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La Francia bombarda la Siria Ma contro chi viene combattuta questa guerra?

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La Francia bombarda la Siria

Ma contro chi viene combattuta questa guerra?

 

Sono iniziati gli attacchi aerei francesi sulla Siria. Il 27 settembre il Presidente della Repubblica Francese Hollande ha annunciato che sono stati effettuati dei bombardamenti nell’est della Siria presso Deir Ezzor, contro campi di addestramento dello Stato Islamico.

Secondo il quotidiano Le Monde però i primi attacchi sono stati lanciati giovedì 24 settembre contro postazioni nei pressi di Raqqa, città siriana sul medio Eufrate, capitale dello Stato Islamico.

Gli attacchi francesi sarebbero i primi compiuti in Siria nel quadro dell’operazione “Chammal”, lanciata un anno fa contro lo Stato Islamico e che finora avrebbe però limitato gli interventi al solo Iraq.

Nei giorni in cui la tragedia dei profughi siriani causata dalla destabilizzazione creata dalla potenze mondiali era al centro dell’attenzione mediatica, il 7 settembre, nel corso della conferenza stampa semestrale all’Eliseo, Hollande aveva dichiarato che la Francia si preparava a colpire lo Stato Islamico in Siria e aveva riconfermato la posizione nei confronti di Assad, affermando che “deve andare via”. I Mirage francesi hanno iniziato a sorvolare la Siria sin dal 9 settembre per ricognizioni in preparazione di un attacco contro lo Stato Islamico, che secondo la versione ufficiale avrebbe dovuto proteggere la Francia da attacchi terroristici.

Ma per contestualizzare l’attacco francese è bene riepilogare alcuni dei principali eventi degli ultimi mesi.

Nel luglio scorso accordi tra Stati Uniti e Turchia avevano stabilito la creazione di una zona cuscinetto militarizzata lungo il confine tra il territorio turco e quello siriano e la possibilità per gli USA di utilizzare la base aerea turca di Incirlik. Il 28 dello stesso mese il governo di Ankara iniziava a bombardare con l’appoggio della NATO postazioni del PKK in Iraq e Turchia e postazioni dello Stato Islamico in Siria, dove i carri armati turchi colpivano però anche le YPG curde.

Il 7 settembre il Primo ministro britannico Cameron ha annunciato che il 21 agosto la RAF avrebbe compiuto su Raqqa un raid aereo congiunto con l’aviazione USA per colpire i membri di un “complotto jihadista” che pianificava di compiere “atti ignobili e barbarici sul suolo britannico”.

In questo contesto, il 9 settembre, è esplosa la questione dell’intervento russo in Siria. L’invio di mezzi blindati e di alcune decine di soldati presso l’aeroporto di Bassel al Assad nella regione di Latakia, vicino al confine con la Turchia, ha fatto emergere ufficialmente e in modo chiaro l’impegno russo in Siria a difesa dei propri interessi ed in appoggio alle forze governative.

La Russia infatti in territorio siriano dispone della base navale di Tartus, stabilita negli anni settanta, e nel corso di questi anni di guerra in Siria ha appoggiato e supportato sul piano tecnico e militare il Presidente Assad.

Siamo di fronte probabilmente ad una tappa significativa della guerra che devasta la Siria da ormai tre anni. Anche se nel momento in cui scriviamo non possiamo sapere quali saranno gli sviluppi successivi all’assemblea generale delle Nazioni Unite del 28 settembre, è chiaro che i bombardamenti francesi, i raid britannici, l’intervento russo e le operazioni militari dell’Iran e di altri paesi influiranno sulle manovre diplomatiche in atto in questi giorni a New York e saranno poste sul piatto delle trattative.

Nell’aspro confronto pubblico tra le potenze per la creazione di una nuova coalizione “contro il terrorismo” l’oggetto del contendere è la sorte del presidente siriano Assad.

Da una parte infatti la Russia si propone alle potenze occidentali quale mediatore per una coalizione fondata sulla collaborazione con il governo siriano assieme all’Iran e all’Iraq, mentre dall’altra Stati Uniti e Regno Unito, ma soprattutto la Francia puntano alla deposizione di Assad.

Secondo alcuni commentatori la negoziazione sarebbe ormai sul quando si dovrebbe verificare una ormai sicura uscita di scena di Assad. Certo non possiamo sapere quali siano le trame della diplomazia né possiamo seguire le voci della propaganda e della disinformazione sparse dai media ufficiali, ma è chiaro che la questione vera non è se Assad deve o meno restare al potere.

Le potenze che da anni alimentano la sanguinosa guerra siriana certo non si fanno scrupoli morali, la questione non è deporre un tiranno o difendere l’autodeterminazione contro un’aggressione imperialista, ma chi conterà di più nella nuova spartizione della Siria e più in generale del Medio Oriente.

Lo stesso Stato Islamico contro il quale ora starebbero per coalizzarsi tutti i paesi vincitori della Seconda Guerra Mondiale, lo “stato canaglia” perfetto, passa in secondo rispetto al braccio di ferro tra USA e Russia per la spartizione della Siria. Diviene allora ancor più chiaro che lo Stato Islamico, che appare ora come il grande nemico dell’umanità, nuova versione del male assoluto che giustifica ogni guerra, non è che il prodotto di quelle politiche imperialiste che necessitano di forze di sfondamento per creare destabilizzazione e assicurare la penetrazione degli interessi capitalistici. Dopo essere state foraggiate e sostenute anche dalle potenze “occidentali” assieme ad altri gruppi come Al Nusra per combattere contro Assad e contro i curdi della Rojava, le truppe dello Stato Islamico hanno creato un regime autoritario che trova il proprio fondamento ideologico nella religione, e che fonda la propria economia sull’esportazione di petrolio e la guerra.

Nato dalla sopraffazione e dal saccheggio, fondato sul terrore e la superstizione, lo Stato Islamico ci dice molto sulla natura dello Stato.

Questa guerra quindi non si combatte né contro Assad né contro lo Stato Islamico, ma è parte di un più generale scontro tra potenze imperialiste. Certo in Siria la posta in gioco è alta sul piano degli interessi economici e strategici, ma forse la scommessa più grossa è quella politica.

Infatti in gioco non c’è solo la gestione del potere in Siria e la possibile uscita di scena di Assad, ma c’è anche la gestione della questione curda.

Lo Stato Islamico sembra non costituire più, dopo le sconfitte subite negli ultimi mesi, almeno sul piano militare, una concreta minaccia controrivoluzionaria per i cantoni della Rojava, in cui continua la sperimentazione di forme di autogoverno e autogestione, con i contributo attivo di compagni rivoluzionari. La Turchia ha scatenato nei mesi scorsi la guerra nei propri confini contro la popolazione insorta contro la nuova brutale ondata repressiva del governo nelle città delle regioni a maggioranza curda. Chi guiderà una eventuale coalizione in Siria, farà quello che ha fatto finora la Turchia con il consenso della NATO: combattere con ogni mezzo ogni possibile sviluppo rivoluzionario nella Rojava e altrove.

