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Livorno 22 ottobre: basta guerra

Da: Umanità Nova n. 28 del 16 ottobre 2011 – www.umanitànova.org

 

Dietro questo slogan saremo in piazza a Livorno sabato 22 ottobre, insieme ad altre forze politiche, sociali e sindacali che hanno costituito il Comitato 22 ottobre.
Sabato 22 ottobre è il giorno scelto per il rientro dei paracadutisti della “Folgore” dalla missione in Afghanistan e la Livorno ufficiale si prepara ad accoglierli la mattina allo stadio e il pomeriggio alla Rotonda di Ardenza.
Insieme al ritorno delle truppe, le autorità militari e civili celebreranno la battaglia di El Alamein, svoltasi durante la seconda guerra mondiale, quando i paracadutisti italiani furono sconfitti dall’esercito britannico. Sarà quindi anche un’occasione per vedere in città i nostalgici di quello sciagurato periodo.
Dopo le contestazioni degli anni precedenti, nell’ottobre del 2010 fu organizzata per la prima volta una grande manifestazione unitaria che portò in piazza  l’opposizione al militarismo, alla guerra, alle spese militari, ai tagli e ad ogni nostalgia fascista. Rispetto allo scorso anno la situazione si è solo aggravata.
La concertazione salariale e le manovre a ripetizione del governo colpiscono i reddito proletario. Con il ricatto del debito si impone agli sfruttati, ai ceti popolari di pagare sulla propria pelle il mantenimento dei privilegi dei governanti, di Confindustria e delle banche, delle forze armate e della Chiesa. Le spese per gli armamenti nel 2010 hanno raggiunto i 23 miliardi e mezzo di euro, 29 miliardi sono stati investiti per acquistare aerei caccia, caccia bombardieri F-35 ed elicotteri da guerra.
La guerra imperialista alla Libia, combattuta anche dalle forze armate italiane, si è aggiunta a quella che si combatte ancora in Afghanistan, e alle altre missioni cosiddette di pace. Questa nuova guerra ha portato con le bombe morte e devastazione in Libia e devastazione sociale in Italia con montagne di euro spese per finanziare la “missione”.
Gli anarchici livornesi, insieme alle altre realtà anarchiche della Toscana, invitano tutti i compagni a partecipare alla manifestazione unitaria che si svolgerà sabato 22 a Livorno. Concentramento ore 16,30 in Piazza Garibaldi.

Commissione di corrispondenza della Federazione Anarchica Livornese

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Sabato 22 ottobre a Livorno corteo contro ogni guerra militare, economica e sociale

Basta guerra: militare, economica e sociale

22 ottobre Livorno scende in piazza contro crisi, guerra e spese militari

Sabato 22 ottobre ci sarà come ogni anno a Livorno la parata militare dei nostalgici di El Alamein, con l’occupazione mattutina dello stadio e pomeridiana della Rotonda d’Ardenza per il solito sfoggio di armi e strumenti di morte.

Nell’ottobre del 2010 una grande manifestazione unitaria, per la prima volta in quella occasione, portò in piazza l’opposizione al militarismo, alla guerra, alle spese militari, ai tagli e ad ogni nostalgia fascista, contro gli attacchi alla scuola pubblica ed ai lavoratori. Rispetto allo scorso anno la situazione per le fasce più deboli e più povere della popolazione si è solo aggravata. La concertazione e le manovre finanziarie del governo affondano sempre più le mani nelle tasche dei lavoratori e delle lavoratrici. Con il ricatto del debito si impone a chi già è sfruttato di pagare sulla propria pelle il mantenimento dei privilegi della classe politica, di Confindustria e dei padroni, dell’esercito e dei settori militari.

Le spese per gli armamenti nel 2010 hanno raggiunto i 23 miliardi e mezzo di euro, 29 miliardi sono stati investiti per acquistare aerei caccia, caccia bombardieri F-35 ed elicotteri da guerra. Questa primavera la guerra imperialista alla Libia combattuta anche dalle forze armate italiane, ha portato con le bombe morte e devastazione in Libia e devastazione sociale in Italia con montagne di euro spese per finanziare la “missione”. Quindi la necessità di scendere in piazza il prossimo 22 ottobre è ancora più forte, in quanto ci troviamo di fronte ad un duro attacco agli strati popolari, ai lavoratori, ai precari, agli studenti, ai disoccupati, ai pensionati, ai migranti.

