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Incontro in vista del Primo Maggio: Le trappole del lavoro a distanza

  1. Le trappole del lavoro a distanza

I datori di lavoro hanno approfittato della pandemia per procedere a una vera e propria sperimentazione su larga scala di quello loro che chiamano “lavoro agile”, una modalità che elimina qualsiasi barriera tra il tempo di lavoro e il tempo di vita, inseguendo i lavoratori e le lavoratrici fin dentro casa e scaricando su di essi anche una parte dei costi fissi che normalmente sono a carico delle imprese. In questo processo, le donne sono le più colpite: su di esse si scarica oltre al lavoro a distanza, quel lavoro di cura che il servizio pubblico non può più assicurare.

Sicuramente il lavoro agile rappresenta un affare per le aziende che vendono prodotti da utilizzare per lavorare a distanza che guadagnano sia dalle licenze d’uso vendute che dalla raccolta dei dati di chi usa le loro piattaforme. A questi aspetti bisogna aggiungere che gli strumenti informatici facilitano al massimo il controllo dei lavoratori, sia direttamente sia, come per esempio avviene per la didattica a distanza, indirettamente, tramite il cosiddetto animatore digitale. Questa modalità di lavoro probabilmente è anche in conflitto con l’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori che proibisce la videosorveglianza. Un altro aspetto da prendere in considerazione è quello della salute e il rischio di nuovi tipi di malattie professionali derivanti dall’uso di tali strumenti.

Questi sono solo alcuni degli aspetti del “lavoro agile” che vanno attentamente valutati e che richiedono una analisi e di una risposta di classe.

In occasione del Primo Maggio, la Federazione Anarchica Livornese organizza un incontro di approfondimento su questi temi, a cui parteciperà Peppe Noschese, che si occupa da tempo dei temi legati alle nuove tecnologie. L’incontro si terrà giovedì 30 aprile alle 21,15.

Chi fosse interessato a partecipare, può contattare la Federazione via posta elettronica (cdcfedanarchicalivornese@virgilio.it); riceverà le indicazioni per partecipare all’incontro.

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25 aprile a Livorno: anarchici alla lapide di Filippetti

 

25 Aprile: resistere e lottare

Nel tardo pomeriggio di oggi abbiamo reso omaggio alla lapide dedicata a Filippo Filippetti, giovane anarchico livornese ucciso il 2 agosto del 1922 dai fascisti che giunti in forze da tutta la regione assaltarono in quei giorni la città.

Abbiamo portato un mazzo di fiori e appeso uno striscione che riportava “La repressione non ci può fermare, dopo il virus estirpa il capitale – 25 aprile – resistenza!”.

Ogni estate come Federazione Anarchica Livornese e Collettivo Anarchico Libertario ricordiamo proprio davanti a quella lapide in Via Provinciale Pisana Filippo Filippetti, caduto mentre insieme ad altri giovani antifascisti aveva attaccato con le armi i camion dei fascisti a Pontarcione. Con lui ricordiamo anche le altre vittime di quei giorni, popolani, militanti comunisti, anarchici, repubblicani e socialisti, tra i quali Luigi Gemignani, Gilberto Catarsi, Pietro Gigli, Pilade Gigli, Oreste Romanacci, Bruno Giacomini e Genoveffa Pierozzi.

Siamo tornati, ovviamente facendo attenzione alle prescrizioni sanitarie, di fronte a questa lapide in questo 25 aprile segnato da divieti delle manifestazioni e repressione per affermare collettivamente l’urgenza della lotta per la libertà di tutte e tutti.

 

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Resistere e lottare – La liberazione sociale è ancora da fare

Resistere e lottare
La liberazione sociale è ancora da fare

Il 25 aprile arriva oggi in un contesto eccezionale. Il movimento anarchico a Livorno come nel resto dell’Italia e in molti paesi del mondo ha contribuito attivamente alla lotta partigiana per la libertà, contro il nazismo e il fascismo. Abbiamo sempre pensato che il valore della lotta antifascista, inscindibile da quella per la liberazione sociale, non potesse essere contenuto nel solo 25 aprile, data dell’insurrezione popolare vittoriosa del 1945, ma che avesse una portata più ampia. In alcune occasioni nel corso dei decenni abbiamo criticato le celebrazioni ufficiali del 25 aprile in città, alzando la nostra voce contro la guerra, contro le spese militari, contro i nuovi lager per stranieri senza documenti, quelli che oggi si chiamano CPR.

