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La solidarietà non va in quarantena

La solidarietà non va in quarantena

Nelle ultime settimane molte e molti di noi si stanno chiedendo come portare avanti l’attività politica, sindacale sociale nei contesti che viviamo. Ci siamo già trovati a prendere decisioni non facili, annullare o meno iniziative, manifestazioni, scioperi, presidi, assemblee e incontri pubblici, anche sotto la minaccia di un possibile divieto da parte delle autorità. Quello che sta succedendo può incidere significativamente sulla realtà che viviamo, di pari passo con gli effettivi rischi per la salute il processo emergenziale in corso attorno alla questione del coronavirus pone delle questioni molto importanti in termini politici.

Fino dalle prime notizie riguardo alla diffusione del virus in Cina i principali esponenti dei partiti che siedono in parlamento hanno iniziato a cavalcare l’emergenza, strumentalizzando la situazione. Non è una novità. È la cosiddetta “politica dell’emergenza”, il condensarsi del confronto politico attorno a questioni urgenti che dominano le testate dei giornali e danno vita agli hashtag più popolari, con sensazionalismo, con un linguaggio violento, proponendo soluzioni totali e impossibili. Il dibattito pubblico si muove di emergenza in emergenza, c’è quella del terremoto e quella della sicurezza, c’è l’emergenza freddo e quella dei rifiuti, c’è l’emergenza delle buche in strada e infine quella del coronavirus. A volte sono problemi reali a volte sono artefatti, ma non è importante, perché questi politici non vogliono certo risolvere davvero i problemi delle persone. Vogliono creare invece i temi scottanti su cui battere gli avversari e consolidare consensi. Ma attenzione, non è una questione di cialtroneria, incapacità, ignoranza, è una lotta per il potere.

Perché la comunicazione spesso è solo un terreno di scontro, e l’emergenza, specie quando non è solo raccontata ma è anche formalmente riconosciuta dalla legge, come nel caso di alluvioni, terremoti, disastri e emergenze sanitarie, crea delle grandi “opportunità”. Con commissariati straordinari, appalti, consulenze, finanziamenti, snellimento delle procedure, provvedimenti fiscali, bonus, ammortizzatori sociali, si creano posizioni di potere molto appetibili sul piano economico e politico. Ogni stato di emergenza impone una maggiore concentrazione del potere, e per questo si accompagna ad un’intensificazione della lotta per il potere e la sua spartizione.

Proprio nelle scorse settimane c’è stato un duro scontro tra il governo centrale e le regioni guidate dal centrodestra che avevano immediatamente applicato misure drastiche. Un braccio di ferro sul piano delle competenze e dei provvedimenti che ha toccato anche aspetti costituzionali. Conte è arrivato a dire il 24 febbraio di essere pronto a togliere i poteri alle regioni in materia di sanità, possibile in casi straordinari in base all’articolo 120 della costituzione. Mentre il giorno successivo le tensioni avevano quasi fatto saltare la “cabina di regia” tra governo e regioni. In questo contesto, mentre i giornali parlavano di un possibile governo di unità nazionale Salvini-Renzi, proprio Salvini il 27 febbraio è salito al Quirinale per incontrare Mattarella e richiedere l’intervento del Presidente della Repubblica. Già il giorno dopo Renzi smentiva questa possibilità. Evidentemente era stato trovato un qualche accordo politico per affrontare questa prima fase. Questo teatrino, a colpi di dichiarazioni roboanti, provvedimenti draconiani, appelli all’unità, più che essere dettato da necessità sanitarie sembra esser mosso principalmente da esigenze politiche.

Dalla settimana successiva, il 4 marzo, con l’aumento effettivo dei casi e la diffusione del contagio anche fuori dalle regioni del nord Italia viene emesso un primo di una serie di decreti della Presidenza del Consiglio dei Ministri che hanno nell’arco di pochi giorni inasprito fortemente le restrizioni, andando ovviamente anche a toccare la libertà di manifestazione e di riunione. Il DPCM 4 marzo 2020, prevede misure restrittive valide per tutto il territorio nazionale fino al 3 aprile e tra le altre cose sospende “le manifestazioni, gli eventi e gli spettacoli di qualsiasi natura, ivi inclusi quelli cinematografici e teatrali, svolti in ogni luogo, sia pubblico sia privato, che comportano affollamento di persone tale da non consentire il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro”

Questo provvedimento segue due comunicazioni della Commissione di Garanzia Sciopero che sospendono di fatto il diritto di sciopero per l’emergenza coronavirus. La prima comunicazione del 24 febbraio è un invito generale a sospendere gli scioperi dal 25 febbraio al 31 marzo che ha fatto saltare gli attesi scioperi della scuola del 6 marzo. La seconda del 28 febbraio invitava esplicitamente a sospendere gli scioperi generali convocati per il 9 marzo per le giornate globali di lotta femminista dell’8 e del 9 marzo. Si tratta di fatto di un divieto di sciopero specifico per la giornata del 9 marzo, che ha costretto gran parte dei sindacati a ritirare l’indizione, solo lo Slai Cobas ha mantenuto in piedi lo sciopero con rischio di pesanti sanzioni per l’organizzazione sindacale e gli scioperanti.