Nei giorni scorsi alcuni singoli e organizzazioni che lo scorso anno hanno partecipato alla costruzione del corteo cittadino contro la celebrazione di El-Alamein, si sono ritrovati per un incontro preliminare nel quale tutti i soggetti hanno rinnovato la propria intenzione e il proprio impegno per costruire quella giornata di lotta.

Per questo è importante tornare in piazza il 22 ottobre, costruendo una manifestazione che si inserisca nel più generale percorso di lotta contro la crisi imposta dai governi e dai padroni.

Un percorso di cui la manifestazione nazionale a Roma del 15 ottobre costituisce un momento fondamentale di lancio verso l’autunno del conflitto sociale. Crediamo fondamentale anche che il 15 ottobre in Italia non debba essere la data della rappresentanza in nessuna sua forma, ma un momento di espressione dal basso che renda possibile anche un rilancio della conflittualità territoriale. Per questo lavoreremo affinché sul nostro territorio il 15 ottobre si fonda con le annunciate proteste studentesche cittadine e con le agitazioni dei lavoratori della prima metà del mese e sia un trampolino di lancio verso la manifestazione cittadina del 22 ottobre.

Sabato 22 ottobre Manifestazione con concentramento P.zza Garibaldi ore 16.30

Comitato promotore 22 ottobre

 

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15 ottobre: Contro la crisi? – Ma cos’è questa Crisi?

Contro la crisi? – Ma cos’è questa Crisi?

Nel corso della storia del capitalismo ci sono state tantissime crisi.
E’ proprio grazie alle crisi che il capitalismo perpetua se stesso consentendo a chi
ha soldi e poltrone di mantenere i propri privilegi , mentre per noi tutte e tutti
cambiano solo le forme dello sfruttamento

Eppure quotidianamente giornali e televisione, organi di regime, ci presentano la crisi come
qualcosa di straordinario e che bisogna affrontare tutti/e, insieme anche
a politici e padroni, insieme, secondo una logica dell’emergenza finalizzata a imporre sacrifici e impedire la radicalizzazione delle lotte

In tutti i paesi con la scusa della crisi e dell’emergenza economico sociale, si perpetrano politiche sempre più restrittive delle libertà individuali e di repressione verso ogni voce di dissenso
che dal basso si leva contro le decisioni della classe dirigente.

Come non pensare al continuo attacco ai salari e alle condizioni di vita dei lavoratori, alle politiche contro i migranti, lavoratori in cerca di occupazione o donne e uomini in fuga da guerra e
persecuzione… Una continua guerra interna a cui si aggiunge, sempre più pesantemente, la guerra esterna.
Le cosiddette potenze mondiali decidono le sorti di milioni di persone
e le guerre sono uno dei loro strumenti preferiti. Le guerre infatti
servono a far girare soldi e a controllare risorse naturali… si pensi
al petrolio o a quanto denaro costa far volare un aereo militare!

Ma poi quando si tratta di sostenere le garanzie sociali minime come il
diritto alla casa, alla sanità gratuita per tutti/e, all’istruzione
i governanti di turno ci dicono che si taglia perché c’è la crisi e
dobbiamo sacrificarci. Le guerre invece si fanno..

Nessun governo, nessun padrone nessuno Stato rinuncerebbe mai al profitto e alla sua stessa
esistenza per distribuire risorse in modo da soddisfare bisogni e garantire
diritti a tutti gli sfruttati/e.. Per questo la creazione di
lotte dal basso orizzontali, dove ogni individuo possa partecipare
attivamente, è la sola via perseguibile affinché si vada verso un altro sistema di gestione della vita sociale economica
e politica.

A che servono quindi le concertazioni dei sindacati che portano alla
firma di accordi come quello del 28 giugno scorso?

Accanto alla rivendicazione di diritti e bisogni dobbiamo batterci contro la proprietà privata dei mezzi di produzione e di scambio così da poter sperimentare
forme di autogestione del nostro quotidiano volte a sottrarre il potere
che su di noi esercitano stato e capitale.
Non paghiamo noi i debiti di lor signori, non paghiamo noi le crisi di
un sistema che non vogliamo!
imponiamo un cambiamento radicale sulla base di conquiste sociali per tutti e tutte senza alcuna fiducia nell’azione dell’attuale governo o di quelli che verranno.