Oggi mentre viviamo una gravissima emergenza sanitaria, vediamo imposte forti restrizioni alla libertà di espressione, con il divieto di riunione, manifestazione e sciopero. Proprio in questo contesto, in cui destra, governo e padroni contano sulla paura e sull’incapacità di reagire della gran parte della società e della classe lavoratrice ridotte alla miseria, è importante in occasione del 25 aprile riaffermare la lotta per la libertà nella sua dimensione collettiva.

Respingiamo la retorica nazionalista. Non bastava la pandemia e il rischio concreto per la salute. Non bastava il precipitare verso un impoverimento generalizzato in un clima di controllo sociale estremo. Ci si doveva mettere anche la retorica del tricolore. Da sempre simbolo di nazionalismo patriottardo, utilizzato con enfasi brutale da fascisti e apparati militari, ma anche dalla sinistra accecata dall’idolatria dello stato e delle istituzioni, adesso il tricolore è diventato un incubo, inesorabilmente presente in uno scenario a reti unificate.

All’ombra della bandiera e dell’inno nazionale si consuma la retorica stucchevole del “siamo tutti sulla stessa barca”, imponendo, dalla nave ammiraglia, malattia, povertà e solitudine. È la politica dell’unità nazionale: azzerare qualsiasi critica, qualsiasi opposizione sociale; Opprimere imponendo di sostenere incondizionatamente la politica del governo e le misure eccezionali, pena essere dichiarato nemico della patria nonché untore.

Fin da subito, dall’inizio dell’emergenza sanitaria, c’è stato l’invito ad esporre il tricolore dai balconi, divenuti misera agorà di questo tetro periodo, senza che peraltro le esposizioni private avessero il successo sperato. Il tricolore Illumina facciate di palazzi istituzionali, sedi di giornali, diviene logo consueto di ogni pubblicità commerciale e avvolge anche questo 25 aprile. Un 25 aprile che è sempre stato abbondantemente saccheggiato, ma che quest’anno rischia di essere ancora più snaturato.

L’occasione è ghiotta. Una ricorrenza di questo genere, che ha sempre creato fastidi e pruriti, cade in piena Fase Uno di pandemia e può essere “sanificata” grazie, appunto, all’unità nazionale. I nostalgici del regime fascista, in parlamento e fuori, hanno cercato maldestramente di trasformare la festa della Liberazione dal nazifascismo in giorno di lutto per i morti del coronavirus, nella celebrazione della ricostruzione del ponte sul Polcevera, nella protesta tricolorata dei nuovi “forconi”. Ma il fascismo oggi è anche quello che impone con metodi autoritari la pace sociale per garantire i profitti del grande capitale. Gli esperti di comunicazione hanno già trovato il modo di passare dal termine Resistenza a quello di Resilienza. L’operazione è altamente suggestiva, basta cambiare due lettere al centro e un’insurrezione popolare si trasforma in quella parola di moda che indica la capacità di adeguarsi al “miglior” ribasso sul mercato del lavoro, uno dei tanti incitamenti pubblicitari alla capacità di risollevarsi così come la nazione vuole che obbedientemente ci si risollevi, pronti alla fase due. Perchè Italia (e Confindustria) chiamò.

Peccato che non funzioni così. Perchè c’è molta gente che sulla stessa barca col governo non c’è e non ci vuole stare, c’è chi reagisce all’isolamento sociale con le pratiche di solidarietà, c’è chi non obbedisce ma, collettivamente e in assoluta controtendenza, mette in atto tutte le forme possibili di opposizione sociale, c’è chi organizza e pratica azioni di sciopero, c’è chi porta avanti la controinformazione puntuale contro le menzogne del governo.

C’è chi è convinto, oggi come sempre, della necessità storica dell’insurrezione popolare. Per liberarci dalla dittatura, dall’oppressione e dallo sfruttamento. Per affermare la libertà.

Buon 25 aprile

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Lavoro: pandemia e sfruttamento

Lavoro: pandemia e sfruttamento

Lavoro e lavoratori alla ribalta, come eroi, come angeli custodi, come martiri. Multinazionali e imprenditori vecchi e nuovi che ringraziano i loro generosi dipendenti sulle pagine dei giornaloni per far vedere che il capitale riconosce il valore (=utilità) del loro lavoro, sfoggia il suo lato umano pubblicamente nell’inflazione stucchevole delle parole “comunità” e “solidarietà”.

Ma di quale comunità parlano, di quale solidarietà?
Le conseguenze delle politiche governative predatorie delle finanze e della salute pubblica, impoverita a vantaggio di quella privata, si sono rivelate in tutta la loro drammaticità. Mancanza di medici, di strutture, di letti, di personale qualificato e attrezzato, di strumentazione, di DPI. Turni massacranti e divieto di sciopero fino al 30 aprile.