Nella notte tra il 7 e l’8 marzo viene emesso il DPCM 8 marzo 2020 con effetto immediato che dispone misure rigidissime. Con l’articolo 1 si estende la cosiddetta “Zona rossa” prevedendo anche il divieto di entrata e uscita e di spostamento – tranne che per emergenze e ovviamente per lavoro – all’interno del territorio dell’intera Regione Lombardia e di 14 provincie del Piemonte, dell’Emilia Romagna, del Veneto e delle Marche. Con l’articolo 2 si aumentano le misure restrittive sul territorio nazionale, vietando in modo totale le manifestazioni: “Sono sospese le manifestazioni, gli eventi e gli spettacoli di qualsiasi natura, ivi inclusi quelli cinematografici e teatrali, svolti in ogni luogo, sia pubblico sia privato.”

Tra il 9 e il 10 marzo infine è stato emesso un nuovo decreto, il DPCM 9 maro 2020, che ha esteso a tutto il territorio nazionale comprese le isole tutte le restrizioni, incluse le limitazioni agli spostamenti, ammessi solo per iderogabili e comprovati motivi di lavoro, per emergenza sanitaria e per necessità. Inoltre “su tutto il territorio nazionale è vietata ogni forma di assembramento di persone in luogo pubblico o aperto al pubblico”.

Se con il DPCM 4 marzo eravamo letteralmente a un metro dalla sospensione delle libertà di riunione e manifestazione, con il potere discrezionale di questori e prefetti di vietare ogni iniziativa, con il più recente DPCM 9 marzo siamo arrivati invece al divieto totale per ogni forma di assembramento fino al 3 aprile. Una formulazione così ambigua, che impiega “assembramento” anziché “manifestazione”, lascia ampio margine di interpretazione alle autorità incaricate dell’ordine pubblico. Inoltre dopo decenni di provvedimenti antisciopero siamo giunti alla definitiva sospensione del diritto di sciopero. Questi decreti hanno avuto subito un effetto devastante, già il primo del 4 marzo, a una manciata giorni dalle manifestazioni dell’8 marzo organizzate in moltissime città dai nodi locali di NonUnaDiMeno e da altre realtà femministe aveva creato estrema confusione. In molte città di fronte a una situazione già segnata dalla paura alimentata dai media attorno all’emergenza coronavirus e dai reali timori per i rischi sanitari, che rendevano più difficile la partecipazione alle iniziative, il provvedimento del governo ha portato le assemblee locali ad annullare molte manifestazioni e momenti di piazza. In molte località comunque anche se non è stato possibile mantenere i cortei sono stati organizzati momenti di piazza rimodulati, resistendo in qualche modo ai provvedimenti e alla paura.

Queste norme potrebbero cambiare già nelle prossime ore, essere ulteriormente inasprite, o essere affiancate da nuovi provvedimenti, la situazione è ancora abbastanza confusa, ad ogni modo in questo momento fino al 3 aprile sono vietate in modo arbitrario tutte le forme di manifestazione e riunione, con la giustificazione inappellabile della salute pubblica, e sono punibili tutti gli spostamenti considerati non necessari. Cosa succederà alle tante lotte territoriali, alle vertenze lavorative, alle proteste locali, alle mobilitazioni più radicali, se già queste misure hanno avuto un effetto così forte sulle manifestazioni dell’8 marzo, in una giornata di mobilitazione a livello internazionale che in questi anni ha saputo affermare una propria legittimità? Come è possibile in un simile contesto per chi deve continuare a lavorare, per chi è rinchiuso nelle carceri, per chi al di là del coronavirus deve ricorrere a cure mediche, per chi non ha casa o accesso a servizi igenici, per chi vive in alloggi malsani o precari, per tutti coloro che subiscono prepotenze e taglieggiamenti di speculatori e approfittatori, organizzarsi, far valere i propri diritti, ottenere condizioni decenti, creare forme di solidarietà? Siamo in una situazione in cui lo stato di emergenza conferisce al governo maggiore potere, in cui il Presidente della repubblica chiede “disciplina” e “responsabilità”, in cui le manifestazioni e le riunioni possono essere vietate in modo quasi arbitrario, in cui il diritto di sciopero è sospeso. È una situazione molto pericolosa.