Dario Antonelli

questo articolo sarà pubblicato sul prossimo numero del settimanale anarchico Umanità Nova.

Umanità Nova si può trovare anche a Livorno presso le edicole di Via Garibaldi 7, di Piazza Damiano Chiesa, di Piazza Grande (angolo Bar Sole), di Viale Carducci (angolo Via del Risorgimento), di Viale di Antignano 110, di Piazza Micheli (lato Quattro mori), di Piazza della Vittoria (angolo Via Magenta) presso il Bar Dolcenera in Via della Madonna (angolo Viale degli Avvalorati), la Libreria Belforte in Via Roma 69 e presso la sede della Federazione Anarchica Livornese in Via degli Asili 33 (apertura ogni giovedì dalle ore 18 alle ore 20).

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PER OMOFOBI E FASCISTI NON C’È SPAZIO!

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Volantino che sarà distribuito stasera sul lungomare contro la veglia omofoba che si terrà in Terrazza Mascagni.

PER OMOFOBI E FASCISTI
NON C’È SPAZIO!

Dopo che lo scorso anno centinaia di persone erano scese in piazza a Livorno contro la manifestazione omofoba promossa da un’associazione per la difesa della famiglia tradizionale e sostenuta dalla gerarchia clericale, dalla destra più retriva e dai fascisti, questi provocatori tornano a farsi vedere con una nuova manifestazione.

La cosiddetta famiglia tradizionale è basata su una rigida gerarchia e sulla subalternità della donna, che sopperisce alle esigenze della riproduzione sociale. L’attacco economico e politico portato avanti in questi anni ai servizi sociali, all’assistenza, alla sanità, alla scuola, riporta all’interno della famiglia quei servizi che dovrebbero essere a carico della società, rafforzando ancora di più il ruolo dell’istituzione familiare tradizionale e l’ingiustizia sociale che essa rappresenta, basata sul sessismo e sulla gerarchia dei generi ben definiti nei loro ruoli. Ecco dunque che qualsiasi volontà di creare legami di affetto e di solidarietà che sfuggano all’impianto della famiglia tradizionale o che non siano riconducibili alla identificazione rigida dei ruoli legati al genere rappresenta qualcosa di incontrollabile, che sfugge al dominio e che va represso. Per questo motivo dietro alle campagne per la difesa della famiglia tradizionale troviamo razzismo, omofobia, fascismo.

Un ruolo particolare, nella difesa della famiglia tradizionale, è svolto da sempre dalla Chiesa cattolica, struttura gerarchica, retriva ed oscurantista, ostile a qualsiasi istanza di autodeterminazione. Da qualche tempo anche a Livorno assistiamo alla volontà della curia vescovile di dar voce alle istanze più tradizionaliste e retrive, spesso contigue ad ambienti neofascisti. A Livorno, con il consenso e la protezione del vescovo si svolgono cerimonie dei cattolici tradizionalisti fortemente politicizzate, nei giorni scorsi si è tenuto un pellegrinaggio accompagnato da un convegno intitolato “la follia gender”, ma ricordiamo ricordiamo anche la processione a Montenero del 2009, che fu propagandata anche da Forza Nuova; nelle scuole pubbliche, per volontà della curia, è stata ripristinata la presenza dei preti per l’insegnamento della religione; gli interventi del vescovo sulla politica cittadina e internazionale sono caratterizzati da toni aggressivi, mentre nelle gerarchie religiose assume sempre più potere Comunione e Liberazione, di cui un noto esponente si è candidato alle elezioni amministrative dello scorso anno sostenendo Nogarin al ballottaggio.

Quindi, se gli omofobi una volta l’anno decidono di fare una comparsata a Livorno, se la questura, come lo scorso anno, limita e impedisce manifestazioni di protesta contro una presenza che è un’evidente provocazione questo può avvenire perchè nella nostra città c’è un terreno favorevole alle forze oscurantiste e reazionarie. E’ dunque quotidianamente che va svolta la battaglia contro la restrizione di qualsiasi espressione di dissenso, contro i blocchi di potere più o meno evidenti, per l’affermazione della libertà e dell’autodeterminazione, nelle relazioni sociali come in quelle personali, che devono essere libere da vincoli legali e da pregiudizi, per la costruzione di una società nuova, dove non sia presente nessuna forma di oppressione, economica, politica o
religiosa.

NÉ DIO, NÉ STATO, NÉ FAMIGLIA!

Federazione Anarchica Livornese
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Collettivo Anarchico Libertario
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La guerra del governo turco contro i rivoluzionari

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La guerra del governo turco contro i rivoluzionari