Di altre lavoratrici e lavoratori altrettanto essenziali si è parlato molto meno, eppure sono stati obbligati a lavorare come sempre, a volte con protezioni fai da te , alle casse dei supermercati, agli sportelli degli uffici postali e bancari, alla guida dei mezzi pubblici, addetti alla logistica…

In altri settori i lavoratori hanno scioperato per il mancato rispetto delle distanze di sicurezza, per la mancanza dei DPI, per chiedere la chiusura temporanea delle attività, meno essenziali: il 16 marzo alla Ferrari di Maranello, il 12 alla GKN di Campi Bisenzio, i corrieri di Amazon a Calenzano, in Piemonte, Lazio e Lombardia, il 12 alla Piaggio di Pontedera. Per menzionare alcune realtà sindacalizzate, ma come si sta vivendo in realtà di dimensioni più ridotte, dove il ricatto occupazionale è diretto?

I lavoratori fino a ieri invisibili e con paghe orarie irrisorie (servizi di pulizie industriali, soci di false cooperative che riempiono gli scaffali della grande distribuzione) sono divenuti strategici oltre al lavoro ordinario per le sanificazioni. Tuttavia non si sono stabiliti aumenti salariali e maggiore sicurezza: il DL 17/3/2020 prevede anche per loro come per tutti i lavoratori coatti una erogazione una tantum di Euro 100,00 per il mese di marzo pro quota per i giorni di effettivo lavoro.

Nelle banche, assicurazioni, amministrazioni aziendali, pubblica amministrazione l’obbligo di diradare la presenza negli uffici ha fatto da trampolino di lancio per lo smart working (evoluzione del telelavoro). Tempi di lavoro autogestiti sembrano in teoria un vantaggio per chi lavora, e così vengono “venduti” finché non se ne fa esperienza diretta. Cade la separazione tra tempo di vita e tempo di lavoro, viene meno la socializzazione, l’uscita dalla dimensione casalinga che di fatto finisce per non cessare mai, in un perenne multitasking. Aumento di produttività certificato per le aziende, le donne ancora una volta le maggiori svantaggiate: sopperire in contemporanea a lavoro e ad assistenza familiare.

Il lavoro in remoto è stato sperimentato per la prima volta anche nella scuola perché la didattica potesse in qualche misura proseguire nonostante la chiusura, mantenendo una continuità di rapporti con gli studenti. Un esperimento molto pericoloso, un cavallo di Troia per il già precarizzato mondo dell’insegnamento. Potrebbe essere usato come precedente per non spendere nell’edilizia scolastica, ridurre il numero dei docenti, nella formazione di classi molto più numerose delle attuali, con un peggioramento della qualità per tutti.
Il lavoro a distanza comporta inoltre dei gravi rischi: un maggior controllo sui dati personali da parte dei grandi gruppi che gestiscono la rete, la sorveglianza da remoto da parte del datore di lavoro, aggirando quello che stabilisce l’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori, una rottura dei tempi per l’uso del videoterminale, con una grande minaccia per la salute dei lavoratori.

E poi c’è il lavoro nero dall’agricoltura ai servizi alla persona, quello che sfugge ad ogni censimento…

Non eroi o angeli, non un “grazie” a pagina intera sui quotidiani, ma dignità e diritti sono le parole del lavoro ed esigono fatti: stipendi adeguati, sicurezza sul lavoro, diritto alla casa, all’istruzione, alla salute, al rispetto dell’ambiente, al tempo liberato..

All’emergenza sanitaria seguirà una crisi economica di portata mondiale. È già iniziata e ne vedremo gli sviluppi: piccoli imprenditori, piccole e medie attività già in difficoltà, addetti nei settori del turismo, della ristorazione, del tempo libero, lavoratori interinali, in contratto di somministrazione, in nero, saranno i primi a ritrovarsi in difficoltà. E seguiremo tutti, nessun settore escluso.

Ci saranno allora altre parole, verremo chiamati ancora alla solidarietà con le Confindustrie e le Associazioni bancarie, al senso di responsabilità per le difficoltà economiche del Paese; saremo ricattati con il debito pubblico e chiamati a sacrifici perché nulla cambi. Il capitalismo finanziario, ora mascherato in veste “green, etico e sostenibile” vorrà continuare a ingrassare pochissimi, e causare povertà, inquinamento, guerre e malattie per tutti.

Organizziamoci per impedire che questo accada. Da ora.

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Casa dolce casa?

Casa dolce casa?

