Skip to content


Ventiquattresimo anniversario della strage del Moby Prince, la lotta continua

questo articolo sarà pubblicato sul prossimo numer del settimanale anarchico Umanità Nova

il-relitto-della-moby-prince

Ventiquattresimo anniversario della strage del Moby Prince, la lotta continua

Venerdì 10 aprile è stato il ventiquattresimo anniversario della più grande strage sul lavoro dal dopoguerra. La strage del Moby Prince. Proprio alla vigilia dell’anniversario l’ottava commissione del Senato, quella che si occupa dei lavori pubblici, e quindi anche dei trasporti, ha approvato all’unanimità la proposta di commissione d’inchiesta che sarà ora sottoposta al voto del Senato.
La commissione d’inchiesta, se sarà istituita, avrà due anni di tempo per indagare sui tempi di sopravvivenza a bordo, sulla dinamica di collisione con la petroliera Agip Abruzzo, sui problemi della sicurezza a bordo e sul ritardo nei soccorsi.
Se da una parte vi è la speranza che questa commissione, se costituita, possa contribuire al riconoscimento di una verità ufficiale, dall’altra vi è la consapevolezza che le istituzioni politiche e giudiziarie dello Stato hanno finora coperto e protetto i veri responsabili.
La verità che è stata finora negata nelle aule di tribunale e nei grandi palazzi della politica, è invece ben nota ai familiari delle vittime e a tutti coloro che li sostengono. La verità è viva nella lotta dei familiari delle vittime della strage del Moby Prince, così come in quella dei familiari delle vittime della strage di Viareggio e di tutte le stragi, così come nelle lotte per la sicurezza sul lavoro e la salute della popolazione, contro le stragi sul lavoro e le nocività.
È per questo che venerdì 10 aprile, molti livornesi sono scesi in piazza al fianco dei familiari delle vittime, dando vita ad un corteo molto più numeroso rispetto a quelli degli anni passati. Da notare un particolare vergognoso: durante il passaggio del corteo davanti al Comune, al Duomo e all’arrivo all’Andana degli anelli in Porto, i militari della Folgore che da un mese occupano le strade del centro per la cosiddetta operazione “strade sicure” si sono messi in mostra a lato della strada, impugnando le loro armi da guerra, per poi rientrare nei propri mezzi dopo il passaggio del corteo.
Alla commemorazione ufficiale, che vede ogni anno, prima del corteo, il saluto delle autorità cittadine ai familiari delle vittime nella sala consiliare del Comune di Livorno, erano presenti anche un pugno di parlamentari, a fianco del Prefetto, del Questore e dei vertici militari. Di fronte ad essi, e a decine di altre persone, sono intervenuti i familiari delle vittime della strage del Moby Prince e di Viareggio, ma anche il ferroviere Riccardo Antonini, che è stato licenziato dalle Ferrovie a causa del suo impegno per la sicurezza sul lavoro, a fianco dei familiari di Viareggio.
Tutti gli interventi hanno messo in evidenza le responsabilità delle autorità politiche e giudiziarie, ma alcuni interventi hanno di fatto messo alla sbarra i parlamentari e le autorità presenti.
Riportiamo di seguito l’intervento nella sala consiliare del Comune tenuto da Giacomo Sini, figlio di una delle vittime e compagno del Collettivo Anarchico Libertario di Livorno.