Basta pensare all’approccio militare che è stato scelto per affrontare la situazione delle carceri, le rivolte scoppiate in 27 penitenziari in tutta Italia rendono evidente che una parte della popolazione di questo paese, quasi 61000 persone vivono costretti in condizioni di sovraffollamento e igieniche disastrose. Per questo chiedono in questa situazione una cosa sola, libertà, attraverso un indulto o un amnistia. Per ora lo Stato ha risposto con i reparti antisommossa, i famigerati GOM, e con l’esercito. Ci sono al momento 11 morti tra i carcerati tra Modena e Rieti, per cause ancora da accertare, ma su cui appare evidente la responsabilità dello Stato e dei suoi apparati. Fuori dalle carceri c’erano anche familiari dei detenuti e realtà solidali, queste semplici presenze per i decreti di emergenza del governo possono essere considerate illegali.

È bene notare che fin dalle prime settimane dell’emergenza si è iniziato a parlare di recessione, di crisi economica. In effetti molti settori produttivi in Italia e nel mondo sono colpiti dalle conseguenze dell’emergenza coronavirus, ed ora alcuni amministratori locali propongono un arresto temporaneo delle attività produttive. Ma sappiamo bene cosa significa il ritornello della recessione per milioni di lavoratrici e lavoratori sia precari che “garantiti”, sono già partiti dei licenziamenti, molti contratti a termine non saranno rinnovati, chi lavora a prestazione o in nero non percepisce stipendio, si richiedono sacrifici, si impongono le ferie, quando va bene c’è la cassa integrazione. Ma non è tutto, c’è chi già si sfrega le mani e vorrebbe cogliere l’occasione per intervenire più in profondità sui rapporti di lavoro, con “sperimentazioni” volte a restringere diritti e libertà di chi lavora. In un articolo di Repubblica del 24 febbraio, Mariano Corso responsabile dell’Osservatorio sullo Smart Working del Politecnico di Milano afferma: “oltre al coronavirus, bisogna anche debellare un virus che è la nostra incapacità di lavorare in maniera efficiente, superando il pensiero che solo la presenza in ufficio sia garanzia di risultato”. Se da una parte quindi sono sospesi scioperi e manifestazioni non sono certo sospesi i licenziamenti né si frenano le pretese dei manager. Anzi loro possono dire che “Milano non si ferma” mentre chiedono altri soldi pubblici e lasciano a casa qualche migliaio di precari.

Fu proprio con lo stesso ritornello della recessione che meno di dieci anni fa il Governo guidato da Monti decise uno dei più pesanti tagli degli ultimi decenni ai finanziamenti per la sanità pubblica, e in 10 anni sono stato sottratti al Servizio Sanitario Nazionale 37 miliardi di euro. C’è il concreto rischio che la crisi economica legata all’emergenza coronavirus porti a una nuova stagione di “sacrifici”.

Quando ci chiedono di essere responsabili di fare un passo indietro in nome della responsabilità collettiva ci prendono solo in giro. Chi è responsabile dello smantellamento della sanità pubblica che oltre a eliminare molte delle strutture incaricate della prevenzione, ha drasticamente ridotto i posti letto negli ospedali, e addirittura portato alla chiusura di distretti sanitari e presidi ospedalieri? Chi è responsabile della diffusione di malattie respiratorie causate dal grave inquinamento dell’aria, dalle produzioni nocive e da condizioni di vita e di lavoro malsane? Chi è responsabile del fatto che molte persone considerabili a rischio per il coronavirus sono ancora costrette a lavorare e non possono andare in pensione?

Sono le istituzioni, i partiti e gli industriali che hanno distrutto il nostro servizio sanitario, che hanno provocato l’aumento di malattie respiratorie croniche, che ci tengono nella disoccupazione o inchiodati al lavoro fino alla vecchiaia, sono loro che adesso ci chiedono di essere responsabili, di fare altri sacrifici e di non protestare.