 
Restare a casa: da quando sono scattate le restrizioni dovute all’emergenza sanitaria, la parola d’ordine è stata questa. Il Governo è stato solo capace di intimare comportamenti individuali, quasi che, invece che una norma di prudenza, stare a casa fosse la cura, quella che non si trova, come non si trova il posto letto, il respiratore, la banale mascherina, addirittura il flacone di amuchina.
 
Per il resto, il Governo si è mostrato solo incapace di gestire una situazione determinata da anni di tagli alla sanità pubblica, colpevole di non aver riconosciuto tempestivamente le necessità e i provvedimenti da adottare, divorato dalla smania di mantenere il ritmo produttivo per non scontentare imprenditori e confindustria.
 
Per imporre le restrizioni pazzesche che sono state adottate, quelle con cui tutt+ dobbiamo fare i conti, è stata creata fin da subito la comunicazione retorica della casa come luogo sicuro. I più squallidi guru televisivi hanno fatto a gara fin dai primi giorni ad esaltare la bellezza dello stare a casa e le gioie della famiglia. Casa e famiglia come luogo sicuro e protetto.
Ma è proprio così?
 
In Italia ci sono oltre 50000 persone che non hanno casa, 360000 persone vivono senza servizi igienici di base nelle proprie abitazioni, mentre il disagio abitativo nelle città italiane è all’11,3% (dati del 2015). Anche a Livorno, l’emergenza abitativa è una questione centrale, a fronte di persone prive di casa, sfrattate, collocate in sistemazioni precarie o costrette a risolvere il problema con le occupazioni.
 
Con che coraggio si intima di stare a casa a chi la casa non ce l’ha? E non ha nemmeno il comodo divano dove leggere un buon libro, il soffice tappeto dove accoccolarsi con i figli, la cucina attrezzatissima dove dilettarsi da chef? Sono questi i buoni consigli che vengono propinati, anche a tutti coloro che lo sfruttamento ha precipitato nella povertà e nel disagio.
Stare a casa, stare in famiglia, al sicuro.
 
Ma la casa e la famiglia non sono un luogo sicuro; è proprio tra le mura domestiche che si consuma l’80% delle violenze sulle donne. Perchè il violento, lo stupratore, l’assassino ha le chiavi di casa e la maggior parte delle violenze avviene proprio in contesto domestico per mano di qualcuno di famiglia. Con che coraggio si intima di stare a casa a tutte quelle donne e a quei minori che si trovano murate vive in casa insieme ai loro aguzzini? Tra il 9 e il 31 marzo ci sono stati 8 femminicidi compiuti in casa.
Ed anche in situazioni meno drammatiche la retorica della casa diventa grottesca per coloro che (soprattutto le donne) nello spazio domestico sono sottoposte ad uno sfruttamento ancora maggiore del solito, costrette al telelavoro, oltre al carico di bambini e anziani in un periodo in cui le scuole sono chiuse e i servizi sono ancora più ridotti di sempre. Oppure le badanti, costrette a non abbandonare mai il posto di lavoro, che per loro è, appunto, la casa.
 
Gli avvisi ufficiali che passano costantemente su ogni canale di comunicazione invitano a restare a casa e spesso non danno altre indicazioni di carattere igienico o sanitario. Ma la casa non può certo garantire alcuna miracolosa immunità dal virus, anzi essa può diventare, specie nelle ultime settimane di isolamento, uno dei principali luoghi di contagio, insieme ad ospedali e RSA. Anche perché le ASL cercano di evitare il più possibile i ricoveri ospedalieri, e gran parte dei malati positivi al covid-19 spesso restano nelle abitazioni a meno che non necessitino di un ricovero in terapia intensiva. Senza un servizio sanitario effettivamente diffuso sul territorio in grado di provvedere alla vigilanza dei singoli casi, e senza una cultura della salute anche le case rischiano di essere pericolosi luoghi di contagio.
 
Infine c’è la disastrosa situazione delle carceri, dove 63000 persone vivono già in terribili condizioni igieniche e di sovraffollamento aggravate dalla pandemia che si sta diffondendo negli istituti penitenziari. Queste condizioni hanno portato tra il 9 e il 12 marzo a rivolte nelle carceri. Le parole scritte sugli striscioni erano chiare: “indulto”, “amnistia” e “libertà”. Lo Stato ha risposto facendo intervenire l’antisommossa, i GOM, l’esercito. Ci sono stati 14 morti tra i detenuti. La propaganda di polizia parla di 14 casi di overdose, ma è sicuro che alcuni detenuti in gravi condizioni non sono stati curati e sono morti durante o dopo il trasferimento in carceri di altre città. Mentre continuano le proteste tra i detenuti ci sono agitazioni in corso anche nei CPR, i lager per migranti, come a Gradisca dove i reclusi avevano messo in atto uno sciopero della fame chiedendo libertà. Questa è la situazione nelle “case” di reclusione.
 