Lo Stato, il Governo, si reggono sulla violenza. Quello che sta succedendo in Turchia non fa che dimostrarlo. La strage del 20 luglio scorso al centro culturale Amara di Suruç, quando furono uccise in un attentato 35 persone, tra cui cinque giovani anarchici, che partecipavano ad una conferenza stampa della Federazione delle Associazioni dei Giovani Socialisti, ha costituito un punto di svolta nella strategia repressiva del governo turco. La strage già dai giorni successivi aprì la strada ad una più stretta militarizzazione delle aree di confine con la Siria, con la creazione di una zona cuscinetto frutto degli accordi tra USA e Turchia, ma soprattutto è servita al governo di Davutoğlu (Primo ministro turco, del partito islamista-conservatore AKP) a lanciare una nuova strategia “antiterrorismo”. I raid compiuti dall’aviazione turca a partire dal 24 luglio hanno reso chiaro anche ai meno informati contro chi fosse rivolta questa nuova strategia. Infatti anche se negli attacchi aerei venivano colpite anche alcune postazioni dello Stato Islamico in Siria, i bombardamenti erano principalmente rivolti contro le postazioni del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) in Iraq e anche in Turchia. Questa lettura è confermata dalla brutale repressione interna: il 24 luglio con una operazione di polizia che ha coinvolto circa 3000 agenti sono state arrestate oltre 250 persone, la maggior parte delle quali accusate di essere membri del PKK o di altre formazioni armate. Nei giorni successivi sono continuati gli arresti, mentre le manifestazioni di protesta venivano sciolte con la forza, e lo stato turco ha risposto con sempre maggiore violenza agli attacchi dei gruppi armati contro la polizia e l’esercito. Nel mese di agosto per impedire ulteriori arresti, in alcuni centri delle zone curde della Turchia i gruppi armati legati al movimento curdo o alla sinistra rivoluzionaria turca hanno preso il controllo assieme alla popolazione di alcuni quartieri, sbarrando la strada con le barricate ai mezzi della polizia e dei militari. In alcune di queste città le zone controllate con le armi dalla popolazione e dai gruppi militanti hanno dichiarato l’autogoverno; è accaduto a Silopi, Cizre, Lice, Silvan, Varto, Bulanik, Yusekova, Semdinli, Edremit, e in alcuni quartieri di Van, Diyarbakir e Batman. Lo stesso è avvenuto nella città di Istanbul dove, dopo un mese di scontri ininterrotti, il quartiere di Gezi ha dichiarato l’autogoverno. La reazione del governo turco è stata ancora una volta il terrore: attraverso l’esercito ha scatenato una vera e propria guerra per soffocare queste rivolte.
Dal momento che le operazioni militari del governo turco stanno continuando non staremo a fare una cronaca di fatti che sarebbero presto superati dal corso degli eventi, si faranno però alcuni riferimenti per capire perché si parla di guerra riferendosi alla attuale strategia repressiva del governo turco. Dallo scorso luglio ad oggi lo stato turco è tornato, come negli anni ’90, a bruciare villaggi e ampie aree di foreste e coltivazioni, è stato imposto il coprifuoco in molte città a maggioranza curda, nelle quali peraltro arresti e perquisizioni sono quotidiane e, oltre ai soprusi e alle angherie verso la popolazione civile da parte delle forze che pattugliano le strade, ci sono stati casi di torture, sparizioni, assassinii e brutalità nei confronti di militanti o sospetti tali. I quartieri e le città che avevano dichiarato l’autogoverno o in cui comunque la popolazione aveva organizzato forme di resistenza al coprifuoco alle coercizioni del governo, sono stati attaccati con armi da guerra, con l’uso di carri armati, cecchini, elicotteri e in alcuni casi con il bombardamento. Ci sono state inoltre rappresaglie, con intere famiglie massacrate. La città di Cizre, che conta 120mila abitanti è da 9 giorni sotto l’assedio della polizia e dei militari turchi che sparano a vista a chiunque sia nelle strade e bloccano i rifornimenti e il passaggio delle ambulanze. Nelle ultime settimane i fascisti turchi legati al MHP (Partito del Movimento Nazionalista) hanno iniziato un attacco sistematico non solo contro le sedi dei partiti curdi in tutta la Turchia e contro le manifestazioni dei curdi, ma anche con agguati nelle strade contro singoli militanti o semplici passanti colpevoli solo di essere curdi.

Come è evidente non si tratta di una semplice operazione di polizia. Non siamo di fronte ad una reazione agli attacchi del PKK contro la polizia turca avvenuti nei giorni immediatamente successivi alla strage di Amara. Si tratta di una strategia pianificata che ha il suo punto cardine proprio in quella strage, nella quale la responsabilità dello stato turco è chiara. Una strategia volta a colpire le forze rivoluzionarie turche e il movimento curdo, incarcerando centinaia e centinaia di militanti, limitando fortemente se non cancellando del tutto l’agibilità politica dell’enorme movimento di solidarietà che si è sviluppato nell’ultimo anno, facendo capire alla gente che scendere in piazza contro il governo significa affrontare le bocche dei fucili. Questa strategia del terrore e della guerra serve anche all’AKP per tentare di fare il pieno di voti alle prossime elezioni. Infatti in questo modo si mira a creare nell’elettorato conservatore il bisogno di un governo forte e dall’altra a stroncare l’opposizione dell’HDP.

Ma se in gioco ci fosse solo il potere dell’AKP e della cricca del Presidente della Repubblica Erdoğan non si sarebbe arrivati fino a questo punto. Perché non siamo più negli anni ’80: anche se gli apparati dello Stato in Turchia ancora sanno come creare le condizioni per un colpo di stato e come imporre la legge del terrore, oggi non vi è più la situazione internazionale imposta dalla guerra fredda. Inoltre oggi i carri armati nelle strade si trovano di fronte la popolazione e soprattutto i giovani. Perché non siamo più negli anni ’90: non si tratta, come allora, di una guerra di turchi contro curdi giunta all’apice dopo venti anni di guerriglia. In questi anni da una parte il movimento curdo si è legato in modo progressivo alla sinistra rivoluzionaria turca e ha abbandonato la linea della guerra di liberazione nazionale, dall’altra è aumentato il numero dei disertori e l’esercito ha perso molto potere e consenso. La strategia dello stato turco per la repressione interna risponde quindi ad un contesto molto più complesso.
La Turchia attraversa da oltre due anni una forte tensione sociale. La rivolta di massa del giugno 2013 nata da Gezi Park, le proteste seguite alla strage di lavoratori nella miniera di Soma nel gennaio 2014, l’ampia solidarietà con la Rojava e con la lotta per la libertà del popolo curdo culminata nell’insurrezione dell’ottobre 2014, gli scioperi operai del maggio-giugno 2015. Questi elementi non costituiscono un movimento rivoluzionario, ma hanno fortemente messo in discussione il potere dell’AKP e costituiscono un potenziale pericolo per l’intero ordine politico e sociale fondato sullo sfruttamento e l’oppressione grazie al quale fanno profitti sia la vecchia borghesia kemalista sia le nuove “tigri dell’Anatolia”, che assicura i privilegi e il potere della polizia e dell’esercito. In questo contesto di proteste e movimenti di massa hanno avuto un certo ruolo i gruppi anarchici e la sinistra rivoluzionaria turca, e sono riuscite a conquistare una sempre maggiore agibilità politica le varie componenti del movimento curdo. Altra preoccupazione per la classe dirigente turca è la Rojava, il Kurdistan Occidentale in territorio siriano. Il fatto che al di là dal confine turco esista una regione che da due anni è gestita attraverso forme di autogoverno e controllata dalle milizie di autodifesa popolare del PYD (Partito dell’Unità Democratica, il partito curdo in Siria legato al PKK), in cui sono presenti anche forze che puntano alla rivoluzione sociale, costituisce un simbolo di libertà troppo pericoloso.
Ma le potenzialità rivoluzionarie dei processi in atto nella regione compresa tra la Siria e la Turchia costituiscono un rischio anche per gli equilibri internazionali. Infatti è chiaro che l’AKP può permettersi impunemente (per ora) di scatenare la guerra contro l’opposizione interna solo perché devono essere garantiti anche gli interessi degli “alleati”.
Nei giorni in cui l’aviazione turca iniziava i bombardamenti delle postazioni dello Stato Islamico e del PKK lo stesso Presidente della Repubblica Erdoğan confermava di aver concesso agli Stati Uniti l’utilizzo della base aerea turca di Incirlik; inoltre il 28 luglio, quattro giorni dopo l’inizio dei raid, il Segretario generale della NATO Stoltenberg ha dichiarato che l’Alleanza “supporta la lotta della Turchia contro il terrorismo”.