ANARCHICI TOSCANI

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Basta guerra: militare, economica e sociale

Basta guerra: militare, economica e sociale

 

Sabato 22 ottobre ci sarà come ogni anno a Livorno la parata militare dei nostalgici di El Alamein, con l’occupazione mattutina dello stadio e pomeridiana della Rotonda d’Ardenza per il solito sfoggio di armi e strumenti di morte.

Nell’ottobre del 2010 una grande manifestazione unitaria, per la prima volta in quella occasione, portò in piazza l’opposizione al militarismo, alla guerra, alle spese militari, ai tagli e ad ogni nostalgia fascista, contro gli attacchi alla scuola pubblica ed ai lavoratori.

Rispetto allo scorso anno la situazione per le fasce più deboli e più povere della popolazione si è solo aggravata. La concertazione e le manovre finanziarie del governo affondano sempre più le mani nelle tasche dei lavoratori e delle lavoratrici. Con il ricatto del debito si impone a chi già è sfruttato di pagare sulla propria pelle il mantenimento dei privilegi della classe politica, di Confindustria e dei padroni, dell’esercito e dei settori militari.

Le spese per gli armamenti nel 2010 hanno raggiunto i 23 miliardi e mezzo di euro, 29 miliardi sono stati investiti per acquistare aerei caccia, caccia bombardieri F-35 ed elicotteri da guerra. Questa primavera la guerra imperialista alla Libia combattuta anche dalle forze armate italiane, ha portato con le bombe morte e devastazione in Libia e devastazione sociale in Italia con montagne di euro spese per finanziare la “missione”.

Quindi la necessità di scendere in piazza il prossimo 22 ottobre è ancora più forte, in quanto ci troviamo di fronte ad un duro attacco agli strati popolari, ai lavoratori, ai precari, agli studenti, ai disoccupati, ai pensionati, ai migranti.

Nei giorni scorsi alcuni singoli e organizzazioni che lo scorso anno hanno partecipato alla costruzione del corteo cittadino contro la celebrazione di El-Alamein, si sono ritrovati per un incontro preliminare nel quale tutti i soggetti hanno rinnovato la propria intenzione e il proprio impegno per costruire quella giornata di lotta.

Per questo è importante tornare in piazza il 22 ottobre, costruendo una manifestazione che si inserisca nel più generale percorso di lotta contro la crisi imposta dai governi e dai padroni.

Un percorso di cui la manifestazione nazionale a Roma del 15 ottobre costituisce un momento fondamentale di lancio verso l’autunno del conflitto sociale. Crediamo fondamentale anche che il 15 ottobre in Italia non debba essere la data della rappresentanza in nessuna sua forma, ma un momento di espressione dal basso che renda possibile anche un rilancio della conflittualità territoriale. Per questo lavoreremo affinché sul nostro territorio il 15 ottobre si fonda con le annunciate proteste studentesche cittadine e con le agitazioni dei lavoratori della prima metà del mese e sia un trampolino di lancio verso la manifestazione cittadina del 22 ottobre.

SABATO 22 OTTOBRE CORTEO CITTADINO E INIZIATIVE CONTRO OGNI GUERRA E SPESA MILITARE!!!