Un altro aspetto di questa emergenza da considerare è la traccia che lascerà nella società. Improvvisamente un paese come l’Italia si è trovato immerso in un clima “di guerra”. Non solo e non tanto per la militarizzazione delle aree sottoposte a quarantena ma per la martellante comunicazione politica e mediatica che ha tenuto banco sin dai primi giorni e che ha polarizzato l’attenzione su tutto il territorio del paese. I bollettini quotidiani che alla sera presentavano il conto dei morti, dei contagiati e dei guariti della giornata sono diventati presto una routine, accompagnati dalle notizie sui provvedimenti del governo e dagli appelli alla disciplina, al rispetto delle raccomandazioni igieniche, alla responsabilità, dai numeri di telefono tramite i quali segnalare possibili casi. Se alcune implicazioni di questo periodo si vedranno solo più avanti, altre sono già evidenti. In questo contesto lo Stato sembra essere l’unico garante della salute pubblica, contro il contagio, contro la morte, contro il caos. Questa immagine viene ancora più enfatizzata da chi esalta il modello cinese, o rispolvera addirittura Hobbes per richiamare alla necessità se non di una dittatura quantomeno di uno Stato forte come unica soluzione. In realtà lo Stato ha presieduto allo smantellamento della struttura sanitaria pubblica e per sua natura si preoccupa più di soddisfare le richieste degli industriali e dei grandi proprietari che di tutelare la salute dei cittadini. Inoltre al di là della questione dell’effettiva efficacia dei provvedimenti restrittivi finalizzati a limitare il contagio, su cui non ho alcuna competenza per esprimermi, l’approccio autoritario condotto con provvedimenti drastici applicati ciecamente e acriticamente può risultare disastroso in caso di errori di valutazione. Al contempo il ritornello “state chiusi in casa che ci pensiamo noi” attiva un processo di deresponsabilizzazione e infantilizzazione nella società molto pericoloso. Il senso di impotenza e impossibilità di incidere di fronte all’emergenza fa trascurare l’importanza delle scelte e delle iniziative individuali e collettive dal basso. Questi provvedimenti possono contribuire a disgregare ulteriormente il tessuto sociale, demolendo ogni forma di autodifesa individuale e collettiva, facendo perdere ogni fiducia nella capacità di reazione a livello sociale. L’autoritarismo non può sostituire la solidarietà, la consapevolezza, la responsabilità individuale, il confronto collettivo che in queste situazioni possono rappresentare delle indispensabili forme di prevenzione. Basti pensare al fatto che possono essere considerate illegali anche le forme di autorganizzazione che in molte città stanno emergendo, quali forme di solidarietà per la consegna dei generi alimentari, per il sostegno a chi perde il lavoro o non riceve lo stipendio, o altre attività semplici ma importanti per la sopravvivenza.

La responsabilità che preme in questo momento non è quella di attendere, disciplinatamente, chiusi in sé stessi, che il governo risolva tutto, andando magari comunque a lavoro perché la recessione è dietro l’angolo. Ma è quella di tenere vive e rafforzare le reti di solidarietà in modo che possano essere strumenti per tutti gli sfruttati e gli oppressi in questo contesto, a livello sanitario, sociale e politico.

È bene quindi confrontarsi e riflettere sulla situazione, sia per saper affrontare collettivamente, consapevolmente e in modo solidale il rischio sanitario, sia per impedire che approfittando dell’emergenza venga veramente silenziata ogni forma di opposizione di piazza e ogni forma di attività sindacale. In una fase come questa è importante riaffermare la libertà di sciopero, di manifestazione e di riunione contro i provvedimenti repressivi del governo. Perché è importante, senza trascurare i rischi sanitari, mantenere gli spazi di libertà e agibilità politica, e rafforzare le reti di solidarietà e mutuo appoggio esistenti. Anche per evitare che quando tutto questo sarà finito non ci aspetti una realtà peggiore del virus stesso.

Dario Antonelli

https://umanitanova.org/?p=11724

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8 MARZO: LO STATO OPPRESSORE È UN MASCHIO STUPRATORE!

 

8 MARZO: LO STATO OPPRESSORE È UN MASCHIO STUPRATORE!

La lotta contro la violenza di genere ha visto scendere in piazza milioni di persone in tutto il mondo negli ultimi anni. Il movimento, nelle tante articolazioni che è riuscito ad avere, ha denunciato il carattere discriminatorio, suprematista e razzista della violenza di genere e il suo legame con le istituzioni statali, dall’apparato militare alla magistratura, allo stato nel suo complesso.
Oggi ci troviamo di fronte ad un movimento che mette in discussione le basi millenarie del patriarcato, della società divisa in classi, della gerarchia.

La Federazione Anarchica Livornese e il Collettivo Anarchico Libertario sostengono le giornate di lotta dell’8 e del 9 marzo, indette da NonUnaDiMeno, invitando a partecipare ad entrambi gli appuntamenti, per:

– lottare contro l’imposizione della famiglia come istituzione e contro tutti i provvedimenti governativi che continuano a promuovere e valorizzare la famiglia tradizionale
– denunciare il ruolo delle chiese che continuano a voler ingabbiare i corpi e imporre la propria morale
– lottare per l’autodeterminazione, per la piena libertà di scelta sulle proprie vite e sul proprio corpo, nella gestione della salute, in campo riproduttivo e di interruzione di gravidanza
– contrastare la narrazione tossica dei femminicidi da parte dei media che continuano a raccontare la violenza di genere come frutto di follia o troppo amore, giustificando di fatto i violenti e alimentando la cultura dello stupro
– lottare contro il gender gap salariale e tutte le forme di discriminazione e sfruttamento sui posti di lavoro.