La strategia della Turchia mira quindi principalmente a colpire la componente rivoluzionaria per minarne la forza e l’influenza e ad isolarla terrorizzando la popolazione, blandendo le componenti più moderate e opportuniste.

Di fronte a questa situazione la solidarietà internazionalista è fondamentale. Come anarchici dobbiamo continuare a sostenere quei compagni che, come il gruppo anarchico DAF, lottano in una prospettiva di rivoluzione sociale sapendo che non saranno nuove elezioni o incarichi di governo ad assicurare maggiori libertà, che non saranno certo gli Stati Uniti, l’Unione Europea o altre potenze mondiali e regionali a difendere le esperienze di autogoverno.

Dario Antonelli

questo articolo sarà pubblicato sul prossimo numero del settimanale anarchico Umanità Nova.

Umanità Nova si può trovare anche a Livorno presso le edicole di Via Garibaldi 7, di Piazza Damiano Chiesa, di Piazza Grande (angolo Bar Sole), di Viale Carducci (angolo Via del Risorgimento), di Viale di Antignano 110, di Piazza Micheli (lato Quattro mori), di Piazza della Vittoria (angolo Via Magenta) presso il Bar Dolcenera in Via della Madonna (angolo Viale degli Avvalorati), la Libreria Belforte in Via Roma 69 e presso la sede della Federazione Anarchica Livornese in Via degli Asili 33 (apertura ogni giovedì dalle ore 18 alle ore 20).

immagini da Diyarbakir (Amed)

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immagini da Gever che testimoniano l’uso di mortai da parte del governo contro la popolazione

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immagini da Cizre: i segni degli attacchi del governo turco e una delle barricate erette dalla popolazione

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PIETRO GORI – PENSIERO E AZIONE 1865 – 2015 A 150 ANNI DALLA NASCITA

PIETRO GORI – PENSIERO E AZIONE

1865 – 2015

A 150 ANNI DALLA NASCITA

L’anarchismo di Pietro Gori dimostra ancora oggi la propria forza dirompente. Pietro Gori, grazie al suo pensiero e alla sua azione, è un punto di riferimento nelle lotte attuali.

Ieri come oggi la lotta contro la guerra, contro lo sfruttamento, contro la distruzione del territorio, sono elementi centrali dell’azione degli anarchici. Ieri come oggi gli anarchici sono al fianco di tutti gli sfruttati e di coloro che vogliono una reale trasformazione sociale.

Il movimento anarchico tra Ottocento e Novecento in Italia è caratterizzato dallo sforzo organizzatore e dal progressivo radicamento tra i lavoratori. In questo contesto Pietro Gori è una delle personalità più rilevanti; costretto dalla repressione a vivere esule in varie parti del mondo, mette la sua capacità comunicativa a disposizione della propaganda, mette la sua professione di avvocato a disposizione dei lavoratori e dei militanti colpiti dalla repressione. Pietro Gori è un agitatore politico, è un organizzatore sindacale, è un internazionalista che individua nel movimento operaio l’elemento di trasformazione sociale, è una persona che riesce ad unire la passione politica allo slancio espressivo ed artistico.

SABATO 19 settembre
presso la Federazione Anarchica Livornese, Via degli Asili 33, Livorno.

ore 17:30 PIETRO GORI – PENSIERO E AZIONE (conferenza-dibattito)

Nel corso dell’iniziativa sarà anche presentato lo spettacolo teatrale “Idea d’amor- libere visioni dell’anarchico Pietro Gori” che debutterà il 24 settembre al Teatrofficina Refugio

dalle ore 20 apericena e serata conviviale

Federazione Anarchica Livornese – cdcfedanarchicalivornese@virgilio.it

Collettivo Anarchico Libertariocollettivoanarchico@hotmail.ithttp://collettivoanarchico.noblogs.org

 

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NOSTRA PATRIA È IL MONDO INTERO!

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NOSTRA PATRIA È IL MONDO INTERO!

Da Ventimiglia a Calais fino all’Ungheria la repressione e il blocco dei profughi alle frontiere dell’Europa dimostra come le stragi in mare o nei TIR non siano tragiche fatalità ma il frutto delle politiche messe in atto dai governi europei.
Politiche di guerra nel contesto di una sempre maggiore tensione nello scontro tra le potenze per accaparrarsi le risorse e trovare manodopera a basso costo da sfruttare.
Politiche razziste che limitano la libertà di movimento di coloro che fuggono da condizioni di guerra e miseria, creando forze speciali di polizia come FRONTEX, costruendo centri di espulsione, veri e propri lager, dove migliaia di persone sono detenute solo perché clandestine, costrette a vivere in situazioni disumane, a subire violenze e maltrattamenti.

Negli ultimi mesi i vari governi europei hanno assunto posizioni differenti riguardo all’accoglienza dei profughi; infatti mentre alcuni governi hanno deciso di chiudere le frontiere, altri si sono dichiarati disponibili a ricevere profughi, altri ancora hanno cambiato posizione, anche più volte, nelle ultime settimane. Questa diversità di posizioni è causata dalla concorrenza tra gli Stati e dalle differenti esigenze politiche ed economiche che orientano i vari governi nella gestione del movimento dei profughi che rappresenta allo stesso tempo una massa difficile da controllare e una utile riserva di manodopera a basso costo.
Non esistono quindi governi “umanitari” disposti all’accoglienza, ma solo governi interessati a gestire nuovi flussi di lavoratori immigrati ricattabili e sottopagati. Così come le politiche razziste e la propaganda xenofoba non servono a fermare alcuna fantomatica “invasione” ma ad alimentare il razzismo, criminalizzando le persone immigrate, per dividere i lavoratori tra locali e stranieri, rompendo la solidarietà di classe e assicurando sempre maggior potere, profitti e privilegi per chi ci governa e ci sfrutta.

I profughi e i cosiddetti “immigrati economici” fuggono tutti dalla stessa guerra. Sia che si tratti di conflitti armati, spesso con l’intervento più o meno diretto di potenze mondiali o regionali, sia che si tratti del saccheggio delle risorse, delle nuove forme di colonialismo che creano miseria e disoccupazione. È la stessa guerra che in Italia come negli altri paesi europei subiamo tutti i giorni. La guerra condotta dagli sfruttatori contro gli sfruttati, dai governanti contro i governati.
La solidarietà tra gli sfruttati di ogni paese è quindi l’unica risposta possibile alla miseria, alla guerra e all’oppressione imposte dal potere politico ed economico in tutto il mondo.

