi mettono sotto costante pressione lo stato turco. Tali esperienze si sviluppano principalmente in alcuni caseggiati situati in prossimità della linea del confine tra Turchia e Syria.
A ridosso del confine turco-siriano, vi è difatti un villaggio che negli ultimi due anni ha assunto una rilevanza fondamentale nelle dinamiche di solidarietà con l’esperienza rivoluzionaria in Rojava: Mehser.
Questo abitato ha ospitato a metà Agosto l’assemblea di alcuni familiari dei martiri delle milizie YPG-YPJ, che attendono di ricevere i corpi dei propri cari morti in battaglia contro ISIS, bloccati al confine tra Syria e Turchia. Il governo turco, da svariati giorni, sta difatti impedendo alle salme di entrare nel territorio della Repubblica Turca, detenendo i corpi sul confine, proibendo ai familiari di poter ricevere le salme per poter svolgere i funerali.
Quando si parla di martiri YPJ-YPG ci riferiamo a tutti coloro che sono morti tra le file della resistenza curda contro lo Stato Islamico ed i suoi alleati in Syria ed altrove.
A Mehser, per l’appunto, la costruzione progressiva di reti di solidarietà, accanto un senso collettivo di coscienza della situazione di tormentata oppressione, rendono forte la necessità di un cambiamento sociale radicale. Le famiglie, infatti, non sono lì solo per rivendicare i propri familiari e confortarsi a vicenda. Esse presentano una sorta di autodifesa organizzata dal basso contro una concreta azione repressiva del governo turco, che si è accanita anche sui caduti che rappresentano uno dei simboli della resistenza. I caratteri organizzativi delle famiglie dimostrano che l’intervento attuato dalla solidarietà lungo il confine non riguarda fattori personali o strettamente legati alla esclusiva vicenda dei martiri. L’assemblea delle famiglie rappresenta uno dei punti d’incontro ad oggi più importanti in queste aree, per una discussione generale sulle manovre repressive dello stato turco e sulle strategie politiche da attuare per supportare in maniera diretta l’esperienza rivoluzionaria in Rojava. Questa è la ragione per la quale il raduno delle famiglie con la loro costante presenza nel villaggio si lega a tutta ad una serie di attività che si radicano in tutto il territorio anatolico.
Mentre lo stato turco continua ad impiegare la sua coercizione tramite il suo forte apparato gerarchico, utilizzando la tortura dell’attesa per piegare la volontà delle famiglie, la resistenza e la solidarietà agiscono attraverso diverse reti che si sono radicate in tutto il contesto sociale anatolico. La solidarietà in queste aree funziona attraverso micro relazioni sociali e strutture assembleari che riescono, ormai da diverso tempo, a scavalcare completamente l’apparato repressivo turco.
L’assemblea delle famiglie dei martiri ha presidiato il territorio di confine per più di sette giorni. Ogni sera i solidali accorsi da ogni parte della Turchia si radunano in un’assemblea congiunta per decidere le mosse da attuare per il prosieguo della lotta.
Tra i presenti all’assemblea nel villaggio anche il Partito Democratico Dei Popoli (HDP) con alcuni rappresentanti appena eletti nel parlamento della Repubblica Turca. L’HDP presidia con le famiglie ed i solidali la zona cercando di aprire dei negoziati con le autorità nazionali sul territorio. Le trattative con Ankara sono però sino ad oggi fallite ed il governo nazionale non ha dato risposte chiare sulla vicenda ai familiari.
Nonostante ciò le famiglie si sono rifiutate di cessare l’assemblea ed hanno deciso autonomamente di spostarsi nella sede del DBP (partito locale gemello dell’HDP) in modo da seguire più da vicino e fare pressione sui negoziati tra HDP ed Ankara. Ogni giorno sino alle ultime ore di luce, le famiglie hanno continuato a tentare di arrivare ad una soluzione accettabile con lo stato turco che però è rimasto fermo sulle sue posizioni, affermando che non vi sarebbe stata alcuna possibilità che i corpi dei “terroristi” (così chiamati dalle autorità turche) potessero passare la frontiera.
Alla fine dell’ultima giornata passata nelle stanze della sede del DBP, le famiglie decidono stremate di rientrare nelle proprie città di origine in Anatolia, senza naturalmente rinunciare ad alcuna forma di lotta alternativa. Si pensano così altre strategie politiche per risolvere il caso specifico e placare la lunga sofferenza per la perdita dei propri cari, oltre al disprezzo subito da essi per mano dello stato turco.
L’atteggiamento ostinato delle famiglie nel non voler abbandonare il territorio sino all’ultimo istante della trattativa tra un partito ed il governo dimostra l’importanza della creazione di catene di solidarietà dal basso che danno una direzione ben precisa all’intero movimento di resistenza.
Per ora, infatti è bene notare che sia in Rojava che nel Kurdistan in territorio turco il protagonismo della popolazione nella sua pluralità, la presenza radicata di gruppi rivoluzionari e l’autodifesa popolare nelle sue diverse forme, rendono possibile l’apertura di nuove prospettive rivoluzionarie nell’area.

Report dal Kurdistan, agosto 2015
Giacomo Sini
Francesca Şimdi

Questo articolo è stato pubblicato sul settimanale anarchico Umanità Nova.
Umanità Nova si può trovare anche a Livorno presso le edicole di Via Garibaldi 7, di Piazza Damiano Chiesa, di Piazza Grande (angolo Bar Sole), di Viale Carducci (angolo Via del Risorgimento), di Viale di Antignano 110, di Piazza Micheli (lato Quattro mori), di Piazza della Vittoria (angolo Via Magenta) presso il Bar Dolcenera in Via della Madonna (angolo Viale degli Avvalorati), la Libreria Belforte in Via Roma 69 e presso la sede della Federazione Anarchica Livornese in Via degli Asili 33 (apertura ogni giovedì dalle ore 18 alle ore 20).

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Idea d’Amor (libere visioni dell’anarchico Pietro Gori)

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IDEA D’AMOR (LIBERE VISIONI DELL’ANARCHICO PIETRO GORI)

una produzione Teatrofficina Refugio in collaborazione con Federazione Anarchica Livornese

da giovedi 24 a mercoledi 30 settembre al Teatrofficina Refugio, Scali del Refugio 8, Livorno

ore 22 posto unico cinque euro

testi Pietro Gori
studio e ricerche a cura di Teatrofficina Refugio e Federazione Anarchica Livornese
adattamento Emiliano Dominici e Patrizia nesti
musiche originali Alessandra Falca

con Paolo Spartaco Palazzi, Alessandra Falca, Emilia Trevisani, Assad Zaman, Giacomo La Rosa, Chiara Lazzerini, Riccardo Prianti, Romeo Domilici

aiuto regia Elisabetta Cipolli
capo tecnico Selvaggio Casella
luci Martina Di Domenico

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L’esercito nelle strade protegge le politiche antipopolari del governo

Dall’opuscolo: LA GUERRA DEL GOVERNO CONTRO GLI SFRUTTATI

4. L’esercito nelle strade protegge le politiche antipopolari del governo

Dal marzo scorso anche a Livorno sono stati schierati i soldati nelle strade della città.
A inizio anno infatti è stata ulteriormente prorogata l’Operazione Strade Sicure, inaugurata nel 2008 dall’allora Ministro della Difesa Ignazio La Russa e definita dalla legge 25 del 24 luglio 2008, il cosiddetto “Pacchetto Sicurezza” che prevedeva, insieme ad altre misure repressive, l’utilizzo delle Forze armate per attività di pubblica sicurezza nelle città. In questi anni sono state impiegate soprattutto unità dell’Esercito, ma anche dell’Aeronautica, della Marina e dell’Arma dei Carabinieri. Con la proroga di inizio 2015 si è avuto un rafforzamento dell’operazione con un incremento da 3000 a 4500 nel numero dei militari schierati e con il coinvolgimento di altre città nell’operazione. È così che in alcune città toscane e pure a Livorno sono arrivati i militari nelle strade.