Con la retorica della casa come luogo sicuro si è tentato di mascherare la disorganizzazione, l’incapacità, il fallimento della classe dirigente, del Governo, dell’organizzazione capitalista della società. Una retorica condita con tricolori, droni, mitra spianati e rinnovati appelli alla fede e alla superstizione. Una retorica che ha coniugato il nulla della gestione sanitaria con una formidabile operazione repressiva delle libertà individuali e collettive a cui dobbiamo rispondere con tutte le nostre risorse.
 
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Sanità: gli “sprechi” erano le nostre vite

Sanità: gli “sprechi” erano le nostre vite

“Tornare alla normalità” una frase e un desiderio espresso da tutti.
Una normalità che non ci piace, una normalità che non vogliamo. Una normalità che in tempo di emergenza sanitaria non ha avuto bisogno di grandi discorsi per dimostrare le carenze del sistema sanitario, disossato da 20 anni di tagli alla sanità e su tutti i bisogni primari in nome della lotta agli “sprechi”.

Solo tra 2010 e 2019 sono stati sottratti 37 miliardi di euro al Servizio Sanitario Nazionale. Nello stesso periodo sono andati persi 42800 posti di lavoro a tempo indeterminato, sono stati eliminati 70000 posti letto, e sono stati chiusi 359 reparti. Inoltre dal 2007 sono stati chiusi 200 istituti di cura.

Le cifre parlano chiaro, ma più di tutto parlano le esperienze che ognuno di noi ha sperimentato :
liste di attesa lunghissime sia per interventi chirurgici, sia per screening di prevenzione.
“Normale” quindi andare dal primario o dai medici del reparto usando il sistema “intramoenia” a pagamento per accorciare i tempi, “normale” accedere a strutture private convenzionate per fare esami diagnostici in tempi ridotti, ma sempre pagando. “Normale” avere assicurazioni o fondi assicurativi proposti dalle aziende che spesso negano coperture anche per cure basilari e costose, come le cure dentarie. Sono state così privatizzate prestazioni anche essenziali.

Invece di censire il fabbisogno della popolazione e programmare i numeri di letti, terapie intensive, medici e personale sanitario sono stati fatti tagli enormi che non garantiscono mai il diritto alla salute e in tempi di coronavirus hanno contribuito al grande numero di morti che vengono riportati nei vari bollettini.

Questa pandemia non era stata solo annunciata dagli studiosi, era prevista al punto che molti stati, tra cui l’Italia, si erano dotati di piani per la gestione del rischio pandemico seguendo le direttive dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. I protocolli però non sono stati seguiti e nonostante già il 31 gennaio il governo avesse dichiarato lo stato d’emergenza per motivi sanitari, le autorità non hanno avviato, se non parzialmente e in ritardo, una corretta informazione sui rischi sanitari per la popolazione.

Quando dalla Cina arrivavano gli allarmi, in Italia già a fine dicembre in molti ospedali veniva rilevato un incremento anomalo di polmoniti virali. Gli ospedali e il personale sanitario non sono stati dotati di strumenti di protezione adeguata e così, i luoghi che dovevano essere quelli più sicuri sono diventati una delle maggiori fonti di contagio. Chi lavora nel settore sanitario non è né un angelo, né un soldato, né un eroe, sono lavoratrici e lavoratori che già in tempi “normali” sono costretti a turni massacranti e a dure condizioni di sfruttamento.

È importante sostenere le lotte e le rivendicazioni di chi lavora nella sanità, è necessario attivarsi fin da ora per una estensione del diritto alla salute e per adeguare il servizio sanitario alle reali esigenze della popolazione.

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Umanità Nova spezza l’isolamento!

 

Umanità Nova spezza l’isolamento!

Anche durante l’emergenza Covid-19 il settimanale anarchico Umanità Nova continua a diffondere un’informazione militante. Da sempre abbatte muri, barriere e confini, oggi Umanità Nova spezza l’isolamento.

La Federazione Anarchica Livornese invia a chi ne fa richiesta i file pdf degli ultimi numeri del settimanale, per riceverlo o avere informazioni potete scrivere a cdcfedanarchicalivornese@virgilio.it oppure contattare la pagina Anarchici Livornesi.