La solidarietà si pratica con l’azione diretta a sostegno di chi cerca di superare i controlli alle frontiere, come succede a Ventimiglia e a Calais; la solidarietà si pratica nelle lotte, sul lavoro come per la casa, creando spazi di confronto e azione collettiva; la solidarietà si pratica unendosi e organizzandosi di fronte ai ricatti e alla repressione. Per liberarci dai padroni che ci vorrebbero divisi e in lotta gli uni contro gli altri per un pugno di euro. Per liberarci dagli Stati, che impongono frontiere e polizie, che sfruttano questa ennesima “emergenza profughi” per costruire nuovi campi di concentramento, per militarizzare le città e le frontiere, e per giustificare la guerra, come hanno fatto Francia e Inghilterra lanciando nuovi raid aerei in Siria.
CONTRO LA GUERRA E LA MILITARIZZAZIONE

CONTRO LE POLITICHE RAZZISTE DEI GOVERNI

CHIUDERE SUBITO I C.I.E. E TUTTI I LUOGHI DI DETENZIONE E CONCENTRAMENTO

Se in Toscana ad oggi non è presente un C.I.E. è soprattutto grazie a chi si schierò nel 2010 contro la giunta regionale guidata da Rossi, organizzando comitati e promuovendo assemblee, iniziative e manifestazioni in molte città. Questo per ricordarci che anche la lotta contro le politiche razziste può conseguire dei risultati.

PER UN MONDO SENZA STATI NÉ FRONTIERE
SOLIDARIETA’ AUTORGANIZZAZIONE AZIONE DIRETTA

Collettivo Anarchico Libertario

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Grecia: MEDITERRANEAN ANARCHIST MEETING 10 GIORNI DI EVENTI-DISCUSSIONI-AZIONI 09-18 OTTOBRE 2015

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MEDITERRANEAN ANARCHIST MEETING
10 GIORNI DI EVENTI-DISCUSSIONI-AZIONI
09-18 OTTOBRE 2015
incontro conclusivo: 16-18 ottobre, Chania, Crete

La Campagna anarchica Internazionalista di Solidarietà “Tre Ponti”, con il sostegno attivo di IFA-IAF (Internazionale di Federazioni Anarchiche) organizza un Meeting Anarchico del Mediterraneo in Grecia, dal 9-18 OTTOBRE 2015. Questa riunione di 10 giorni sarà piena di eventi-dibattiti-azioni aperte, che si terranno nelle città / località delle realtà locali, singoli o gruppi greci che partecipano alla campagna “tre ponti” (Atene, Salonicco, Patrasso, Larissa, Chania, Heraklion,
Rethymno). Allo stesso tempo, saranno organizzati gruppi di discussione tematici, con la partecipazione di compagni di federazioni anarchiche nazionali o regionali, gruppi anarchici o singol* compagn*, organizzazioni anarco-sindacaliste, squat anarchici/libertari, etc.
I 3 GIORNI di EVENTI-e di DISCUSSIONI TEMATICHE, a Chania, Creta dal 16 -18 ottobre, saranno il fulcro del MAM.
Il MAM ha l’obiettivo di costruire un contatto diretto, così come relazioni di conoscenza e di interscambio di esperienze, tra gli anarchici e le anarchiche che vivono e agiscono nel bacino del
Mediterraneo. Durante il Mediterranean Anarchist Meeting intendiamo affrontare temi come la questione degli immigrati, dei rifugiati, la minaccia del fondamentalismo religioso, la lotta per il
confederalismo democratico nelle regioni curde, la crisi economica, la disoccupazione e la povertà, l’ascesa del nazionalismo in generale ed in particolare nei Balcani, il conflitto militare in Crimea, le lotte contro la distruzione ecologica di vaste aree, l’emergere di comunità auto-organizzate, la repressione di stato e le lotte anarchiche in ogni paese.
In questo angolo di mondo, numerose e implacabili domande vengono sollevate. Per questo motivo esatto, ci si aspetta di esplorare i percorsi che costruiamo, o ragionare su quelli che dovremmo seguire per avere una risposta a queste domande. Quel che è certo è che solo la solidarietà internazionalista di coloro che lottano dal basso può essere l’aspetto principale alla base di queste
risposte. Questa solidarietà deve essere espressa attraverso l’effettiva costruzione di ponti di cooperazione e di solidarietà con un carattere internazionalista, in modo da oltrepassare qualsiasi
limitazione o abbattere il muro del dominio dello Stato e del capitalismo, così come del totalitarismo sostenuto dall’esistenza del razzismo, del nazionalismo e del fondamentalismo religioso.
Three Bridges Anarchist Campaign of International Solidarity
http://3gefires.org/en/mediterranean-anarchist-meeting

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Contro i meccanismi repressivi del governo turco

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Contro i meccanismi repressivi del governo turco