Comitato promotore 22 ottobre

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È il momento di attaccare

Oltre lo sciopero del 6 settembre

Quando scriviamo è già passata quasi una settimana, quando leggerete forse 2. Eppure un passaggio per il 6 settembre 2011 è imprescindibile. Erano mesi che veniva chiesto alla CGIL di dichiarare lo sciopero generale ed alla fine Susanna Camusso s’è decisa. Con ogni probabilità, al di là della protervia governativa, la decisione dello sciopero è stata presa per evitare che la situazione sfuggisse di mano.
Se non ora quando? Scrivevamo in un opuscolo diffuso allo sciopero della FIOM del 27 gennaio scorso.
Questo ritornello, prodotto dalla mobilitazione per la difesa della dignità delle donne, dev’essere risuonato più e più volte nella stanze di Corso d’Italia.
I frutti di uno sciopero, per certi versi inevitabile, non si sono ancora potuti raccogliere.
Vuoi perché la mobilitazione non è stata imponente, vuoi perché il quadro politico e sociale non è oggi riformabile. E l’obiettivo della CGIL non era  quello di voltare pagina ma di “incidere” sulla manovra finanziaria (la seconda – e forse nemmeno l’ultima – in pochi mesi), cercando di attenuare alcuni aspetti e, soprattutto, di mantenere i suoi privilegi e il diritto d’interdizione. La difesa dei patti del 28 giugno veniva prima delle critiche all’articolo 8 della manovra.
Vuoi, inoltre, per una debolezza evidente dell’opposizione sociale che non si è dimostrata capace di prendere la situazione in mano. Lo sciopero “autoorganizzato” del 6 ha visto solo alcuni dei sindacati di base impegnati mentre molti altri hanno dato risposte locali o “diverse” puntando su presidi davanti al Senato ed alla Camera.

Al di là del 6 settembre vale la pena tornare sulla questione generale della fase che stiamo vivendo. Sulle pagine di Umanità Nova abbiamo seguito passo passo gli eventi. Il carattere strutturale della crisi; le politiche da “flebo” che i vari governi (tutto il G20) e le agenzie internazionali (FMI, BM, BCE, FED, OCSE, …) hanno somministrato a un sistema al collasso per metterlo al riparo da un’inevitabile bancarotta; le risposte, per quanto episodiche ed insufficienti che si sono prodotte (dalle rivolte in Grecia alle imponenti manifestazioni in Spagna, dalla primavera Araba alle rivolte di Londra e Philadelphia, …); le crisi dei “derivati”; le politiche monetariste; la guerra che insanguina metà del globo dal 1991. Quindi non starò a riprendere gli argomenti e le analisi.
La crisi è mondiale, la crisi è strutturale, anche il capo dello Stato lo dice: “niente sarà più come prima”.
Questo significa non solo che continuerà l’erosione dei salari (50% rispetto al 1980) e delle libertà (emergenza dopo emergenza) ma che la guerra, quella sociale, ce l’avremo in casa.
Come faranno le donne a lavorare (quelle che se lo possono permettere) fino a 65 anni. Impossibile! A meno di avere una colf ed una badante ed una baby sitter. Chi se lo potrà permettere?
Gli asili, quando ci sono, assorbono quasi la metà di un salario, poi c’è l’affitto o la rata del mutuo (pari ad un salario), poi ci sono le utenze (anche qui, sommando il tutto, quasi metà di un salario); quindi per mangiare e per vestirsi si deve rubare.
L’elenco dei casi e delle combinazione potrebbe proseguire a lungo.
Dalla valanga di tabelle pubblicate in questi mesi per illustrare la manovra finanziaria emerge un dato incontestabile: l’80% della popolazione italiana è “poco o per nulla abbiente”. E con i 100 miliardi delle 2 manovre estive questa “miseria” si aggraverà ulteriormente. Dai ticket all’IVA, dalle addizionali alle accise ulteriori tasse (circa 25 miliardi); dai tagli (circa 45 miliardi) ancora scarico sulle famiglie (ed  in particolare sulle donne che, secondo il governo, sono antropologicamente adatte al lavoro di cura) dei servizi sociali che non ci sono più. E’ inoltre attesa una spinta inflazionistica (bestia nera della BCE) che aumenterà ulteriormente il costo delle utenze, in un “combinato disposto” con le privatizzazioni delle municipalizzate, imposte dal governo che faranno aumentare ulteriormente le tariffe (dai trasporti urbani ai parcheggi, dall’acqua al gas, dai rifiuti urbani all’elettricità).
Oggi invocare una “difesa” delle conquiste sociali non è più sufficiente. La vicenda “pensioni” ha fatto piazza pulita di ogni diritto acquisito.
Per noi anarchici questo non desta meraviglia, consapevoli come siamo che lo stato non è un “bene comune” ma l’attore principale dell’oppressione e dello sfruttamento,  ma molti settori dell’opposizione sociale sono ancorati a schemi interpretativi che vedono nella “legge” un baluardo alla barbarie sociale.
Il nostro ruolo, ancora una volta, è quello di indicare una via d’uscita rivoluzionaria. L’attacco ai privilegi deve partire dai territori così come emerge non solo dalla vicende del nostro paese (dalla TAV ai rifiuti) ma anche dalle altre parti d’Europa (in Grecia le assemblee “indignate” hanno assunto i connotati di spazi di autogoverno, in Spagna le indicazioni della CNT vanno nella stessa direzione).
Sostenere le lotte quotidiane, partecipare alle manifestazioni (il 15 ottobre è annunciata una manifestazione nazionale a Roma, in occasione della giornata internazionale di mobilitazione “indignata”) è doveroso, solidalmente al movimento dei lavoratori, degli immigrati, dei precari ma è necessario che la lotta si sposti dal piano politico-mediatico a quello sociale.
La lotta contro le tariffe potrebbe essere un buon terreno di risposta immediata ed un momento di costruzione di assemblee popolari che prendano in mano le questioni sociali e costruiscano un welfare dal basso (anche in questo senso le indicazioni che vengono dalla Grecia sono molto interessanti).
Di fronte alla crisi potremmo trovarci, inaspettatamente, nelle condizioni di assumere responsabilità che rischiano di essere al di sopra delle nostre possibilità. Su questo, nei mesi scorsi, abbiamo riflettuto circa  le effettive condizioni oggettive delle rivolte e la mancanza di condizioni soggettive di prospettive rivoluzionarie. Ma se non saremo all’altezza delle questioni che si pongono rischiamo con altrettanta evidenza che a prendere in mano le cose siano le destre estreme con la riedizione di quelle dittature che si sono sempre imposte quando il gioco si faceva duro.