Ad inizio anno il Ministero degli Interni ha chiesto a tutte le prefetture se sui rispettivi territori vi fosse bisogno dell’impiego di un contingente militare per controlli antiterrorismo e per la vigilanza dei cosiddetti siti sensibili. La decisione in questi casi spetta quindi al Ministero e alle prefetture, che possono decidere anche in che modo schierare il contingente, se attraverso presidi fissi o perlustrazioni lungo le strade cittadine.
La Prefettura di Livorno, come in Toscana quella di Lucca, Firenze e Prato, ha deciso di schierare i soldati nelle strade in funzione antiterrorismo, ed il compito è stato assegnato alla Brigata Paracadutisti Folgore. Per questo dalla seconda metà di marzo si vedono per le strade della città paracadutisti in assetto da guerra, a piedi o su mezzi dell’esercito, che imbracciano mitragliatori. Trattandosi di un’operazione antiterrorismo l’ingaggio è militare, dicono dalle prefetture per giustificare le armi da guerra in dotazione alle truppe che girano per le città. Ma la “minaccia islamica” è una menzogna, un pretesto utilizzato anche dalla stampa locale.

In realtà siamo di fronte a politiche di sicurezza fortemente autoritarie condotte in modo trasversale dai governi che si sono susseguiti negli ultimi sette anni. Non si tratta né di una misura d’urgenza adottata dopo gli attentati di Parigi e di Tunisi di inizio 2015, né di “eccezionali esigenze di prevenzione della criminalità” come recitava la legge del 2008 che isitituiva il concorso delle Forze armate nel controllo del territorio. Non stiamo quindi parlando di casi eccezionali, della gestione militare di un’emergenza, che sarebbe comunque una grave forma di militarizzazione, ma di una linea generale in materia di sicurezza, centrata sull’impiego dei militari a scopo di sicurezza interna, adottata dai differenti governi che si sono succeduti.

Con i militari nelle strade si esaspera la percezione della “minaccia” del terrorismo e della criminalità, si tenta di giustificare e normalizzare l’impiego delle Forze armate nel controllo del territorio, ma anche nella repressione di proteste popolari.

Ad aprire la strada all’Operazione Strade Sicure è stata la gestione militare dell’emergenza rifiuti in Campania del 2008. Il governo allora decise, dopo una grande campagna mediatica, di gestire l’emergenza manu militari, per fronteggiare la determinata opposizione della popolazione. Venne proclamato lo stato di emergenza, venne nominato Sottosegretario per l’emergenza rifiuti Guido Bertolaso allora Capo del Dipartimento della Protezione Civile, infine le discariche vennero dichiarate siti di interesse strategico, da tutelare quindi anche attraverso l’impiego delle Forze armate. Questi provvedimenti, previsti in un decreto del maggio 2008, divennero legge nel luglio dello stesso anno, una decina di giorni prima dell’approvazione del pacchetto sicurezza che dette il via all’Operazione Strade Sicure.

Ma l’esempio più eclatante dell’utilizzo delle Forze armate a scopo di repressione interna si ha in Val di Susa. Dal primo gennaio 2012 è stata dichiarata area di interesse strategico nazionale La Maddalena di Chiomonte, dove sorge il cantiere per il tunnel geognostico della linea Torino-Lione della TAV, a cui si oppone il vasto movimento NO TAV, radicato a livello locale nella popolazione e diffuso a livello nazionale. Già da anni la Val di Susa era di fatto militarizzata da polizia e carabinieri, impiegati dal governo per fronteggiare la determinazione del movimento di opposizione alla linea TAV. Lo schieramento delle Forze armate ha aumentato enormemente la militarizzazione, trasformando la Valle in terra d’occupazione, in fronte di guerra. A Chiomonte c’è un soldato ogni due abitanti, sono stati schierati contro i manifestanti gli alpini reduci dell’Afghanistan, ci sono posti di blocco, pattugliamenti, elicotteri, uomini e mezzi schierati nelle strade e nei boschi.

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La gestione militare dell’emergenza rifiuti in Campania e la militarizzazione della Val di Susa ben rappresentano la linea politica volta all’impiego delle Forze armate a scopo di repressione interna portata avanti dai governi che si sono succeduti negli ultimi anni. L’Operazione Strade Sicure, con il coinvolgimento dei soldati nel controllo delle città serve quindi a normalizzare l’uso repressivo delle Forze armate. Una militarizzazione della sicurezza interna e una sovrapposizione dei ruoli degli apparati dello Stato, che avviene in parallelo ai cambiamenti che da circa un decennio sono in atto nelle Forze armate e nei Corpi dello Stato, orientati principalmente ad una riorganizzazione in senso di coesione, specializzazione e operatività. Questo avviene nelle Forze armate, ad esempio con la creazione di unità di intervento rapido, e avviene nella Polizia e negli altri Corpi come una forma di rimilitarizzazione.

Il vero problema non sta nel tipo di divisa che indossa chi esercita nelle strade la repressione dello Stato, ma nel fatto che ci troviamo di fronte ad una guerra del governo contro i lavoratori e le lavoratrici, contro gran parte della popolazione. È una guerra che c’è sempre stata, ma che recentemente si è fatta più aspra e diretta. Per questo si schierano anche i soldati nelle strade e le truppe occupano quei territori in cui la protesta popolare si fa più determinata.

Negli ultimi anni i governi che si sono succeduti hanno infatti condotto una vera e propria guerra sociale contro la classe lavoratrice. Nel 2012, quando ancora era alla guida del governo, Monti disse che per l’Italia si prospettava un “percorso di guerra”, riferendosi alle cosiddette politiche di austerità. L’imposizione senza appello di politiche di attacco alla classe lavoratrice, di difesa degli interssi padronali e dei grandi privilegi infatti non può essere gestita che in modo militare.
Quindi opporsi alla repressione ed in particolare alla militarizzazione e all’impiego delle Forze armate nella sicurezza interna è una parte indispensabile della lotta contro le politiche del governo.

È necessario rilanciare e diffondere l’antimilitarismo, smascherando la sempre più stretta continuità tra la guerra condotta dentro i confini nazionalie quella condotta al di fuori di essi. In entrambi i casi si bombarda, si pratica la repressione, l’occupazione militare e il saccheggio per assicurare gli interessi dei potenti e del grande capitale.

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Blocco contratti del pubblico impiego: derubare i lavoratori per ingrassare i capitalisti

Dall’opuscolo: LA GUERRA DEL GOVERNO CONTRO GLI SFRUTTATI

3. Blocco contratti del pubblico impiego: derubare i lavoratori per ingrassare i capitalisti

Nella lettera che la BCE scrisse, con firma congiunta Trichet e Draghi, al governo italiano nell’agosto 2011 indicando le misure che dovevano essere prese per risanare il bilancio statale si leggeva fra l’altro:
E’ possibile intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l’età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo dei risparmi già nel 2012. Inoltre, il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover e, se necessario, riducendo gli stipendi.