Federazione Anarchica Livornese
cdcfedanarchicalivornese@virgilio.it
federazioneanarchica.org

Collettivo Anarchico Libertario
collettivoanarchico@hotmail.it
collettivoanarchico.noblogs.org

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29 febbraio: sosteniamo le/i condannate/i per il “Processo Prefettura”

Sabato 29 febbraio

all’Ex Caserma Occupata a Livorno

serata benefit in solidarietà con compagn* condannat* in appello per il “Processo della Prefettura”

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Inaugurazione! presentazione libro / aperitivo / dj set

 

INAUGURAZIONE!

giovedì 20 febbraio

dalle 17 Apertura Biblioteca

dalle 18:30 Presentazione del libro
“MORIRE NON SI PUO’ IN APRILE, L’assassinio di Teresa Galli e l’assalto fascista all’Avanti! Milano 15 aprile 1919”
con l’autore Marco Rossi

dalle 20:30 aperitivo con dj set

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Riapre la Biblioteca del Circolo culturale “Errico Malatesta”
(tutti i giovedì dalle 17 alle 19)

alla FAL in Via degli Asili 33 (zona Borgo Cappuccini)

consultazione libri, opuscoli e periodici della biblioteca
oltre 3000 volumi su anarchismo, movimento operaio, lotte sociali
spazio per studiare con testi propri
spazio per confrontarsi e prendere un caffè

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PRESIDIO – Da Genova a Livorno: Chiudiamo i porti alla guerra!

Da Genova a Livorno: Chiudiamo i porti alla guerra!

Lunedì 17 febbraio
h 17.30
Piazza Grande

PRESIDIO
Contro i traffici di armi nei porti

A Genova è in corso da quasi un anno una mobilitazione contro la guerra che mira a fermare il trasporto di armi nel porto. Nel maggio e giugno scorso i lavoratori portuali e altre realtà genovesi sono riusciti a bloccare per due volte il carico di materiale militare sulle navi della compagnia saudita BAHRI destinato alla guerra in Yemen. Da allora la BAHRI non ha più imbarcato armi a Genova.

Ma il 17 febbraio è previsto l’arrivo di una nuova nave della compagnia saudita a Genova. Inizialmente fissata al 12, la data dell’arrivo è slittata più volte, anche a causa delle proteste in corso ovunque in Europa che hanno già fatto saltare gli scali di Anversa in Belgio e Tilbury in Inghilterra. Il Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali di Genova ha lanciato un appello di solidarietà a livello internazionale, chiedendo che in contemporanea con l’arrivo della nave vi siano iniziative e azioni a sostegno dei portuali e degli antimilitaristi che a Genova si opporranno a questi traffici di armi.

Solidarizzare con la lotta in corso a Genova è importante, soprattutto qui a Livorno. Nel nostro porto infatti, già fanno scalo ogni mese le navi della Liberty Global Logistics, compagnia che per conto del Dipartimento della Difesa USA trasporta mezzi da combattimento o comunque militari da Camp Darby verso il Medio Oriente. L’ampliamento della base USA di Camp Darby ha proprio lo scopo di aumentare il traffico di materiale bellico. Nel nostro territorio sono presenti inoltre produzioni di droni (IDS) e di siluri (Leonardo), è presente il COMFOSE e il comando dei paracadutisti della Folgore, impiegati nelle missioni di guerra italiane.

La guerra passa anche dai luoghi in cui viviamo e lavoriamo. Non vogliamo essere complici. Possiamo metterci in mezzo e fermarla. Noi siamo al fianco dei lavoratori, degli sfruttati e degli oppressi di tutto il mondo, contro le guerre dei governi e dei capitalisti.
Abbiamo un modo concreto di dire NO alla guerra!

Fermiamo il traffico di armi nei porti!
Non un soldo, non un’ora di lavoro per la guerra!
Siamo al fianco dei portuali genovesi!

Federazione Anarchica Livornese
Collettivo Anarchico Libertario

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Riapre la Biblioteca del circolo culturale “Errico Malatesta”

 

Riapre la Biblioteca del circolo culturale “Errico Malatesta”

Ogni giovedì dalle 17 alle 19
alla FAL in Via degli Asili 33 (zona Borgo Cappuccini)

consultazione libri, opuscoli e periodici della biblioteca
oltre 3000 volumi su anarchismo, movimento operaio, lotte sociali
spazio per studiare con testi propri
spazio per confrontarsi e prendere un caffè

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Chiudiamo i porti alla guerra!