Umanità Nova porta l’informazione autogestita e la voce degli anarchici nelle piazze esattamente da un secolo. Oggi questa voce è ancora più necessaria di fronte agli spazi di dibattito che si riducono, ai media ufficiali allineati alla propaganda di governo, al dolore provocato pandemia, al rischio di isolamento e di disgregazione sociale. Ora più che mai è importante tessere relazioni di solidarietà, stimolare il dibattito, scambiarsi informazioni e strumenti. Ma soprattutto sostenere le lotte in corso, dando voce a chi sciopera e protesta per garantire la salute, la libertà e la dignità di tutte e di tutti. Anche in questa situazione non siamo tutti sulla stessa barca, anzi in tempi di pandemia tutti i nodi vengono al pettine. Lo sa bene chi è costretto a lavorare senza le adeguate protezioni, chi si trova senza lavoro, chi deve restare a casa con il proprio aguzzino, chi è rinchiuso in un carcere o in un cpr, chi non può in questo momento avvalersi di cure sanitarie adeguate. Noi sappiamo bene da che parte della barricata siamo

Per questo anche in questo momento difficile Umanità Nova continua e continuerà ad uscire: non solo nella versione pdf, ma, cosa non di poco conto, anche in cartaceo. Questa scelta non è delle più semplici, visto che la maggior parte della distribuzione è garantita dalla diffusione militante che al momento, per ovvie ragioni, è molto limitata.

Sostenere Umanità Nova in questi frangenti è ancora più importante, puoi farlo in molti modi, con l’abbonamento al pdf o al cartaceo ( https://umanitanova.org/?page_id=10 ), oppure con una sottoscrizione anche tramite il sito ( https://umanitanova.org/ ).

Ma come in altre località, anche a Livorno è possibile trovare Umanità Nova in formato cartaceo, anche se non sempre puntuale in questo periodo.

Si può trovare il settimanale anarchico presso le seguenti edicole:

– Edicola P.zza Grande (angolo Via Pieroni)

– Megaditta Edicola 29 in Piazza Grande (angolo Via Cogorano)

– Edicola in Via Garibaldi 7

– Edicola in P.zza Damiano Chiesa

– Edicola in Piazza Micheli (lato Porto – Quattro Mori)

– Edicola Dharma sul Viale di Antignano 115

Per ricevere il settimanale cartaceo contattare l’indirizzo cdcfedanarchicalivornese@virgilio.it o al 3331091165 per concordare le eventuali modalità della consegna che sarà effettuata con adeguate protezioni

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Difendiamo la salute, non il profitto!

Difendiamo la salute, non il profitto!

La Federazione Anarchica Livornese e il Collettivo Anarchico Libertario esprimono il proprio sostegno alla lotta condotta in queste settimane dalle lavoratrici e dai lavoratori in difesa della propria salute.

I provvedimenti tardivi e contraddittori adottati dal Governo per l’epidemia di coronavirus lasciano pericolosamente esposti gli addetti alla produzione. Dopo la firma del protocollo condiviso tra sindacati firmatutto e datori di lavoro, il presidente del consiglio si era arrischiato ad affermare “l’Italia non si ferma”. Purtroppo solo decine di migliaia di contagiati e migliaia di morti lo hanno costretto a chiudere parzialmente le attività produttive. Una “chiusura” molto morbida, che non prevede comunque sanzioni per le aziende che potrebbero aggirare i divieti. Come sempre tutte le responsabilità sono scaricate su chi lavora, mentre l’interesse padronale è sempre tutelato.

I sindacati di regime, che si erano affrettati a firmare il protocollo per mettere a tacere le proteste delle lavoratrici e dei lavoratori, sono ora costretti a inseguire i continui blocchi e scioperi spontanei.

Gli scioperi spontanei o, ancora meglio, l’ingresso sul posto di lavoro e il rifiuto di compiere lavorazioni senza le adeguate procedure di sicurezza, sono gli unici strumenti che tutelano la salute dei dipendenti e, indirettamente, di tutta la popolazione.

Ancora una volta, le lavoratrici e i lavoratori, con le loro lotte rappresentano l’interesse generale, il diritto di tutti alla salute, mentre governo e padroni difendono solo l’interesse dei privilegiati, l’accumulazione capitalistica, che è la prima causa dei mali e delle sofferenze che ci affliggono.

Sosteniamo dentro e fuori i luoghi di lavoro le lotte per la salute, che sono state sostenute in questo periodo, le iniziative previste a livello locale e nazionale nella giornata del 25 marzo, con lo sciopero convocato dall’USB a livello nazionale e dalla CUB e altre sigle sindacali in Lombardia, così come sosteniamo tutte le azioni di sciopero e di protesta in corso. Sono già molti i casi in cui si è arrivati a ottenere la chiusura dei luoghi di lavoro, l’applicazione di procedure di sicurezza, o a tutelare comunque i diritti di tutti in caso di riorganizzazione del lavoro. Solo continuando su questa strada è possibile difendere la salute di tutti e porre un argine all’arroganza del Governo e delle aziende che cercano di approfittare al massimo di questa situazione.