Il governo Berlusconi aveva in realtà già provveduto a bloccare i contratti degli impiegati pubblici fin dall’anno prima, riducendo di fatto gli stipendi agli statali. Stipendi che di fatto erano già fermi visto che ormai da almeno 10 anni il rinnovo contrattuale nel pubblico impiego si limitava a reintegrare solo l’inflazione programmata dal governo (e quindi neppure quella reale, sempre superiore) e quindi non comportava di fatto aumenti reali. Il blocco deciso da Berlusconi verrà poi confermata sia dal governo Monti, il “sobrio” tecnico inviatoci dai poteri forti della finanza europea, che da quello Letta, un altro politico molto ben visto in tali ambienti, che da quello Renzi, lo scendiletto di Francoforte e Bruxelles.
Seguendo le indicazioni della BCE (si scrive indicazioni si legge diktat), il governo Monti operò un blocco degli aumenti delle pensioni superiori ai 1500 euro lordi, in pratica operando lo stesso meccanismo già sperimentato sui contratti pubblici.

Dopo le sentenze della Corte Costituzionale che ha sancito l’incostituzionalità sia del blocco delle pensioni che di quello dei contratti statali, sappiamo che buona parte del “risanamento” operato dai vari governi succedutesi negli ultimi anni è stato fatto sulla pelle di queste due categorie: 50 miliardi di euro che il governo ha risparmiato e che vanno aggiunti ai tagli sulla sanità, sulla scuola, sui servizi sociali. Segni indelebili sulla società italiana a cui vanno sommati la disoccupazione giovanile di massa, la precarizzazione dei rapporti di lavoro, i licenziamenti, ecc. al fine di realizzare quella contrazione della domanda interna (per diminuire le importazioni e favorire le esportazioni, panacea di tutti i mali, secondo le sanguisughe della finanza mondiale).
E’ evidente come i governi violino ormai abitualmente le leggi dello Stato: la Corte costituzionale ha evidenziato la illegittimità dei provvedimenti sul contratto degli statali e sul blocco delle pensioni, ma è recente la decisione di far riaprire con un decreto legge governativo gli stabilimenti di Monfalcone e Taranto, bloccati da provvedimenti della magistratura dopo gravi inadempienze delle Società Fincantieri e Ilva. Il tutto con la scusa di salvaguardare i posti di lavoro!

Per tornare ai dipendenti pubblici è stato calcolato che il blocco dei contratti sia costato, in media, circa il 10% dei loro salari per un totale di circa 35 miliardi di euro in cinque anni, mentre negli ultimi anni si sono persi 221mila posti di lavoro nel pubblico impiego. Soldi che lo stato ha risparmiato e che sono serviti a ripagare il debito verso gli speculatori internazionali, a finanziare le spese e le avventure militari all’estero, a salvare le banche. E’ notizia di questi giorni che lo Stato italiano è divenuto il secondo socio per importanza del Monte dei Paschi di Siena grazie ad un prestito, mai restituito, di circa 5 miliardi di euro.
Insomma: un enorme travaso di soldi dalle tasche dei lavoratori, dei pensionati, dei precari a quelle dei capitalisti.

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La buona scuola: il jobs act nell’istruzione

Dall’opuscolo: LA GUERRA DEL GOVERNO CONTRO GLI SFRUTTATI

2. La buona scuola: il jobs act nell’istruzione

Una ristrutturazione selvaggia chiamata “riforma”
Dopo che la riforma Gelmini aveva ridotto drasticamente, appena cinque anni fa, posti di lavoro e ore di insegnamento per gli studenti, dopo che le leggi di stabilità hanno imposto ulteriori tagli al settore dell’istruzione, la riforma Renzi- Giannini stucchevolmente denominata “la buona scuola” modifica radicalmente l’assetto della scuola pubblica, che assume un impianto rigidamente aziendalistico, senza eguali nel pubblico impiego:

– immissione in ruolo per un numero di precari assai inferiore alle necessità, con posizione diversificata: alcuni saranno assunti su posto reali, altri con funzioni di tappabuchi su un ambito territoriale non definito.
– perdita della titolarità di sede per il personale di ruolo (in caso di esubero il docente non viene più trasferito secondo una graduatoria, ma deve andare a proporre il proprio curricolo affidandosi alla discrezionalità di un preside che sia disposto ad assumerlo
– chiamata diretta del preside , che può assumere discrezionalmente senza seguire criteri omogenei
– valutazione del personale, anche per l’attribuzione di eventuali premi salariali, affidata anche a soggetti esterni al rapporto di lavoro
– intervento del privato (sponsor) con finanziamenti e donazioni
– introduzione massiccia dell’apprendistato (fino a 400 ore annue, pari a circa 12 settimane di scuola in cui lo studente cessa di essere tale per divenire un apprendista affittato al mercato della precarietà).

Oltre agli effetti diretti di queste misure, la riforma punta anche un potenziamento della gerarchia già presente nella scuola, con rigido controllo delle metodologie didattiche, degli stili di apprendimento, degli orientamenti culturali, con la diffusione generalizzata della impostazione competitivo meritocratica e della logica produttivistica sia tra gli studenti che tra i docenti.

Le linee ispiratrici di questa politica sono rintracciabili con chiarezze nelle indicazioni sistematicamente fornite ai governi da associazioni – una per tutte la famigerata TREELLE- che comprendono nomi di spicco del settore confindustriale, bancario, delle organizzazioni cattoliche, evidenziando un’illuminante convergenza tra destra imprenditoriale e grandi nomi del PD.

Ma ovviamente queste direttrici si intrecciano con quelle più generali, riconducibili agli orientamenti europei che hanno determinato, nel tempo, la ridefinizione del settore scuola sopratutto nella ricerca di uno standard. Lo standard è un elemento fondamentale nella logica produttivistica, basata sulla definizione delle caratteristiche di un prodotto e nella misurazione delle fasi della lavorazione finalizzata a produrre “quel” prodotto. Per misurare occorre segmentare, suddividere in fasi, analizzare il processo produttivo per verificare la qualità del prodotto finale.
Da qui i vari test nazionali ( Invalsi), internazionali per le scuole superiori (OCSE PISA, commissionato, tra lgli altri, da settori economici privati WTO), internazionali per l’università (processo di Bologna) tutti rivolti a valutare qualità e produttività secondo uno standard.

Ma che cosa significa produttività a scuola? Significa favorire il processo di crescita di ciascuno, secondo le proprie caratteristiche e i tempi individuali di maturazione o significa escludere, selezionare, scartare ? E’ più produttivo e quindi meritevole anche di un maggior stipendio l’insegnante che boccia o quello che promuove? Che cosa misuriamo? la quantità di promossi oppure di bocciati? Che cosa significa tendere ad uno standard in un contesto che dovrebbe valorizzare l’individualizzazione dell’insegnamento e lo sviluppo delle potenzialità di ciascuno? E riferirsi ad uno standard, non significa forse escludere totalmente chi è per ovvi motivi fuori standard, come il disabile, lo straniero, l’alunno in svantaggio sociale e culturale ?