WS

 

da: Umanità Nova n. 25 del 18 settembre 2011

http://www.umanitanova.org/

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Palermo. Navi-prigione per nuovi appestati

da senzafrontiere.noblogs.org

È proprio vero che al peggio non c’è mai fine. Dopo i fatti di Lampedusa, dopo quel naufragio dell’umanità che ha portato a una guerra civile fra immigrati e abitanti dell’isola e alla conseguente espulsione di tutti i tunisini, il governo italiano sta mettendo in atto un’operazione inaudita, degna dei peggiori regimi dittatoriali.
In queste ore, settecento immigrati che si trovavano a Lampedusa sono stati trasferiti e si trovano attualmente stipati e detenuti su tre navi ancorate al porto di Palermo: “Moby Fantasy” e “Audacia” di Grandi navi veloci, e la “Moby Vincent”. Il molo Santa Lucia è letteralmente blindato. Sono 650 gli agenti delle forze dell’ordine impiegati in questo internamento concentrazionario su quelli che, burocraticamente, sono definiti “centri di raccolta galleggianti”.
L’obiettivo è quello di rimpatriare a poco a poco tutti gli immigrati, ma la cosa agghiacciante è che le autorità stanno cercando di nascondergli come stanno realmente le cose. I telefonini dei migranti sono stati tutti sequestrati per evitare ogni contatto con l’esterno e scongiurare possibili rivolte a bordo delle navi. Nel frattempo, il governo di Tunisi tiene duro, e le operazioni di rimpatrio stanno subendo un evidente rallentamento.
Sulle navi le condizioni igieniche sono ai limiti della tollerabilità umana e la tensione cresce di ora in ora. Non dovrebbe più stupire nessuno, ma vale la pena di ricordare che tutto questo avviene al di fuori di ogni minima garanzia legale. Le detenzioni non giustificate da un provvedimento di un giudice sono contrarie al più elementare ordinamento giuridico democratico, così come sono legalmente vietate le espulsioni di massa. E invece, a Palermo, il governo italiano tiene segregate settecento persone su tre navi al porto, come se fossero appestati in quarantena, in attesa di disfarsene il prima possibile.