Federazione Anarchica Livornese
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CORONAVIRUS ED EMERGENZA: non ci dimentichiamo da quale parte della barricata siamo

CORONAVIRUS ED EMERGENZA: non ci dimentichiamo da quale parte della barricata siamo

Di fronte a questa crisi stato e capitale stanno mostrando, con un’evidenza mai raggiunta prima, tutti i propri enormi limiti e la loro strutturale incapacità di tenere conto delle necessità e della salute delle persone.

In Italia, le scelte politiche dei governi hanno costantemente tagliato la sanità pubblica (più che pubblica, statale). Parte delle poche risorse è stata dirottata verso la sanità privata, anche durante l’emergenza attuale. La contemporanea “regionalizzazione”, secondo un modello aziendalista-capitalista, ha poi reso questo servizio, che in teoria dovrebbe essere di carattere universale, fortemente differenziato tra regione e regione, tra regioni ricche e regioni povere.

I pazienti sono diventati clienti e le cure prestazioni d’opera monetizzate in un quadro generale di competizione e profitto.

Questa impostazione del servizio sanitario svela in questo momento drammatico il suo vero volto lasciandoci tutti in balìa della sua filosofia che non è certo quella della pietà umana e del riconoscimento dell’altro come un nostro simile bensì quella del calcolo delle esigenze materiali minime per il massimo profitto che si traducono ora nella carenza di strutture attrezzate, di personale assunto, di materiale di consumo nei magazzini.

Il risultato è che i sempre più risicati fondi e il sempre più ridotto personale, già sfruttato al limite nell’ordinario, non lasciano margini per le situazioni di emergenza. Salvo poi ammettere che i posti in terapia intensiva si stanno esaurendo, il personale scarseggia, i respiratori non ci sono e sarà necessario effettuare delle scelte su chi curare. E tutto questo quando lo Stato sborsa senza batter ciglio 70 milioni di euro al giorno per spese militari. Con i 70 milioni spesi in uno solo dei 366 giorni di quest’anno bisestile si potrebbero costruire ed attrezzare sei nuovi ospedali e resterebbe qualche spicciolo per mascherine, laboratori di analisi, tamponi per fare un vero screening. Un respiratore costa 4.000 mila euro: quindi si potrebbero comprare 17.500 respiratori al giorno, molti di più di quelli che servirebbero ora.

Abbiamo assistito in queste settimane a una totale cialtroneria del ceto politico nell’affrontare l’emergenza, con esponenti di tutte le aree che hanno affermato tutto e il contrario di tutto, invocando la chiusura e l’apertura a seconda di ciò che invocava l’avversario. Abbiamo visto il governo impugnare la chiusura delle scuole marchigiane salvo poi chiudere tutto il Paese pochi giorni dopo, abbiamo visto opportunismi ributtanti e ora assistiamo alla retorica del “ce la faremo”.

Se ce la faremo, non sarà certo grazie ai governi nazionale e regionali. Non sarà certo grazie alla massiccia militarizzazione di città e confini. Non sarà certo grazie alle imprese, che tramite Confindustria hanno gettato la maschera scegliendo esplicitamente il profitto. Lo hanno dichiarato in modo chiaro e netto, senza giri di parole, senza vergogna: non chiudiamo, la produzione deve andare avanti. Questo ha portato a scioperi spontanei in molte aziende, con le centrali sindacali a inseguire le lotte dei lavoratori che non hanno voluto cedere supinamente alle pretese padronali. L’inseguimento dei sindacati di regime ha raggiunto il traguardo del ridicolo protocollo siglato il 14 marzo, contenente solo obblighi per i lavoratori e solo raccomandazioni per le imprese.

Questo disgustoso cinismo, questa fame di profitto unita al disprezzo per la salute di chi lavora, proprio perché espressi in un momento così eccezionale, non devono passare e lor signori ne devono rendere conto.

Questa crisi la sta pagando soprattutto chi lavora in sanità ed è sotto la pressione continua di turni massacranti e dei crescenti casi di contagio e di morti fra il personale stesso.

Nessun media mainstream ha ripreso la denuncia degli avvocati dell’associazione infermieri, un’istituzione che non ha nulla di sovversivo. Nella narrazione dominante infermiere ed infermieri sono descritti come eroi, purché si ammalino e muoiano in silenzio, senza raccontare quello che succede negli ospedali. Gli infermieri che raccontano la verità sono minacciati di licenziamento. A quelli che vengono contagiati non viene riconosciuto l’infortunio, perché l’azienda ospedaliera non sia obbligata a pagare indennizzi a chi si trova ogni giorno a lavorare senza protezioni o con protezioni del tutto insufficienti.