Per la sua tipicità, il settore dell’insegnamento non è sensatamente riconducibile ad un sistema di misurazione di produttività. Ed allora, volendo a tutti i costi seguire questa strada, nell’impossibilità di misurare l’essenza della relazione educativa, si agisce sul livello sovrastrutturale surrettiziamente introdotto con la radicalizzazione della gerarchia, la precarizzazione dei posti di lavoro, la figura del preside sceriffo che i criteri se li inventa, per esibire una logica del controllo spacciata per valutazione del merito e della produttività.

Un anno di lotte
L’opposizione alla riforma Renzi-Giannini è stata fin dall’inizio molto vasta ed ha coinvolto, oltre a moltissimi lavoratori, l’intero arco delle sigle sindacali, tanto che il Governo, per arrivare velocemente all’approvazione, ha dovuto rompere ogni contatto con le parti sociali e procedere con tutto l’autoritarismo possibile, niente concedendo nemmeno a banali norme di galateo democratico.

Se l’unità è sempre apprezzabile, va comunque sottolineato che i sindacati di stato hanno promosso nel tempo una serie di interventi che hanno costiuito i presupposti della riforma Renzi, ultimo atto, per ora, di un processo preparato da anni. La logica del merito e della valutazione “oggettiva” è patrimonio innegabile dei sindacati concertativi, così come il potenziamento dell’autorità dei presidi, nato nell’ambito del Regolamento dell’autonomia partorito oltre quindici anni fa da Luigi Berlinguer, ministro caro alla CGIL e portato avanti da un altro ministro amico della sinistra come Tullio De Mauro, nome presente, tra l’altro, nella fondazione TREELLE.

D’altra parte la malafede degli oppositori dell’ultima ora è stata ben visibile recentemente: dopo lo sciopero dello scorso 5 maaggio contro la Buona scuola, nessuna iniziativa è stata intrapresa per sostenere lo sciopero contro l’Invalsi, promosso dai sindacati di base ma di fatto boicottato dai sindacati “maggiormente rappresentativi”. Eppure l’Invalsi è un elemento cardine di quel sistema valutativo contro il quale ci si mobilita…

A fronte delle ambiguità di alcuni vertici sindacali, va però sottolineata la grande mobilitazione che i lavoratori e le lavoratrici della scuola, spesso sostenuti da settori studenteschi, hanno espresso nell’ultimo anno: scioperi, mobilitazioni, appelli, documenti votati da assemblee e organi collegiali, manifestazioni di piazza di vario tipo, occupazioni, blocchi degli scrutini che hanno interferito anche con gli esami di stato. Questo ampio e determinato fronte di lotta deve mantenere la coesione e la solidarietà che lo ha caratterizzato contrastando in modo deciso l’attuazione della riforma, con una mobilitazione decisa, costante e quotidiana, senza lasciarsi fuorviare da miraggi legalitari.

Il bluff della legalità
Il modo in cui si è arrivati all’approvazione della riforma dimostra chiaramente come la legalità democratica sia un bluff.
Il governo, sottraendosi a qualsiasi confronto e/o ricerca di consenso ha proceduto chiedendo la fiducia sul disegno di legge. Il Senato, pur avendo rilevato in commissione l’incostituzionalità di alcuni aspetti della riforma, ha comunque approvato. Il testo approvato in Senato, ulteriormente emendato dalla Camera , non è stato sottoposto all’ultima ratifica del Senato. E il presidente Mattarella, incurante di tutto ciò, ha ovviamente firmato. Di fronte a queste aperte violazioni di regole che l’apparato stesso si è dato, appare del tutto fuori luogo confidare, come molti stanno facendo, in un referendum abrogativo che spazzi via la riforma. Il referendum, qualora fosse fatto, avrebbe probabilmente un risultato contrario alle aspettative dei promotori, visto che a pronunciarsi non sarebbe esclusivamente la categoria. Ed anche in caso di risultato diverso, è sotto gli occhi di tutti come gli esiti referendari siano stravolti e disattesi dalle logiche politiche.

Quindi un eventuale referendum avrebbe il solo risultato di allentare il fronte delle lotte, spostando tutto sul piano del voto e determinando una battuta d’arresto nella mobilitazione. E’ indispensabile radicalizzare l’opposizione alla riforma, contrastarne l’attuazione sui luoghi di lavoro attraverso forme concrete di boicottaggio, senza trascurare le pratiche di solidarietà, tanto più necessarie in un momento di inasprimento autoritario. Altrettanto indispensabile sarà costruire legami più solidi con gli studenti e collegarsi alle lotte dei settori più combattivi delle varie categorie, per opporsi a questa che non è una riforma, ma l’estensione del Job Act nella scuola.
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Chiarezza e organizzazione per battere il governo della guerra

Dall’opuscolo: LA GUERRA DEL GOVERNO CONTRO GLI SFRUTTATI

1. Chiarezza e organizzazione per battere il governo della guerra

Quanti sono stati gli astenuti alle ultime elezioni regionali? In due regioni, la Toscana e le Marche, il numero degli astenuti supera quello dei votanti, e questo senza tener conto delle schede bianche e nulle; inoltre secondo i dati del Ministero degli Interni la media dei votanti, nelle regioni interessate al voto, è stata del 53,90%. Il numero degli astenuti è di 8 milioni e 748 mila. Non si tratta di otto milioni di rivoluzionari, si tratta di otto milioni di persone che hanno perso fiducia nel sistema democratico, che non si sentono rappresentati dal ceto politico.

Da tempo governi, organizzazioni sovranazionali e agenzie private cercano di gestire quella che chiamano “crisi di legittimità”. Una crisi di fiducia e di consenso nel sistema politico che attanaglia le grandi potenze imperialiste. Questa crisi è aggravata dalla crisi economica e dalle politiche di austerità con cui le classi privilegiate cercano di scaricare i costi sui ceti popolari e sugli sfruttati. Prima dell’introduzione dell’euro, la Commissione Europea e i governi ad essa collegati studiarono attentamente le conseguenze economiche delle politiche restrittive sui bilanci, e delle conseguenze disastrose, di cui erano perfettamente consapevoli, sull’occupazione e sui redditi dei ceti più bassi. Erano anche consapevoli delle potenziali conseguenze in termini di ordine pubblico di quelle politiche. La crisi di fiducia costituisce un rischio sistemico, ed emerge quando appare evidente che le protezioni politiche e legali date dal governo agli attori economici, e in particolare ai membri dell’elite economica, vengono usate per arricchirsi, anzi che questa è la funzione della struttura politico-legale, e l’elite politica non intraprende nessuna azione per proteggere le vere vittime della crisi.

Secondo le agenzie private di analisi politica che lavorano per i governi, le moderne nazioni possono essere rappresentate come composte di tre sistemi fondamentali, quello politico, quello economico e quello militare. Ciascuno di questi sistemi è gestito da elites; i tre sistemi intergiscono fra di loro, così che quando uno è in difficoltà, attraversa una crisi, gli altri compensano le difficoltà del primo. Quando la crisi economica mette in difficoltà l’elite finanziaria, e l’azione del governo volta a sostenerla genera un rischio sistemico, spetta all’apparato militare e alla sua elite farsi carico della salvezza del sistema.
Questo genere di analisi, rivolta all’attenzione di governi e organizzazioni sovranazionali, teorizza e giustifica l’uscita dell’azione governativa dall’ambito della legittimità democratica e il ricorso a mezzi autoritari per l’imposizione di politiche fortemente antipopolari.
E’ ciò che sta esplodendo in Grecia, ma sono fenomeni che in questi anni tutti i paesi dell’Europa stanno vedendo; è l’Europa il centro del rischio sistemico, a livello di stati nazionali, a livello di Eurozona, e a livello di Unione Europea.