Chiudiamo i porti alla guerra!

Sabato 8 febbraio 2020
ore 17
Alla FAL in Via degli Asili 33, Livorno

Presentazione dell’opuscolo
Nessun approdo alla guerra
Sulla lotta in corso a Genova contro la compagnia saudita BAHRI e i traffici di armi al porto
con antimilitariste e antimilitaristi genovesi

A Genova è in corso da quasi un anno una mobilitazione contro la guerra che mira a fermare il trasporto di armi nel porto. Nel maggio e giugno scorso i lavoratori portuali e altre realtà genovesi sono riusciti a bloccare per due volte il carico di materiale militare sulle navi della compagnia saudita BAHRI destinato alla guerra in Yemen. Da allora la BAHRI non ha più imbarcato armi a Genova.

Ma per il 12 febbraio è previsto l’arrivo di una nuova nave della compagnia saudita. Il Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali ha lanciato un appello di solidarietà a livello internazionale, chiedendo che il 12 febbraio vi siano iniziative e azioni a sostegno dei portuali e degli antimilitaristi che si opporranno a questi traffici di armi.

Parlare della lotta in corso a Genova è importante, soprattutto qui a Livorno. Nel nostro porto infatti, già fanno scalo ogni mese le navi della Liberty Global Logistics, compagnia che per conto del Dipartimento della Difesa USA trasporta mezzi da combattimento o comunque militari da Camp Darby verso il Medio Oriente. L’ampliamento della base USA di Camp Darby ha proprio lo scopo di aumentare il traffico di materiale bellico. Nel nostro territorio sono presenti inoltre produzioni di droni (IDS) e di siluri (Leonardo), è presente il COMFOSE e il comando dei paracadutisti della Folgore, impiegati nelle missioni di guerra italiane.

La guerra passa anche dai luoghi in cui viviamo e lavoriamo. Non vogliamo essere complici. Possiamo metterci in mezzo e fermarla. Noi siamo al fianco dei lavoratori, degli sfruttati e degli oppressi di tutto il mondo, contro le guerre dei governi e dei capitalisti.

Fermiamo il traffico di armi nei porti!
Non un soldo, non un’ora di lavoro per la guerra!
Il 12 febbraio al fianco dei portuali genovesi!

Federazione Anarchica Livornese
Collettivo Anarchico Libertario

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Terza guerra mondiale?

TERZA GUERRA MONDIALE?

Scoppierà la terza guerra mondiale? Gli Stati Uniti attaccheranno l’Iran? La Turchia prenderà la Libia? Sono queste le domande che i governi e i media ufficiali ci spingono a porci, alimentando la paura per giustificare quelli che poi chiamano “interventi di pace”. Gli stessi governi che hanno preparato la guerra ci dicono di voler trovare soluzioni al conflitto.

Ma la guerra è già in corso. L’Italia invia circa 7000 militari in missioni all’estero in vari paesi. Tra questi Libano e Afghanistan, ma anche Libia e Iraq, due paesi oggi al centro della tensione internazionale.

Lo stato italiano è responsabile della distruzione materiale e sociale di questi paesi attraverso vere e proprie operazioni di guerra. Con i bombardamenti, ma anche con l’invio di militari a supporto delle autorità locali. Le stesse che reprimono nel sangue ogni movimento di protesta. Questi interventi garantiscono gli affari di imprese italiane e multinazionali come l’ENI che saccheggiano questi territori.

Ma di fronte all’ennesima riprova che il modello statale e capitalista genera solo povertà, miseria e conflitti, in molte parti del mondo c’è chi alza la testa.
In molti paesi si stanno affermando movimenti dirompenti che mettono al centro questioni sociali. È successo in India, Bolivia, Cile, Ecuador, Hong Kong, Sudan, ma anche in Francia, dove lo sciopero generale contro la riforma delle pensioni che va avanti da mesi. In Libano, in Iraq ed in Iran, dove si sono sviluppati movimenti di rivolta sociale, con scioperi, occupazioni di piazze e mobilitazioni non si limitano alle sole capitali. Questi movimenti pongono rivendicazioni a partire da questioni sociali come il reddito e la disoccupazione, vogliono la fine dei regimi autoritari e corrotti. In particolare in Libano e in Iraq contestano la pesante influenza delle potenze mondiali e regionali nel paese. Soltanto in Iraq la repressione ha portato ad oltre 670 morti, oltre 25000 feriti, migliaia di arresti. L’Italia è complice di questi governi, e collabora alla repressione, come in Iraq dove i Carabinieri addestrano la polizia.