Questa crisi la sta pagando chi ha un lavoro saltuario o precario, al momento senza reddito e senza nessuna certezza di riavere il lavoro a epidemia conclusa.

La sta pagando chi si trova a casa in telelavoro a dover conciliare una presenza casalinga spesso molto complessa con bambini o persone da accudire e contemporanei obblighi produttivi.

La sta pagando chi è costretto ad andare nel proprio luogo di lavoro senza nessuna garanzia per la salute.

La sta pagando chi è povero, senza casa, chi sopravvive per strada o in un campo nomadi.

La stanno pagando i lavoratori e le lavoratrici che hanno fatto scioperi spontanei contro il rischio di contagio e sono stati a loro volta denunciati per aver violato gli editti del governo, perché manifestavano in strada per la loro salute.

La stanno pagando i reclusi nelle carceri dello Stato democratico che hanno dato vita a rivolte in 30 prigioni in difesa della propria salute. Durante le rivolte ci sono stati morti quattordici morti. Quattordici persone che -ci raccontano- sarebbero morte tutte per overdose da farmaci auto indotta. Quattordici persone sottomesse alla responsabilità di un sistema a cui forse non è parso vero di poter applicare con pugno di ferro altre misure di contenimento, non tanto dell’infezione ma dei carcerati stessi.

In una situazione esplosiva a causa delle condizioni già ai limiti dell’umano che da anni -in modo strutturale e non eccezionale- si vivono all’interno delle carceri il governo ha pensato bene di bloccare ogni visita senza prendere misure efficaci a tutela della salute dei carcerati.

Purtroppo sappiamo bene che una volta conclusa e superata questa fase di emergenza saranno sempre le stesse persone a rimetterci in termini di impoverimento e di ulteriore sfruttamento. Perché anche se nessuno di noi ha la sfera di cristallo, si può già prevedere che useranno la scusa della “ripresa”, del “risanamento economico”, del “superamento della crisi”, per comprimere sempre di più gli spazi di lotta nei posti di lavoro e le libertà civili e politiche. Non sarà certo una sorpresa se la retorica della “responsabilità” sarà utilizzata per affinare ulteriormente i dispositivi disciplinari e di controllo sociale, per limitare ancor di più la libertà di movimento, per limitare ancor di più la libertà di scioperare e manifestare, che ora è di fatto sospesa. Già adesso il numero dei denunciati per la violazione dei decreti supera quello dei contagiati. Su questo saremo chiamati a vigilare e agire senza tentennamenti.

Siamo solidali con tutt* coloro che in questo momento stanno rischiando la propria vita per salvarne altre, con tutto il personale in servizio negli ospedali, con chi lavora e sciopera per garantire condizioni di sicurezza per sé per gli altri, con tutt* coloro che non possono permettersi di #restareacasa perchè una casa non ce l’hanno. Siamo solidali con chi ha paura perché teme per sé e per i propri cari. Siamo solidali con tutt* coloro che si sono ammalat* e sono stat* strappat* da casa senza poter avere contatti con i propri cari a causa dell’assenza di dispositivi di protezione, siamo solidali con tutt* coloro che stanno morendo con cure palliative per l’assenza di strutture di emergenza adeguate e lo siamo anche con chi ha dovuto prendere delle decisioni in merito alle vite altrui su chi intubare e chi no nel disperato tentativo di ridurre il danno al minimo quando il danno è comunque certo.

Non ci dimenticheremo di chi è la responsabilità di quello che accade oggi: è dei governi e degli stati che hanno sacrificato la salute di noi tutti scegliendo il profitto, la guerra e il rafforzamento del loro potere.

Ma non si illudano: le lotte non andranno in quarantena.

Commissione di Corrispondenza della

Federazione Anarchica Italiana

20 marzo 2020

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Lorenzo Orsetti Vive!

18.03.2019 – 18.03.2020

Lorenzo Orsetti Vive!
Internazionalismo, rivoluzione, anarchia!
Con il Rojava, Eddi libera!

Un anno fa veniva ucciso Lorenzo Orsetti a Baghouz, nel nord est della Siria mentre lottava per la libertà e l’internazionalismo.
Aveva scelto di unirsi alla lotta delle popolazioni del Rojava e delle YPG/YPJ nel 2017, combattendo a fianco del Tikko e negli ultimi mesi nella formazione Tekoşina anarşist con il nome di Tekoşer

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