La cosiddetta “crisi di legittimità” quindi, prima di portare ad uno sbocco rivoluzionario, porta alla crescente militarizzazione della società. Assumono allora un significato diverso sia l’amplificazione della minaccia terrorista, sia il crescente schieramento delle forze armate nelle nostre città. I governi esasperano il conflitto sociale e inaspriscono la repressione, in modo da mettere in condizione di non nuocere gli elementi più combattivi, prima che si sviluppi una maggiore presa di coscienza rivoluzionaria, una maggiore organizzazione tra gli sfruttati, la pratica di obiettivi di trasformazione sociale.

Il crescere del malcontento sociale, il crescere dell’astensionismo, prima di portare ad un augurabile sbocco rivoluzionario, porta alla crescita della tensione sociale, dell’aggressività delle classi privilegiate e del Governo. Così si spiegano i continui atteggiamenti provocatori delle istituzioni, l’atteggiamento irridente verso le rivendicazioni popolari, l’esibizione dell’autorità fino alla prepotenza più brutale, l’aperta rapina a danno dei lavoratori e dei pensionati, a vantaggio degli speculatori e dei banchieri, il dispregio per le stesse sentenze della magistratura, quando eccezionalmente si rivolgono contro i potenti.

Un governo che si comporta in questo modo punta a provocare la risposta popolare, sicuro della fedeltà dei propri sgherri, prima che il popolo si organizzi e si dia obiettivi concreti; è un governo che vede nell’uso della violenza l’unica ancora di salvezza, un uso della violenza che non ha intenzione di arretrare nemmeno di fronte alla guerra civile.

Gli anarchici sono contro la guerra, sono contro la violenza, ma di fronte alle provocazioni delle istituzioni saranno al loro posto.
Gli attivisti, le minoranze coscienti, gli organismi di base e i movimenti di massa possono vincere la lotta contro l’autoritarismo del governo, contro il peggioramento delle condizioni dei ceti popolari se, anziché rivolgersi al ceto politico e alle sue componenti critiche, si rivolgono alla maggioranza che non ha più fiducia, per orientarla ed organizzarla. Si tratta di un lavoro di organizzazione e di crescita che deve essere condotto nelle lotte particolari che portiamo avanti, ma che non si esaurisce in queste lotte.

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OPUSCOLO: LA GUERRA DEL GOVERNO CONTRO GLI SFRUTTATI

LA GUERRA
DEL GOVERNO
CONTRO GLI SFRUTTATI

1. Chiarezza e organizzazione per battere il governo della guerra

2. La buona scuola: il jobs act nell’istruzione

3. Blocco contratti del pubblico impiego: derubare i lavoratori per ingrassare i capitalisti

4. L’esercito nelle strade protegge le politiche antipopolari del governo

Opuscolo a cura della Federazione Anarchica Livornese e del Collettivo Anarchico Libertario

Livorno, agosto 2015


Chiarezza e organizzazione per battere il governo della guerra

Quanti sono stati gli astenuti alle ultime elezioni regionali? In due regioni, la Toscana e le Marche, il numero degli astenuti supera quello dei votanti, e questo senza tener conto delle schede bianche e nulle; inoltre secondo i dati del Ministero degli Interni la media dei votanti, nelle regioni interessate al voto, è stata del 53,90%. Il numero degli astenuti è di 8 milioni e 748 mila. Non si tratta di otto milioni di rivoluzionari, si tratta di otto milioni di persone che hanno perso fiducia nel sistema democratico, che non si sentono rappresentati dal ceto politico.

Da tempo governi, organizzazioni sovranazionali e agenzie private cercano di gestire quella che chiamano “crisi di legittimità”. Una crisi di fiducia e di consenso nel sistema politico che attanaglia le grandi potenze imperialiste. Questa crisi è aggravata dalla crisi economica e dalle politiche di austerità con cui le classi privilegiate cercano di scaricare i costi sui ceti popolari e sugli sfruttati. Prima dell’introduzione dell’euro, la Commissione Europea e i governi ad essa collegati studiarono attentamente le conseguenze economiche delle politiche restrittive sui bilanci, e delle conseguenze disastrose, di cui erano perfettamente consapevoli, sull’occupazione e sui redditi dei ceti più bassi. Erano anche consapevoli delle potenziali conseguenze in termini di ordine pubblico di quelle politiche. La crisi di fiducia costituisce un rischio sistemico, ed emerge quando appare evidente che le protezioni politiche e legali date dal governo agli attori economici, e in particolare ai membri dell’elite economica, vengono usate per arricchirsi, anzi che questa è la funzione della struttura politico-legale, e l’elite politica non intraprende nessuna azione per proteggere le vere vittime della crisi.

Secondo le agenzie private di analisi politica che lavorano per i governi, le moderne nazioni possono essere rappresentate come composte di tre sistemi fondamentali, quello politico, quello economico e quello militare. Ciascuno di questi sistemi è gestito da elites; i tre sistemi intergiscono fra di loro, così che quando uno è in difficoltà, attraversa una crisi, gli altri compensano le difficoltà del primo. Quando la crisi economica mette in difficoltà l’elite finanziaria, e l’azione del governo volta a sostenerla genera un rischio sistemico, spetta all’apparato militare e alla sua elite farsi carico della salvezza del sistema.
Questo genere di analisi, rivolta all’attenzione di governi e organizzazioni sovranazionali, teorizza e giustifica l’uscita dell’azione governativa dall’ambito della legittimità democratica e il ricorso a mezzi autoritari per l’imposizione di politiche fortemente antipopolari.
E’ ciò che sta esplodendo in Grecia, ma sono fenomeni che in questi anni tutti i paesi dell’Europa stanno vedendo; è l’Europa il centro del rischio sistemico, a livello di stati nazionali, a livello di Eurozona, e a livello di Unione Europea.

La cosiddetta “crisi di legittimità” quindi, prima di portare ad uno sbocco rivoluzionario, porta alla crescente militarizzazione della società. Assumono allora un significato diverso sia l’amplificazione della minaccia terrorista, sia il crescente schieramento delle forze armate nelle nostre città. I governi esasperano il conflitto sociale e inaspriscono la repressione, in modo da mettere in condizione di non nuocere gli elementi più combattivi, prima che si sviluppi una maggiore presa di coscienza rivoluzionaria, una maggiore organizzazione tra gli sfruttati, la pratica di obiettivi di trasformazione sociale.

Il crescere del malcontento sociale, il crescere dell’astensionismo, prima di portare ad un augurabile sbocco rivoluzionario, porta alla crescita della tensione sociale, dell’aggressività delle classi privilegiate e del Governo. Così si spiegano i continui atteggiamenti provocatori delle istituzioni, l’atteggiamento irridente verso le rivendicazioni popolari, l’esibizione dell’autorità fino alla prepotenza più brutale, l’aperta rapina a danno dei lavoratori e dei pensionati, a vantaggio degli speculatori e dei banchieri, il dispregio per le stesse sentenze della magistratura, quando eccezionalmente si rivolgono contro i potenti.