Domenica 25 settembre ore 17 presidio al porto di Palermo

Aggiornamento. A Linosa una novantina di tunisini sbarcati negli scorsi giorni, preoccupato per l’aria che tira si è presentato al porto con un’idea chiara: salire sul traghetto che stava arrivando carico di viaggiatori e provare a proseguire il viaggio. Dopo un lungo tira e molla con il traghetto che stazionava senza attraccare, i passeggeri sono sbarcati e i tunisini sono saliti a bordo. A Porto Empedocle li aspettava un comitato di accoglienza che ha spiegato loro a gesti che il viaggio era finito.
Leggi in merito il pezzo di Zancan sulla Stampa

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Sabato 24 settembre ore 17: Assemblea pubblica sulla manovra

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Torino. Fuga dal CIE

da: senzafrontiere.noblogs.org

Giovedì 22 settembre. La notte scorsa i prigionieri del Centro di Identificazione ed espulsione di corso Brunelleschi hanno tentato una fuga di massa. La seconda in meno di un mese.
In contemporanea hanno tentato di abbattere le porte delle recinzioni delle varie sezioni. In parecchi hanno scavalcato dall’uscita secondaria di corso Brunelleschi.
Alcuni ce l’hanno fatta, altri sono stati riacciuffati. Secondo La Stampa on line hanno riconquistato la libertà in 22, mentre altri 7 sono stati tratti in arresto con l’accusa di resistenza e lesioni.
Durante la notte, alcuni abitanti affacciati al balcone di corso Brunelleschi gridavano ai poliziotti “almeno questi li avete ripresi”.
Come in videogame. Un gioco feroce dove si smarrisce l’umanità.
Oltre quelle gabbie ci sono uomini e donne. Chi lo dimentica è complice.

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Lampedusa. I semi dell’odio

da: senzafrontiere.noblogs.org

Giovedì 22 settembre. Dopo aver bruciato la gabbia che li rinchiudeva 1300 immigrati hanno trascorso la notte all’aperto. Mercoledì 21 si sono mossi in corteo gridando “Libertà! Libertà!”. Un gruppo ha preso della bombole del gas minacciando di farsi saltare: alcuni isolani li hanno presi a sassate, i ragazzi hanno risposto. La polizia li ha caricati e pestati selvaggiamente. Un video mostra i poliziotti che picchiano i tunisini obbligandoli a saltare un muro alto tre metri.
Il sindaco De Rubeis che non ha esitato a minacciare violenze definendo “delinquenti” i rivoltosi, ha raccolto i frutti avvelenati della sua propaganda d’odio.
Un tunisino è stato ferito gravemente e trasferito con l’elisoccorso in ospedale a Palermo.
Secondo quanto riferisce il Gazzettino vi sarebbero stati alcuni tentativi di linciaggio da parte di gruppi di lampedusani inferociti. Anche la troupe di Sky e quella della RAI avrebbero subito attacchi da parte di alcuni isolani.
Maroni è corso ai ripari iniziando i trasferimenti. Undici immigrati sono stati arrestati e rinchiusi nel carcere di Agrigento con l’accusa di incendio, danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale.