Suruç è una delle città curde in territorio turco più vicine a Kobane, non solo geograficamente ma anche per la sua componente demografica e per il ruolo politico che essa ricopre.
Suruç è infatti una delle basi più importanti per il movimento di solidarietà alla rivoluzione in Rojava. Dopo la strage al centro culturale Amara nel centro della città, dove hanno perso la vita più di trenta persone, tra cui anche cinque compagni anarchici, la città è stata testimone di continue tensioni con il governo turco.
Già nella giornata dell’attentato, infatti, numerosi attivisti della SGDF (Federazione delle Associazioni dei Giovani Socialisti), si trovavano presso il centro culturale per una conferenza stampa in cui stavano denunciando la repressione attuata dal governo turco, il quale aveva negato il permesso ai giovani militanti di passare il confine per lavorare a progetti di ricostruzione della città di Kobane. Pochi minuti dopo l’esplosione, difatti, le prime sirene udite dalle persone presenti nei dintorni, non sono state quelle delle ambulanze bensì quelle delle polizia, accorse per reprimere la rabbia della popolazione.
Nei giorni successivi all’attentato, il governo turco ha iniziato una campagna repressiva violentissima contro la sinistra rivoluzionaria turca, contro ogni gruppo organizzato e singoli che presentassero qualsiasi forma di opposizione radicale al governo turco e supporto alla resistenza curda. Inoltre il governo ha lanciato una pesantissima operazione militare contro il PKK, nel Kurdistan in territorio iracheno ed in alcuni villaggi e città del Kurdistan in territorio turco, mietendo molte vittime fra i civili. Il tutto, non a caso, è stato accompagnato da un’operazione di propaganda che ha utilizzato l’attacco ad Amara, che rispondeva perfettamente agli interessi del governo turco e dei suoi sicari di bloccare qualsiasi forma di attività rivoluzionaria nella regione, per fermare una volta per tutte l’attività di solidarietà, con la scusa di una operazione generale contro il terrorismo a guardia della sicurezza interna.
Tra i gruppi colpiti dalla repressione, che ha posto sullo stesso livello militanti della sinistra rivoluzionaria turca e curda con sedicenti membri dello Stato Islamico, vi sono difatti tutti quei soggetti che, come la SDGF, organizzano e si attivano per un supporto diretto ai processi rivoluzionari in Rojava ed alla resistenza contro lo stato turco ed il suo fedele alleato IS.
A riprova dell’attuazione di un progetto repressivo contro qualsiasi oppositore scomodo ai progetti dello stato turco vi è l’imminente opera di rafforzamento dei controlli nella città di Suruç ed in particolare al centro Amara.
Rispetto a diversi mesi fa, infatti, il centro è stato messo sotto stretto controllo da parte delle autorità turche. All’interno della struttura, la polizia, in collaborazione con le autorità nazionali sul territorio, ha posto un ingente numero di telecamere e piazzato microfoni in svariati angoli del centro. Un messaggio chiaro da parte dello stato turco verso chiunque si voglia avvicinare al centro per costruire nuovi meccanismi di solidarietà ed attuare progetti di ricostruzione sociale nel territorio della Rojava e non solo.
Un messaggio che mette in evidenza ancor di più il ruolo che la Turchia, con il suo terrorismo di stato ha avuto nell’esplosione avvenuta al centro Amara. Una mano pesante sulla quale non si debbono fare riflessioni in termini di terrorismo indiscriminato. Una pistola puntata volutamente alla testa di quei militanti che ha avuto come scopo quello di eliminare fisicamente dei giovani rivoluzionari che, con i loro progetti reali, mettevano seriamente a rischio i progetti distruttivi dello stato turco e dei suoi sicari.
Non è neanche un caso osservare come nelle ultime settimane l’area sia stata il teatro di un incremento pesante della presenza di militari e di polizia, già ben consolidati sul territorio dopo l’inizio del processo rivoluzionario in Rojava nel 2013. Camminando per le vie della città, soprattutto nelle ore serali, la presenza di militari, blindati e personale armato si fa pesante e minacciosa.
Nonostante il clima di terrore diffuso dalla Turchia e le minacce perpetrate dallo stato turco a chiunque si fosse permesso nella zona di svolgere incontri, manifestazioni o presidi, Suruç ed in particolar modo alcuni villaggi circostanti hanno continuato ad essere un’importante base per il movimento di solidarietà alla resistenza curda.
A dimostrazione del fatto che la Turchia, nonostante il suo permeante apparato repressivo e la stretta autoritaria e violenta perpetuatasi negli ultimi mesi, non possa in alcun modo entrare nei meccanismi di solidarietà costruitesi con un aumento generale dell’opposizione sociale, vi sono alcune esperienze di solidarietà attiva che ancora oggi mettono sotto costante pressione lo stato turco. Tali esperienze si sviluppano principalmente in alcuni caseggiati situati in prossimità della linea del confine tra Turchia e Syria.
A ridosso del confine turco-siriano, vi è difatti un villaggio che negli ultimi due anni ha assunto una rilevanza fondamentale nelle dinamiche di solidarietà con l’esperienza rivoluzionaria in Rojava: Mehser.
Questo abitato ha ospitato a metà Agosto l’assemblea di alcuni familiari dei martiri delle milizie YPG-YPJ, che attendono di ricevere i corpi dei propri cari morti in battaglia contro ISIS, bloccati al confine tra Syria e Turchia. Il governo turco, da svariati giorni, sta difatti impedendo alle salme di entrare nel territorio della Repubblica Turca, detenendo i corpi sul confine, proibendo ai familiari di poter ricevere le salme per poter svolgere i funerali.
Quando si parla di martiri YPJ-YPG ci riferiamo a tutti coloro che sono morti tra le file della resistenza curda contro lo Stato Islamico ed i suoi alleati in Syria ed altrove.
A Mehser, per l’appunto, la costruzione progressiva di reti di solidarietà, accanto un senso collettivo di coscienza della situazione di tormentata oppressione, rendono forte la necessità di un cambiamento sociale radicale. Le famiglie, infatti, non sono lì solo per rivendicare i propri familiari e confortarsi a vicenda. Esse presentano una sorta di autodifesa organizzata dal basso contro una concreta azione repressiva del governo turco, che si è accanita anche sui caduti che rappresentano uno dei simboli della resistenza. I caratteri organizzativi delle famiglie dimostrano che l’intervento attuato dalla solidarietà lungo il confine non riguarda fattori personali o strettamente legati alla esclusiva vicenda dei martiri. L’assemblea delle famiglie rappresenta uno dei punti d’incontro ad oggi più importanti in queste aree, per una discussione generale sulle manovre repressive dello stato turco e sulle strategie politiche da attuare per supportare in maniera diretta l’esperienza rivoluzionaria in Rojava. Questa è la ragione per la quale il raduno delle famiglie con la loro costante presenza nel villaggio si lega a tutta ad una serie di attività che si radicano in tutto il territorio anatolico.
Mentre lo stato turco continua ad impiegare la sua coercizione tramite il suo forte apparato gerarchico, utilizzando la tortura dell’attesa per piegare la volontà delle famiglie, la resistenza e la solidarietà agiscono attraverso diverse reti che si sono radicate in tutto il contesto sociale anatolico. La solidarietà in queste aree funziona attraverso micro relazioni sociali e strutture assembleari che riescono, ormai da diverso tempo, a scavalcare completamente l’apparato repressivo turco.
L’assemblea delle famiglie dei martiri ha presidiato il territorio di confine per più di sette giorni. Ogni sera i solidali accorsi da ogni parte della Turchia si radunano in un’assemblea congiunta per decidere le mosse da attuare per il prosieguo della lotta.
Tra i presenti all’assemblea nel villaggio anche il Partito Democratico Dei Popoli (HDP) con alcuni rappresentanti appena eletti nel parlamento della Repubblica Turca. L’HDP presidia con le famiglie ed i solidali la zona cercando di aprire dei negoziati con le autorità nazionali sul territorio. Le trattative con Ankara sono però sino ad oggi fallite ed il governo nazionale non ha dato risposte chiare sulla vicenda ai familiari.
Nonostante ciò le famiglie si sono rifiutate di cessare l’assemblea ed hanno deciso autonomamente di spostarsi nella sede del DBP (partito locale gemello dell’HDP) in modo da seguire più da vicino e fare pressione sui negoziati tra HDP ed Ankara. Ogni giorno sino alle ultime ore di luce, le famiglie hanno continuato a tentare di arrivare ad una soluzione accettabile con lo stato turco che però è rimasto fermo sulle sue posizioni, affermando che non vi sarebbe stata alcuna possibilità che i corpi dei “terroristi” (così chiamati dalle autorità turche) potessero passare la frontiera.
Alla fine dell’ultima giornata passata nelle stanze della sede del DBP, le famiglie decidono stremate di rientrare nelle proprie città di origine in Anatolia, senza naturalmente rinunciare ad alcuna forma di lotta alternativa. Si pensano così altre strategie politiche per risolvere il caso specifico e placare la lunga sofferenza per la perdita dei propri cari, oltre al disprezzo subito da essi per mano dello stato turco.
L’atteggiamento ostinato delle famiglie nel non voler abbandonare il territorio sino all’ultimo istante della trattativa tra un partito ed il governo dimostra l’importanza della creazione di catene di solidarietà dal basso che danno una direzione ben precisa all’intero movimento di resistenza.
Per ora, infatti è bene notare che sia in Rojava che nel Kurdistan in territorio turco il protagonismo della popolazione nella sua pluralità, la presenza radicata di gruppi rivoluzionari e l’autodifesa popolare nelle sue diverse forme, rendono possibile l’apertura di nuove prospettive rivoluzionarie nell’area.