Un governo che si comporta in questo modo punta a provocare la risposta popolare, sicuro della fedeltà dei propri sgherri, prima che il popolo si organizzi e si dia obiettivi concreti; è un governo che vede nell’uso della violenza l’unica ancora di salvezza, un uso della violenza che non ha intenzione di arretrare nemmeno di fronte alla guerra civile.

Gli anarchici sono contro la guerra, sono contro la violenza, ma di fronte alle provocazioni delle istituzioni saranno al loro posto.
Gli attivisti, le minoranze coscienti, gli organismi di base e i movimenti di massa possono vincere la lotta contro l’autoritarismo del governo, contro il peggioramento delle condizioni dei ceti popolari se, anziché rivolgersi al ceto politico e alle sue componenti critiche, si rivolgono alla maggioranza che non ha più fiducia, per orientarla ed organizzarla. Si tratta di un lavoro di organizzazione e di crescita che deve essere condotto nelle lotte particolari che portiamo avanti, ma che non si esaurisce in queste lotte.

La buona scuola: il jobs act nell’istruzione

Una ristrutturazione selvaggia chiamata “riforma”
Dopo che la riforma Gelmini aveva ridotto drasticamente, appena cinque anni fa, posti di lavoro e ore di insegnamento per gli studenti, dopo che le leggi di stabilità hanno imposto ulteriori tagli al settore dell’istruzione, la riforma Renzi- Giannini stucchevolmente denominata “la buona scuola” modifica radicalmente l’assetto della scuola pubblica, che assume un impianto rigidamente aziendalistico, senza eguali nel pubblico impiego:

– immissione in ruolo per un numero di precari assai inferiore alle necessità, con posizione diversificata: alcuni saranno assunti su posto reali, altri con funzioni di tappabuchi su un ambito territoriale non definito.
– perdita della titolarità di sede per il personale di ruolo (in caso di esubero il docente non viene più trasferito secondo una graduatoria, ma deve andare a proporre il proprio curricolo affidandosi alla discrezionalità di un preside che sia disposto ad assumerlo
– chiamata diretta del preside , che può assumere discrezionalmente senza seguire criteri omogenei
– valutazione del personale, anche per l’attribuzione di eventuali premi salariali, affidata anche a soggetti esterni al rapporto di lavoro
– intervento del privato (sponsor) con finanziamenti e donazioni
– introduzione massiccia dell’apprendistato (fino a 400 ore annue, pari a circa 12 settimane di scuola in cui lo studente cessa di essere tale per divenire un apprendista affittato al mercato della precarietà).

Oltre agli effetti diretti di queste misure, la riforma punta anche un potenziamento della gerarchia già presente nella scuola, con rigido controllo delle metodologie didattiche, degli stili di apprendimento, degli orientamenti culturali, con la diffusione generalizzata della impostazione competitivo meritocratica e della logica produttivistica sia tra gli studenti che tra i docenti.

Le linee ispiratrici di questa politica sono rintracciabili con chiarezze nelle indicazioni sistematicamente fornite ai governi da associazioni – una per tutte la famigerata TREELLE- che comprendono nomi di spicco del settore confindustriale, bancario, delle organizzazioni cattoliche, evidenziando un’illuminante convergenza tra destra imprenditoriale e grandi nomi del PD.

Ma ovviamente queste direttrici si intrecciano con quelle più generali, riconducibili agli orientamenti europei che hanno determinato, nel tempo, la ridefinizione del settore scuola sopratutto nella ricerca di uno standard. Lo standard è un elemento fondamentale nella logica produttivistica, basata sulla definizione delle caratteristiche di un prodotto e nella misurazione delle fasi della lavorazione finalizzata a produrre “quel” prodotto. Per misurare occorre segmentare, suddividere in fasi, analizzare il processo produttivo per verificare la qualità del prodotto finale.
Da qui i vari test nazionali ( Invalsi), internazionali per le scuole superiori (OCSE PISA, commissionato, tra lgli altri, da settori economici privati WTO), internazionali per l’università (processo di Bologna) tutti rivolti a valutare qualità e produttività secondo uno standard.

Ma che cosa significa produttività a scuola? Significa favorire il processo di crescita di ciascuno, secondo le proprie caratteristiche e i tempi individuali di maturazione o significa escludere, selezionare, scartare ? E’ più produttivo e quindi meritevole anche di un maggior stipendio l’insegnante che boccia o quello che promuove? Che cosa misuriamo? la quantità di promossi oppure di bocciati? Che cosa significa tendere ad uno standard in un contesto che dovrebbe valorizzare l’individualizzazione dell’insegnamento e lo sviluppo delle potenzialità di ciascuno? E riferirsi ad uno standard, non significa forse escludere totalmente chi è per ovvi motivi fuori standard, come il disabile, lo straniero, l’alunno in svantaggio sociale e culturale ?

Per la sua tipicità, il settore dell’insegnamento non è sensatamente riconducibile ad un sistema di misurazione di produttività. Ed allora, volendo a tutti i costi seguire questa strada, nell’impossibilità di misurare l’essenza della relazione educativa, si agisce sul livello sovrastrutturale surrettiziamente introdotto con la radicalizzazione della gerarchia, la precarizzazione dei posti di lavoro, la figura del preside sceriffo che i criteri se li inventa, per esibire una logica del controllo spacciata per valutazione del merito e della produttività.

Un anno di lotte
L’opposizione alla riforma Renzi-Giannini è stata fin dall’inizio molto vasta ed ha coinvolto, oltre a moltissimi lavoratori, l’intero arco delle sigle sindacali, tanto che il Governo, per arrivare velocemente all’approvazione, ha dovuto rompere ogni contatto con le parti sociali e procedere con tutto l’autoritarismo possibile, niente concedendo nemmeno a banali norme di galateo democratico.

Se l’unità è sempre apprezzabile, va comunque sottolineato che i sindacati di stato hanno promosso nel tempo una serie di interventi che hanno costiuito i presupposti della riforma Renzi, ultimo atto, per ora, di un processo preparato da anni. La logica del merito e della valutazione “oggettiva” è patrimonio innegabile dei sindacati concertativi, così come il potenziamento dell’autorità dei presidi, nato nell’ambito del Regolamento dell’autonomia partorito oltre quindici anni fa da Luigi Berlinguer, ministro caro alla CGIL e portato avanti da un altro ministro amico della sinistra come Tullio De Mauro, nome presente, tra l’altro, nella fondazione TREELLE.

D’altra parte la malafede degli oppositori dell’ultima ora è stata ben visibile recentemente: dopo lo sciopero dello scorso 5 maaggio contro la Buona scuola, nessuna iniziativa è stata intrapresa per sostenere lo sciopero contro l’Invalsi, promosso dai sindacati di base ma di fatto boicottato dai sindacati “maggiormente rappresentativi”. Eppure l’Invalsi è un elemento cardine di quel sistema valutativo contro il quale ci si mobilita…

A fronte delle ambiguità di alcuni vertici sindacali, va però sottolineata la grande mobilitazione che i lavoratori e le lavoratrici della scuola, spesso sostenuti da settori studenteschi, hanno espresso nell’ultimo anno: scioperi, mobilitazioni, appelli, documenti votati da assemblee e organi collegiali, manifestazioni di piazza di vario tipo, occupazioni, blocchi degli scrutini che hanno interferito anche con gli esami di stato. Questo ampio e determinato fronte di lotta deve mantenere la coesione e la solidarietà che lo ha caratterizzato contrastando in modo deciso l’attuazione della riforma, con una mobilitazione decisa, costante e quotidiana, senza lasciarsi fuorviare da miraggi legalitari.