Gli USA mantengono un rapporto coloniale con il governo italiano, anche attraverso la NATO, influenzando la politica italiana sia nelle scelte militari, che in campo economico e sociale. Ma lo stato italiano e la sua classe dirigente hanno anche una propria tradizione colonialista ed imperialista, e hanno una specifica responsabilità nelle politiche di guerra. In questo contesto è più che mai evidente l’imperialismo di Russia e Cina e il ruolo egemonico di potenze come Iran e Turchia.

È così che nascono le guerre, da politiche trasversali a tutti i governi, con spese militari che in Italia superano i 25 miliardi di euro l’anno, con l’industria e il commercio di armamenti, con l’aumento del numero e delle dimensioni delle basi militari e dei poligoni, con la militarizzazione dei territori e della società.
Per mantenere i privilegi della classe dirigente e i profitti dei capitalisti i governi conducono una politica aggressiva colonialista e di guerra verso l’esterno. Contemporaneamente fanno la guerra entro i propri confini con tagli ai servizi, attacco al reddito e ai salari, politiche razziste di separazione per dividere gli sfruttati, repressione del dissenso e dell’opposizione sociale, anche attraverso la politica della paura, schierando ad esempio l’esercito nelle strade.

La guerra serve allo stato e al capitale per alimentarsi e per difendersi contro la forza di emancipazione e liberazione degli oppressi e degli sfruttati. Contro la guerra solidarietà internazionalista

CONTRO LA GUERRA!

Ritiro immediato di tutte le missioni militari internazionali! Via le truppe italiane dalla Libia, dall’Iraq, dal Libano e dall’Afghanistan! Disertiamo le guerre!

Basta produzioni militari, nocive e di morte, basta con il commercio degli armamenti, funzionali solo alla guerra! Chiudiamo e riconvertiamo la produzione militare, blocchiamo i canali del commercio delle armi!

Contro tutti gli eserciti e gli apparati che campano sulla guerra! Chiudiamo le basi militari! Via i militari dalle strade, contro la militarizzazione della società!

Contro le guerre, lo sfruttamento e la devastazione ecologica che costringono alla fuga milioni di persone! Chiudiamo i CPR e tutti i nuovi lager, libertà di movimento per tutti!

Basta spese militari! Spendono oltre 25 miliardi, 68 milioni al giorno per fare le guerre, e poi ci dicono che non ci sono soldi per scuola, pensioni, sanità. Basta con la rapina dei servizi sociali, dei salari, del reddito! Prendiamoci migliori condizioni di vita!

Solidarietà internazionalista! Sosteniamo chi sciopera, chi occupa le piazze, chi manifesta e lotta ovunque nel mondo contro lo sfruttamento e l’oppressione, contro le politiche di terrore e di morte portate avanti dai governi e dagli stati!

Collettivo Anarchico Libertario
collettivoanarchico@hotmail.it
collettivoanarchico.noblogs.org

Federazione Anarchica Livornese – F.A.I.
cdcfedanarchicalivornese@virgilio.it
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30/01/20

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Confermate in appello le condanne per il “Processo della prefettura”

30 ANNI DI CONDANNE PER 21 COMPAGN*

Venerdì 10 gennaio si è tenuta l’ultima udienza del processo d’appello riguardante i fatti accaduti nel 2012 durante le proteste iniziate con la visita di Pierluigi Bersani alla stazione marittima di Livorno.
Già dal primo giorno, 30/11/2012, era palpabile il clima di tensione voluto dalle forze dell’ordine e dal Partito Democratico nei confronti di una protesta legittima nei suoi contenuti e nelle forme.
Il servizio d’ordine del PD pretendeva di perquisire i manifestanti, mentre polizia e carabinieri hanno più volte caricato il presidio davanti alla stazione marittima.
Il giorno dopo, in risposta all’ingiustificata repressione messa in campo alla stazione marittima, fu indetto un presidio in piazza Cavour per spiegare alla cittadinanza la gravità di quanto accaduto.
Concluso il presidio giunsero diverse camionette della celere e di nuovo, senza alcuna motivazione, i presenti vennero caricati nel mezzo all’incredulità e allo sconcerto dei tanti passanti presenti in città per lo shopping natalizio. Ci furono anche in questa occasione diversi feriti e fu a quel punto chiaro a tutta la città che veniva messa in discussione la libertà di manifestare e il diritto al dissenso.