Report dal Kurdistan, agosto 2015
Giacomo Sini
Francesca Şimdi

Questo articolo è stato pubblicato sul settimanale anarchico Umanità Nova.
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Idea d’Amor (libere visioni dell’anarchico Pietro Gori)

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IDEA D’AMOR (LIBERE VISIONI DELL’ANARCHICO PIETRO GORI)

una produzione Teatrofficina Refugio in collaborazione con Federazione Anarchica Livornese

da giovedi 24 a mercoledi 30 settembre al Teatrofficina Refugio, Scali del Refugio 8, Livorno

ore 22 posto unico cinque euro

testi Pietro Gori
studio e ricerche a cura di Teatrofficina Refugio e Federazione Anarchica Livornese
adattamento Emiliano Dominici e Patrizia nesti
musiche originali Alessandra Falca

con Paolo Spartaco Palazzi, Alessandra Falca, Emilia Trevisani, Assad Zaman, Giacomo La Rosa, Chiara Lazzerini, Riccardo Prianti, Romeo Domilici

aiuto regia Elisabetta Cipolli
capo tecnico Selvaggio Casella
luci Martina Di Domenico

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L’esercito nelle strade protegge le politiche antipopolari del governo

Dall’opuscolo: LA GUERRA DEL GOVERNO CONTRO GLI SFRUTTATI

4. L’esercito nelle strade protegge le politiche antipopolari del governo

Dal marzo scorso anche a Livorno sono stati schierati i soldati nelle strade della città.
A inizio anno infatti è stata ulteriormente prorogata l’Operazione Strade Sicure, inaugurata nel 2008 dall’allora Ministro della Difesa Ignazio La Russa e definita dalla legge 25 del 24 luglio 2008, il cosiddetto “Pacchetto Sicurezza” che prevedeva, insieme ad altre misure repressive, l’utilizzo delle Forze armate per attività di pubblica sicurezza nelle città. In questi anni sono state impiegate soprattutto unità dell’Esercito, ma anche dell’Aeronautica, della Marina e dell’Arma dei Carabinieri. Con la proroga di inizio 2015 si è avuto un rafforzamento dell’operazione con un incremento da 3000 a 4500 nel numero dei militari schierati e con il coinvolgimento di altre città nell’operazione. È così che in alcune città toscane e pure a Livorno sono arrivati i militari nelle strade.

Ad inizio anno il Ministero degli Interni ha chiesto a tutte le prefetture se sui rispettivi territori vi fosse bisogno dell’impiego di un contingente militare per controlli antiterrorismo e per la vigilanza dei cosiddetti siti sensibili. La decisione in questi casi spetta quindi al Ministero e alle prefetture, che possono decidere anche in che modo schierare il contingente, se attraverso presidi fissi o perlustrazioni lungo le strade cittadine.
La Prefettura di Livorno, come in Toscana quella di Lucca, Firenze e Prato, ha deciso di schierare i soldati nelle strade in funzione antiterrorismo, ed il compito è stato assegnato alla Brigata Paracadutisti Folgore. Per questo dalla seconda metà di marzo si vedono per le strade della città paracadutisti in assetto da guerra, a piedi o su mezzi dell’esercito, che imbracciano mitragliatori. Trattandosi di un’operazione antiterrorismo l’ingaggio è militare, dicono dalle prefetture per giustificare le armi da guerra in dotazione alle truppe che girano per le città. Ma la “minaccia islamica” è una menzogna, un pretesto utilizzato anche dalla stampa locale.

In realtà siamo di fronte a politiche di sicurezza fortemente autoritarie condotte in modo trasversale dai governi che si sono susseguiti negli ultimi sette anni. Non si tratta né di una misura d’urgenza adottata dopo gli attentati di Parigi e di Tunisi di inizio 2015, né di “eccezionali esigenze di prevenzione della criminalità” come recitava la legge del 2008 che isitituiva il concorso delle Forze armate nel controllo del territorio. Non stiamo quindi parlando di casi eccezionali, della gestione militare di un’emergenza, che sarebbe comunque una grave forma di militarizzazione, ma di una linea generale in materia di sicurezza, centrata sull’impiego dei militari a scopo di sicurezza interna, adottata dai differenti governi che si sono succeduti.

Con i militari nelle strade si esaspera la percezione della “minaccia” del terrorismo e della criminalità, si tenta di giustificare e normalizzare l’impiego delle Forze armate nel controllo del territorio, ma anche nella repressione di proteste popolari.

Ad aprire la strada all’Operazione Strade Sicure è stata la gestione militare dell’emergenza rifiuti in Campania del 2008. Il governo allora decise, dopo una grande campagna mediatica, di gestire l’emergenza manu militari, per fronteggiare la determinata opposizione della popolazione. Venne proclamato lo stato di emergenza, venne nominato Sottosegretario per l’emergenza rifiuti Guido Bertolaso allora Capo del Dipartimento della Protezione Civile, infine le discariche vennero dichiarate siti di interesse strategico, da tutelare quindi anche attraverso l’impiego delle Forze armate. Questi provvedimenti, previsti in un decreto del maggio 2008, divennero legge nel luglio dello stesso anno, una decina di giorni prima dell’approvazione del pacchetto sicurezza che dette il via all’Operazione Strade Sicure.