Il bluff della legalità
Il modo in cui si è arrivati all’approvazione della riforma dimostra chiaramente come la legalità democratica sia un bluff.
Il governo, sottraendosi a qualsiasi confronto e/o ricerca di consenso ha proceduto chiedendo la fiducia sul disegno di legge. Il Senato, pur avendo rilevato in commissione l’incostituzionalità di alcuni aspetti della riforma, ha comunque approvato. Il testo approvato in Senato, ulteriormente emendato dalla Camera , non è stato sottoposto all’ultima ratifica del Senato. E il presidente Mattarella, incurante di tutto ciò, ha ovviamente firmato. Di fronte a queste aperte violazioni di regole che l’apparato stesso si è dato, appare del tutto fuori luogo confidare, come molti stanno facendo, in un referendum abrogativo che spazzi via la riforma. Il referendum, qualora fosse fatto, avrebbe probabilmente un risultato contrario alle aspettative dei promotori, visto che a pronunciarsi non sarebbe esclusivamente la categoria. Ed anche in caso di risultato diverso, è sotto gli occhi di tutti come gli esiti referendari siano stravolti e disattesi dalle logiche politiche.

Quindi un eventuale referendum avrebbe il solo risultato di allentare il fronte delle lotte, spostando tutto sul piano del voto e determinando una battuta d’arresto nella mobilitazione. E’ indispensabile radicalizzare l’opposizione alla riforma, contrastarne l’attuazione sui luoghi di lavoro attraverso forme concrete di boicottaggio, senza trascurare le pratiche di solidarietà, tanto più necessarie in un momento di inasprimento autoritario. Altrettanto indispensabile sarà costruire legami più solidi con gli studenti e collegarsi alle lotte dei settori più combattivi delle varie categorie, per opporsi a questa che non è una riforma, ma l’estensione del Job Act nella scuola.


Blocco contratti del pubblico impiego: derubare i lavoratori per ingrassare i capitalisti

Nella lettera che la BCE scrisse, con firma congiunta Trichet e Draghi, al governo italiano nell’agosto 2011 indicando le misure che dovevano essere prese per risanare il bilancio statale si leggeva fra l’altro:
E’ possibile intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l’età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo dei risparmi già nel 2012. Inoltre, il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover e, se necessario, riducendo gli stipendi.

Il governo Berlusconi aveva in realtà già provveduto a bloccare i contratti degli impiegati pubblici fin dall’anno prima, riducendo di fatto gli stipendi agli statali. Stipendi che di fatto erano già fermi visto che ormai da almeno 10 anni il rinnovo contrattuale nel pubblico impiego si limitava a reintegrare solo l’inflazione programmata dal governo (e quindi neppure quella reale, sempre superiore) e quindi non comportava di fatto aumenti reali. Il blocco deciso da Berlusconi verrà poi confermata sia dal governo Monti, il “sobrio” tecnico inviatoci dai poteri forti della finanza europea, che da quello Letta, un altro politico molto ben visto in tali ambienti, che da quello Renzi, lo scendiletto di Francoforte e Bruxelles.
Seguendo le indicazioni della BCE (si scrive indicazioni si legge diktat), il governo Monti operò un blocco degli aumenti delle pensioni superiori ai 1500 euro lordi, in pratica operando lo stesso meccanismo già sperimentato sui contratti pubblici.

Dopo le sentenze della Corte Costituzionale che ha sancito l’incostituzionalità sia del blocco delle pensioni che di quello dei contratti statali, sappiamo che buona parte del “risanamento” operato dai vari governi succedutesi negli ultimi anni è stato fatto sulla pelle di queste due categorie: 50 miliardi di euro che il governo ha risparmiato e che vanno aggiunti ai tagli sulla sanità, sulla scuola, sui servizi sociali. Segni indelebili sulla società italiana a cui vanno sommati la disoccupazione giovanile di massa, la precarizzazione dei rapporti di lavoro, i licenziamenti, ecc. al fine di realizzare quella contrazione della domanda interna (per diminuire le importazioni e favorire le esportazioni, panacea di tutti i mali, secondo le sanguisughe della finanza mondiale).
E’ evidente come i governi violino ormai abitualmente le leggi dello Stato: la Corte costituzionale ha evidenziato la illegittimità dei provvedimenti sul contratto degli statali e sul blocco delle pensioni, ma è recente la decisione di far riaprire con un decreto legge governativo gli stabilimenti di Monfalcone e Taranto, bloccati da provvedimenti della magistratura dopo gravi inadempienze delle Società Fincantieri e Ilva. Il tutto con la scusa di salvaguardare i posti di lavoro!

Per tornare ai dipendenti pubblici è stato calcolato che il blocco dei contratti sia costato, in media, circa il 10% dei loro salari per un totale di circa 35 miliardi di euro in cinque anni, mentre negli ultimi anni si sono persi 221mila posti di lavoro nel pubblico impiego. Soldi che lo stato ha risparmiato e che sono serviti a ripagare il debito verso gli speculatori internazionali, a finanziare le spese e le avventure militari all’estero, a salvare le banche. E’ notizia di questi giorni che lo Stato italiano è divenuto il secondo socio per importanza del Monte dei Paschi di Siena grazie ad un prestito, mai restituito, di circa 5 miliardi di euro.
Insomma: un enorme travaso di soldi dalle tasche dei lavoratori, dei pensionati, dei precari a quelle dei capitalisti.

L’esercito nelle strade protegge le politiche antipopolari del governo

Dal marzo scorso anche a Livorno sono stati schierati i soldati nelle strade della città.
A inizio anno infatti è stata ulteriormente prorogata l’Operazione Strade Sicure, inaugurata nel 2008 dall’allora Ministro della Difesa Ignazio La Russa e definita dalla legge 25 del 24 luglio 2008, il cosiddetto “Pacchetto Sicurezza” che prevedeva, insieme ad altre misure repressive, l’utilizzo delle Forze armate per attività di pubblica sicurezza nelle città. In questi anni sono state impiegate soprattutto unità dell’Esercito, ma anche dell’Aeronautica, della Marina e dell’Arma dei Carabinieri. Con la proroga di inizio 2015 si è avuto un rafforzamento dell’operazione con un incremento da 3000 a 4500 nel numero dei militari schierati e con il coinvolgimento di altre città nell’operazione. È così che in alcune città toscane e pure a Livorno sono arrivati i militari nelle strade.

Ad inizio anno il Ministero degli Interni ha chiesto a tutte le prefetture se sui rispettivi territori vi fosse bisogno dell’impiego di un contingente militare per controlli antiterrorismo e per la vigilanza dei cosiddetti siti sensibili. La decisione in questi casi spetta quindi al Ministero e alle prefetture, che possono decidere anche in che modo schierare il contingente, se attraverso presidi fissi o perlustrazioni lungo le strade cittadine.
La Prefettura di Livorno, come in Toscana quella di Lucca, Firenze e Prato, ha deciso di schierare i soldati nelle strade in funzione antiterrorismo, ed il compito è stato assegnato alla Brigata Paracadutisti Folgore. Per questo dalla seconda metà di marzo si vedono per le strade della città paracadutisti in assetto da guerra, a piedi o su mezzi dell’esercito, che imbracciano mitragliatori. Trattandosi di un’operazione antiterrorismo l’ingaggio è militare, dicono dalle prefetture per giustificare le armi da guerra in dotazione alle truppe che girano per le città. Ma la “minaccia islamica” è una menzogna, un pretesto utilizzato anche dalla stampa locale.