La notizia venne ripresa da tutti i giornali e la città decise di scendere spontaneamente in piazza anche la domenica per mostrare la sua solidarietà e il rifiuto a certe pratiche di violenta repressione. Dietro a uno striscione dal titolo “Livorno non si piega” si svolse un corteo di qualche migliaio di persone da Piazza Cavour fino alla Questura. Il corteo giunto di fronte alla Questura trovò schierati numerosi agenti della Digos e funzionari in borghese, insieme alla provocatoria presenza di camionette e squadre di polizia in tenuta antisommossa. Il corteo proseguendo il suo percorso incontrò nuovamente uno schieramento di polizia davanti al cancello della Prefettura lasciato inspiegabilmente aperto, nonostante la giornata domenicale, con la polizia schierata. A quel punto, nonostante gli inviti alla calma dal megafono, la tensione salì e la polizia si rinchiuse all’interno del palazzo. Il corteo dopo pochi minuti proseguì, e giunse nuovamente in piazza Cavour.

A seguito di questi fatti, furono portati a processo 21 militanti politici della nostra città, condannati poi in primo grado a oltre 30 anni di reclusione, accogliendo in pieno le richieste del pubblico ministero. Il processo di appello recentemente conclusosi ha confermato le 21 condanne emesse in primo grado.

E’ chiara la volontà di repressione nei confronti di quell’area politica che da 20 anni porta avanti le lotte sociali sul diritto all’abitare e sul lavoro, percorsi ecologisti e per l’ambiente, percorsi rivendicativi sul welfare. A dimostrazione di ciò, in entrambi i gradi di giudizio è stata confermata perfino una condanna per un imputato per il quale anche il pubblico ministero aveva chiesto l’assoluzione. In appello le pene si sono leggermente abbassate, solo a causa della prescrizione di alcuni reati minori ma in sostanza nulla è cambiato. Circa 30 anni di reclusione e quasi 50mila euro da pagare, tra parte civile e spese processuali.
Aspettando le motivazioni della sentenza, che dovrebbero arrivare ad aprile, lanciamo di nuovo una campagna di solidarietà ai 21 condannati. Non lasciamoli soli!
Sono in programmazione vari appuntamenti, sia informativi che benefit per sostenere le ingenti spese, anche nell’eventualità di un ricorso in cassazione.

Per chi volesse saperne di più sulla 3 giorni di proteste, qui sotto il link per il dossier a riguardo.

http://archivio.senzasoste.it/…/livorno-non-si-piega-dossie…

Per chi volesse contribuire a sostenere le spese processuali qui sotto l’IBAN per fare la donazione:
Fantelli Luca IT10S03268223000EM001061933

LIVORNO NON SI PIEGA

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NUDM Livorno: Presidio al tribunale contro l’utilizzo della PAS

segnaliamo questa iniziativa organizzata da NonUnaDiMeno Livorno

Settimana 20-25 gennaio: campagna di mobilitazione con presidi davanti ai tribunali promossa da NonUnadimeno contro l’utilizzo della PAS

Anche a Livorno, come in molte città della Toscana, nella settimana tra il 20 e il 25 gennaio NonUnaDiMeno organizza presidi davanti ai tribunali per denunciare la violenza dei tribunali.E’ noto come in tribunale le vite delle donne che subiscono violenza vengono spesso inquisite, umiliate, messe a nudo. I violenti invece vengono giustificati con mille pretesti.
Ma nel mese di gennaio questa campagna promossa da NUDM vuole mettere in evidenza un’altra forma di violenza nei confronti delle donne e dei bambini che ha iniziato ad essere utilizzata in alcuni tribunali tramite l’utilizzo della PAS- sindrome da alienazione parentale.
In alcuni tribunali si applicano norme violente, che di fatto consentono di attuare, tramite la legge 54 del 2006, quel vergognoso DDL Pillon che le proteste delle donne hanno costretto ad accantonare. Nelle cause di divorzio è sempre più frequente l’utilizzo della Pas (sindrome da alienazione parentale) per giustificare l’allontanamento dei figli dalle madri, anche e soprattutto nei casi di denuncia per violenza, ritenendo che le donne possano trasmettere ai figli il loro risentimento verso il partner. Un odioso paradosso violento verso i minori, che vengono patologizzati, affidati ai servizi sociali per la riabilitazione e obbligati alla relazione forzata con il genitore; violento verso le donne, ritenute inadeguate a garantire la serenità dei figli, anch’esse patologizzate, private della potestà genitoriale e dell’affido dei figli, spinte da questo ricatto, spesso, a ritirare denunce di maltrattamenti e procedimenti di separazione.
Per protestare contro questa grave forma di abuso NonUnaDiMeno Livorno organizza un presidio davanti al tribunale – via de Lardarel- alle ore 12 di mercoledì 22 gennaio.
La stampa e gli organi di comunicazione sono invitati ad essere presenti
NonUnaDiMeno- Livorno

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