Ma l’esempio più eclatante dell’utilizzo delle Forze armate a scopo di repressione interna si ha in Val di Susa. Dal primo gennaio 2012 è stata dichiarata area di interesse strategico nazionale La Maddalena di Chiomonte, dove sorge il cantiere per il tunnel geognostico della linea Torino-Lione della TAV, a cui si oppone il vasto movimento NO TAV, radicato a livello locale nella popolazione e diffuso a livello nazionale. Già da anni la Val di Susa era di fatto militarizzata da polizia e carabinieri, impiegati dal governo per fronteggiare la determinazione del movimento di opposizione alla linea TAV. Lo schieramento delle Forze armate ha aumentato enormemente la militarizzazione, trasformando la Valle in terra d’occupazione, in fronte di guerra. A Chiomonte c’è un soldato ogni due abitanti, sono stati schierati contro i manifestanti gli alpini reduci dell’Afghanistan, ci sono posti di blocco, pattugliamenti, elicotteri, uomini e mezzi schierati nelle strade e nei boschi.

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La gestione militare dell’emergenza rifiuti in Campania e la militarizzazione della Val di Susa ben rappresentano la linea politica volta all’impiego delle Forze armate a scopo di repressione interna portata avanti dai governi che si sono succeduti negli ultimi anni. L’Operazione Strade Sicure, con il coinvolgimento dei soldati nel controllo delle città serve quindi a normalizzare l’uso repressivo delle Forze armate. Una militarizzazione della sicurezza interna e una sovrapposizione dei ruoli degli apparati dello Stato, che avviene in parallelo ai cambiamenti che da circa un decennio sono in atto nelle Forze armate e nei Corpi dello Stato, orientati principalmente ad una riorganizzazione in senso di coesione, specializzazione e operatività. Questo avviene nelle Forze armate, ad esempio con la creazione di unità di intervento rapido, e avviene nella Polizia e negli altri Corpi come una forma di rimilitarizzazione.

Il vero problema non sta nel tipo di divisa che indossa chi esercita nelle strade la repressione dello Stato, ma nel fatto che ci troviamo di fronte ad una guerra del governo contro i lavoratori e le lavoratrici, contro gran parte della popolazione. È una guerra che c’è sempre stata, ma che recentemente si è fatta più aspra e diretta. Per questo si schierano anche i soldati nelle strade e le truppe occupano quei territori in cui la protesta popolare si fa più determinata.

Negli ultimi anni i governi che si sono succeduti hanno infatti condotto una vera e propria guerra sociale contro la classe lavoratrice. Nel 2012, quando ancora era alla guida del governo, Monti disse che per l’Italia si prospettava un “percorso di guerra”, riferendosi alle cosiddette politiche di austerità. L’imposizione senza appello di politiche di attacco alla classe lavoratrice, di difesa degli interssi padronali e dei grandi privilegi infatti non può essere gestita che in modo militare.
Quindi opporsi alla repressione ed in particolare alla militarizzazione e all’impiego delle Forze armate nella sicurezza interna è una parte indispensabile della lotta contro le politiche del governo.

È necessario rilanciare e diffondere l’antimilitarismo, smascherando la sempre più stretta continuità tra la guerra condotta dentro i confini nazionalie quella condotta al di fuori di essi. In entrambi i casi si bombarda, si pratica la repressione, l’occupazione militare e il saccheggio per assicurare gli interessi dei potenti e del grande capitale.

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Blocco contratti del pubblico impiego: derubare i lavoratori per ingrassare i capitalisti

Dall’opuscolo: LA GUERRA DEL GOVERNO CONTRO GLI SFRUTTATI

3. Blocco contratti del pubblico impiego: derubare i lavoratori per ingrassare i capitalisti

Nella lettera che la BCE scrisse, con firma congiunta Trichet e Draghi, al governo italiano nell’agosto 2011 indicando le misure che dovevano essere prese per risanare il bilancio statale si leggeva fra l’altro:
E’ possibile intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l’età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo dei risparmi già nel 2012. Inoltre, il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover e, se necessario, riducendo gli stipendi.

Il governo Berlusconi aveva in realtà già provveduto a bloccare i contratti degli impiegati pubblici fin dall’anno prima, riducendo di fatto gli stipendi agli statali. Stipendi che di fatto erano già fermi visto che ormai da almeno 10 anni il rinnovo contrattuale nel pubblico impiego si limitava a reintegrare solo l’inflazione programmata dal governo (e quindi neppure quella reale, sempre superiore) e quindi non comportava di fatto aumenti reali. Il blocco deciso da Berlusconi verrà poi confermata sia dal governo Monti, il “sobrio” tecnico inviatoci dai poteri forti della finanza europea, che da quello Letta, un altro politico molto ben visto in tali ambienti, che da quello Renzi, lo scendiletto di Francoforte e Bruxelles.
Seguendo le indicazioni della BCE (si scrive indicazioni si legge diktat), il governo Monti operò un blocco degli aumenti delle pensioni superiori ai 1500 euro lordi, in pratica operando lo stesso meccanismo già sperimentato sui contratti pubblici.

Dopo le sentenze della Corte Costituzionale che ha sancito l’incostituzionalità sia del blocco delle pensioni che di quello dei contratti statali, sappiamo che buona parte del “risanamento” operato dai vari governi succedutesi negli ultimi anni è stato fatto sulla pelle di queste due categorie: 50 miliardi di euro che il governo ha risparmiato e che vanno aggiunti ai tagli sulla sanità, sulla scuola, sui servizi sociali. Segni indelebili sulla società italiana a cui vanno sommati la disoccupazione giovanile di massa, la precarizzazione dei rapporti di lavoro, i licenziamenti, ecc. al fine di realizzare quella contrazione della domanda interna (per diminuire le importazioni e favorire le esportazioni, panacea di tutti i mali, secondo le sanguisughe della finanza mondiale).
E’ evidente come i governi violino ormai abitualmente le leggi dello Stato: la Corte costituzionale ha evidenziato la illegittimità dei provvedimenti sul contratto degli statali e sul blocco delle pensioni, ma è recente la decisione di far riaprire con un decreto legge governativo gli stabilimenti di Monfalcone e Taranto, bloccati da provvedimenti della magistratura dopo gravi inadempienze delle Società Fincantieri e Ilva. Il tutto con la scusa di salvaguardare i posti di lavoro!

Per tornare ai dipendenti pubblici è stato calcolato che il blocco dei contratti sia costato, in media, circa il 10% dei loro salari per un totale di circa 35 miliardi di euro in cinque anni, mentre negli ultimi anni si sono persi 221mila posti di lavoro nel pubblico impiego. Soldi che lo stato ha risparmiato e che sono serviti a ripagare il debito verso gli speculatori internazionali, a finanziare le spese e le avventure militari all’estero, a salvare le banche. E’ notizia di questi giorni che lo Stato italiano è divenuto il secondo socio per importanza del Monte dei Paschi di Siena grazie ad un prestito, mai restituito, di circa 5 miliardi di euro.
Insomma: un enorme travaso di soldi dalle tasche dei lavoratori, dei pensionati, dei precari a quelle dei capitalisti.

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