In realtà siamo di fronte a politiche di sicurezza fortemente autoritarie condotte in modo trasversale dai governi che si sono susseguiti negli ultimi sette anni. Non si tratta né di una misura d’urgenza adottata dopo gli attentati di Parigi e di Tunisi di inizio 2015, né di “eccezionali esigenze di prevenzione della criminalità” come recitava la legge del 2008 che isitituiva il concorso delle Forze armate nel controllo del territorio. Non stiamo quindi parlando di casi eccezionali, della gestione militare di un’emergenza, che sarebbe comunque una grave forma di militarizzazione, ma di una linea generale in materia di sicurezza, centrata sull’impiego dei militari a scopo di sicurezza interna, adottata dai differenti governi che si sono succeduti.

Con i militari nelle strade si esaspera la percezione della “minaccia” del terrorismo e della criminalità, si tenta di giustificare e normalizzare l’impiego delle Forze armate nel controllo del territorio, ma anche nella repressione di proteste popolari.

Ad aprire la strada all’Operazione Strade Sicure è stata la gestione militare dell’emergenza rifiuti in Campania del 2008. Il governo allora decise, dopo una grande campagna mediatica, di gestire l’emergenza manu militari, per fronteggiare la determinata opposizione della popolazione. Venne proclamato lo stato di emergenza, venne nominato Sottosegretario per l’emergenza rifiuti Guido Bertolaso allora Capo del Dipartimento della Protezione Civile, infine le discariche vennero dichiarate siti di interesse strategico, da tutelare quindi anche attraverso l’impiego delle Forze armate. Questi provvedimenti, previsti in un decreto del maggio 2008, divennero legge nel luglio dello stesso anno, una decina di giorni prima dell’approvazione del pacchetto sicurezza che dette il via all’Operazione Strade Sicure.

Ma l’esempio più eclatante dell’utilizzo delle Forze armate a scopo di repressione interna si ha in Val di Susa. Dal primo gennaio 2012 è stata dichiarata area di interesse strategico nazionale La Maddalena di Chiomonte, dove sorge il cantiere per il tunnel geognostico della linea Torino-Lione della TAV, a cui si oppone il vasto movimento NO TAV, radicato a livello locale nella popolazione e diffuso a livello nazionale. Già da anni la Val di Susa era di fatto militarizzata da polizia e carabinieri, impiegati dal governo per fronteggiare la determinazione del movimento di opposizione alla linea TAV. Lo schieramento delle Forze armate ha aumentato enormemente la militarizzazione, trasformando la Valle in terra d’occupazione, in fronte di guerra. A Chiomonte c’è un soldato ogni due abitanti, sono stati schierati contro i manifestanti gli alpini reduci dell’Afghanistan, ci sono posti di blocco, pattugliamenti, elicotteri, uomini e mezzi schierati nelle strade e nei boschi.

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La gestione militare dell’emergenza rifiuti in Campania e la militarizzazione della Val di Susa ben rappresentano la linea politica volta all’impiego delle Forze armate a scopo di repressione interna portata avanti dai governi che si sono succeduti negli ultimi anni. L’Operazione Strade Sicure, con il coinvolgimento dei soldati nel controllo delle città serve quindi a normalizzare l’uso repressivo delle Forze armate. Una militarizzazione della sicurezza interna e una sovrapposizione dei ruoli degli apparati dello Stato, che avviene in parallelo ai cambiamenti che da circa un decennio sono in atto nelle Forze armate e nei Corpi dello Stato, orientati principalmente ad una riorganizzazione in senso di coesione, specializzazione e operatività. Questo avviene nelle Forze armate, ad esempio con la creazione di unità di intervento rapido, e avviene nella Polizia e negli altri Corpi come una forma di rimilitarizzazione.

Il vero problema non sta nel tipo di divisa che indossa chi esercita nelle strade la repressione dello Stato, ma nel fatto che ci troviamo di fronte ad una guerra del governo contro i lavoratori e le lavoratrici, contro gran parte della popolazione. È una guerra che c’è sempre stata, ma che recentemente si è fatta più aspra e diretta. Per questo si schierano anche i soldati nelle strade e le truppe occupano quei territori in cui la protesta popolare si fa più determinata.

Negli ultimi anni i governi che si sono succeduti hanno infatti condotto una vera e propria guerra sociale contro la classe lavoratrice. Nel 2012, quando ancora era alla guida del governo, Monti disse che per l’Italia si prospettava un “percorso di guerra”, riferendosi alle cosiddette politiche di austerità. L’imposizione senza appello di politiche di attacco alla classe lavoratrice, di difesa degli interssi padronali e dei grandi privilegi infatti non può essere gestita che in modo militare.
Quindi opporsi alla repressione ed in particolare alla militarizzazione e all’impiego delle Forze armate nella sicurezza interna è una parte indispensabile della lotta contro le politiche del governo.

È necessario rilanciare e diffondere l’antimilitarismo, smascherando la sempre più stretta continuità tra la guerra condotta dentro i confini nazionalie quella condotta al di fuori di essi. In entrambi i casi si bombarda, si pratica la repressione, l’occupazione militare e il saccheggio per assicurare gli interessi dei potenti e del grande capitale.

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Orti Urbani: comunicato della Federazione Anarchica Livornese

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Orti Urbani: comunicato della Federazione Anarchica Livornese

La Federazione Anarchica Livornese ritiene che la mobilitazione sostenuta dai cittadini degli Orti Urbani rappresenti un importante momento di contrasto alla speculazione edilizia e alla proprietà privata attuato tramite la riappropriazione popolare di spazi sottratti alla collettività.

L’esperienza degli Orti Urbani, condotta attraverso la gestione collettiva e la sperimentazione di pratiche autogestionarie, è un elemento da valorizzare nel contesto cittadino e nell’ambito delle più generali lotte condotte dal basso e in forma autoorganizzata in contrasto con le istituzioni che da sempre garantiscono gli interessi e i privilegi di chi sfrutta persone e territori.

La questione ambientale è un elemento centrale delle lotte sociali. Ovunque, dal Piemonte alla Sicilia, si evidenzia l’inconciliabilità tra le esigenze delle popolazioni e la volontà di profitto, come mostrano le lotte NO TAV e NO MUOS. Ovunque è evidente come i governi e le amministrazioni si rendano responsabili di devastazioni e saccheggi dei territori, spesso imposti anche attraverso l’uso della forza e dell’esercito. Ed è anche sempre più evidente come la pratica legalitaria non offra alcuna garanzia: lo spregio assoluto dell’esito del referendum sull’acqua e delle sentenze che impongono la chiusura dell’Ilva di Taranto sono due esempi significativi dell’inefficacia del percorso istituzionale e legale. Solo l’autoorganizzazione e l’autogestione rappresentano una risposta in grado di garantire gli interessi collettivi.

Federazione Anarchica Livornese

Livorno, 1.8.2015

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