Di seguito la cronaca di mercoledì 21 curata da TAZ laboratorio di comunicazione libertaria
I fatti di Lampedusa suscitano rabbia e amarezza. È successo quello che era prevedibile e che, per certi versi, è stato voluto a tutti i costi.
Più di mille persone concentrate in uno spazio ristretto e senza un motivo comprensibile non possono che perdere la testa. Per la gran parte tunisini, gli immigrati del CPSA di Lampedusa sono destinati a essere rimpatriati. Ma negli ultimi giorni, il consolato tunisino ha tirato il freno a causa del raggiungimento del tetto massimo di trasferimenti. I tempi lunghi della detenzione e la stessa prospettiva di essere rispediti in un paese oggettivamente insicuro per via della transizione politica del dopo-Ben Alì, hanno acceso la miccia dell’esasperazione. Martedì 20 settembre gli immigrati prigionieri a Lampedusa hanno
dato fuoco al centro di “accoglienza” distruggendolo completamente. Dopo di che, si sono riversati in paese cercando in qualche modo di manifestare il loro dissenso per una condizione che è davvero inaccettabile. Così come è inaccettabile l’ipocrisia di tutto questo sistema che faceva dire al ministro della difesa La Russa, solo pochi giorni fa, che a Lampedusa tutto va bene e che gli immigrati non hanno niente di cui lamentarsi. Poi, come succede in tutti i campi di internamento per stranieri, una volta finita la visita ufficiale di questa o quell’autorità, i pasti serviti tornano a essere la solita schifezza, e le false premure di sbirri e inservienti ridiventano insulti e botte.
A Lampedusa è successo quello che non doveva succedere: scontri tra immigrati e popolazione locale. Forse è il primo caso eclatante di scontri razziali in Italia. Pare che alcuni tunisini prima abbiano fatto irruzione in un ristorante della zona del porto per poi minacciare di far saltare in aria delle bombole del gas, di quelle che si usano in cucina. A quel punto, il fronteggiamento con i lampedusani si trasforma in battaglia: gli isolani attaccano gli immigrati a sassate, gli immigrati rispondono, uomini si scagliano contro altri uomini. Poi la polizia carica gli immigrati, e ci sono immagini che mostrano l’accanimento vigliacco contro una folla con le spalle al muro che sfugge alle manganellate buttandosi da un’altezza di tre metri. Non tanto, forse. Ma quanto basta per farsi davvero male in una situazione di panico generalizzato.
Disgustosa, come sempre, la figura di Bernardino De Rubeis, sindaco di Lampedusa, che non ha perso occasione di spargere a piene mani i semi dell’odio parlando di una guerra in atto, e della capacità dei lampedusani di attrezzarsi in tal senso. E infatti, De Rubeis si è dovuto asserragliare nel suo ufficio, sorvegliato da agenti di polizia, perché all’esterno alcuni compaesani volevano prenderlo a sberle. Perché? Non perché sia un personaggio impresentabile; non perché sia stato indagato e arrestato per concussione; non perché fino a qualche mese fa aveva accolto in pompa magna Berlusconi reggendogli il gioco nelle sue sceneggiate propagandistiche. I lampedusani vogliono la pelle di De Rubeis perché, secondo loro, è stato troppo “morbido” nella gestione del problema-immigrazione. E così, De Rubeis ai giornali ha detto di sapersi difendere, con una mazza di baseball custodita in ufficio.
L’abbrutimento di Lampedusa è il frutto avvelenato della politica del governo italiano che continua a gestire l’immigrazione in maniera folle. Ora, al di là della scientifica criminalità delle leggi liberticide che reprimono i flussi migratori, a Lampedusa i problemi vengono ulteriormente esacerbati e ingigantiti dal pressappochismo, dalla trascuratezza, dalla volontà di rendere impossibili anche le cose semplici.
Nell’esasperazione collettiva di Lampedusa, la strada della solidarietà umana viene abbandonata in favore della scorciatoia razzista e rabbiosa. E non sappiamo quanto tutto questo possa essere davvero recuperato, stando così le cose.

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A Lampedusa il CIE non c’è più

da: senzafrontiere.noblogs.org

Martedì 20 marzo. Il fuoco covava sotto la cenere da lunghi giorni. I 1300 reclusi del centro di strada Imbriacola hanno bruciato la loro prigione e sono usciti.
Il fuoco, alimentato dal vento, ha presto distrutto completamente la struttura, mentre il fumo invadeva le strade del paese. Gli immigrati hanno trascorso la notte all’aperto, molti dentro il campo sportivo. Secondo alcuni quotidiani cento tunisini sarebbero già stati trasferiti in altri centri.
Il sindaco De Rubeis ha chiesto l’invio di navi della marina militare per l’immediato rimpatrio, minacciando il ricorso alla forza per cacciare quelli che non esita a definire “delinquenti”.
È la seconda volta in meno di tre anni che il CIE lampedusano viene distrutto dai prigionieri senza carte.
De Rubeis parla di guerra e non sa quanto ha ragione. Dall’inizio dell’anno decine di migliaia di persone sono approdate nell’isola, ben 1674 quelli che non ce l’hanno fatta: chi è morto annegato, chi soffocato nella stiva di un barcone troppo pieno, chi di sete su una carretta alla deriva.
Lampedusa è diventata una prigione a cielo aperto, con un muro di filo spinato a dividere migranti e profughi dagli isolani.
I traballanti accordi con la Tunisia non permettono al governo italiano di rispedire indietro più di trenta clandestini al giorno. I centri, specie dopo il prolungamento a un anno e mezzo della reclusione, stanno esplodendo.
La guerra dichiarata dal governo ai poveri si fa sempre più feroce. Ma la misura è ormai colma.
Da Nardò a Piacenza i lavoratori immigrati si ribellano alla schiavitù, da Roma a Torino, da Milano a Modena, da Gradisca a Brindisi i reclusi nei CIE e nei CARA spezzano le catene e fuggono.

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