“Sono passati ventiquattro anni da quella terribile notte nella quale centoquaranta persone vennero assassinate nel rogo del traghetto “Moby prince”. Assassinate è il termine migliore che può essere utilizzato per descrivere le dinamiche che hanno caratterizzato la morte dei nostri familiari.
Un traghetto, il Moby Prince, che nella notte del 10 Aprile del 1991, su ordine dell’armatore della Navarma, Onorato, viaggiava con l’impianto splinter spento, con un solo radar funzionante dei tre presenti a bordo e con un’apparecchiatura radio che presentava notevoli problematiche legate a frequenti cali di frequenza; a causa di quest’ultimo difetto, il traghetto non riuscì ad inviare alla capitaneria di porto un may day chiaro, nei tragici momenti della collisione con la petroliera Agip Abruzzo. Secondo il RINA (Registro Italiano Navale ed Aeronautico), ente predisposto a valutare la sicurezza delle navi ed approvarne l’autorizzazione alla navigazione, il traghetto non presentava problematiche tali da impedirne la partenza. Il tutto nell’ottica del risparmio in materia di sicurezza, per permettere comunque alla Navarma di effettuare la tratta Livorno-Olbia, senza l’onere delle spese sulla manutenzione del traghetto.
Una realtà sconcertante che ha visto, con il passare degli anni, alzarsi in gran coro comune una serie di dichiarazioni da parte di organi istituzionali che hanno affermato la necessità di dover far emergere la verità sulla vicenda. Successivamente è stata promessa, come nelle migliori delle propagande, una maggiore attenzione agli investimenti sulla sicurezza nel mondo del lavoro, in modo che tali vicende non potessero più ripetersi. Ed ecco che negli ultimi anni si è prospettata una realtà ben diversa dalle rappresentazioni di un miglioramento della sicurezza nei luoghi di lavoro millantate dai governi che si sono susseguiti; le condizioni sono piuttosto peggiorate e le tragedie consumate dall’arroganza del profitto hanno caratterizzato la storia degli ultimi anni. Anni nei quali si è costantemente parlato di una salvaguardia esclusiva degli interessi dell’imprenditoria italiana e nella fattispecie di grandi padroni d’azienda, erogando incentivi e finanziamenti agevolati ad imprese produttive, nei quali difficilmente si fa riferimento alla parola sicurezza. Il tutto a discapito di milioni di lavoratori che vedono diminuirsi sensibilmente una serie di garanzie sul posto di lavoro. Non scordiamoci mai che la tragedia del Moby prince è stata la più grande strage sul lavoro dell’Italia post guerra.
A tal proposito credo sia doveroso ricordare l’ennesimo morto sul lavoro, assassinato da tali logiche proprio in questa città, Priscillano Inoc. Un morto sul lavoro che si verifica ancora una volta nel comparto portuale livornese. In un contesto nel quale si parla di allargamento del porto e progetti di megadarsene che favoriscono i già abbondanti introiti dei medesimi padroni, passano difatti in secondo piano i ritardi pesanti nel rinnovo del protocollo di sicurezza del lavoro portuale. Credo sia vergognoso discutere di tali progetti dinnanzi ad una situazione di già persistente condizione di schiavitù con orari di lavoro indecenti e situazioni, da tempo denunciate dai lavoratori stessi, di ingente insicurezza, fondamenta ben visibili per degli omicidi come quello di Priscillano e per stragi come quella della Moby Prince. In questi passaggi mi chiedo nuovamente Come fosse possibile che ad un un traghetto che svolgeva la tratta Livorno-Olbia venisse realmente permesso di viaggiare con tutte quelle carenze in materia di sicurezza della navigazione. La risposta viene da sé, guardando al numero di introiti che la Navarma è riuscita a riscuotere negli anni successivi alla tragedia sino ad oggi, continuando a navigare in simili condizioni, riscuotendo inoltre un buon numero d’incidenti. Fatalità, come venne ricordato dal ministro della marina al tempo della vicenda? Disattenzioni generali, come venne ribadito dal contesto mediatico nazionale? A voi le risposte reali, a loro il potere di schiacciarle con metodi di sopraffazione. Metodi che non hanno mai vinto grazie ai forti legami di solidarietà nati con gli anni che hanno permesso a quelle risposte di emergere con forza e presentare la realtà dei fatti, divenendo verità; 3 colpevoli: Onorato, l’armatore della Navarma Lines per le carenze del traghetto. Sergio Albanese, comandante della capitaneria di porto di Livorno che nella notte del 10 Aprile rimase in silenzio radio per ore senza coordinare i soccorsi, allontanando chi si era permesso di tentare di salvare delle vite Superina, comandante dell’Agip Abruzzo che ha fatto di tutto per concentrare i soccorsi verso la sua nave, riuscendo ad affermare che chi lo aveva speronato fosse una bettolina.
Arriviamo poi negli ultimi mesi del 2014, all’ennesima notizia di una tragedia consumata nei mari: il rogo del traghetto della Norman Atlantic che ha provocato nel giro di poche ore la morte accertata di 13 persone. Ancora una volta emergono dei fatti che non lasciano alcun dubbio sulle responsabilità dell’armatore del traghetto della Anek e la connivenza con il RINA in materia di concessioni alla navigabilità. Lo stesso RINA torna ad essere per l’ennesima volta un protagonista negativo della vicenda, dato il ruolo cruciale nell’affidare voti sufficienti durante le ispezioni precedenti alla partenza del traghetto, consentendone l’operatività. Inoltre, ad oggi, ispettori del registro navale hanno compiuto nei mesi scorsi numerosi sopralluoghi all’interno del traghetto, procedendo al suo trasferimento dal porto di Brindisi a quello di Bari, dove risiede la procura competente sul fatto. Un caso? Certamente la questione è passata inosservata grazie a motivazioni burocratiche. Personalmente lo ritengo un atto grave che può sovraintendere l’ennesimo tentativo di intromissione, per la copertura di certe responsabilità dello stesso RINA. Il traghetto della Norman Atlantic aveva dei malfunzionamenti: le porte taglia fuoco non erano conformi per i protocolli d’intesa internazionali ed i sistemi d’emergenza (luci e batterie)erano spariti. In questi passaggi rivedo tutte le medesime dinamiche che hanno accompagnato la storia della strage del Moby Prince e continuo a chiedermi come sia possibile che esse continuino imperterrite ad accadere in un imbarazzante silenzio-sdegno che viene fortunatamente tagliato dalla rabbia di chi subisce le conseguenze di tali dinamiche. Dinamiche possibili purtroppo, mi rispondo, quando capisco che chi, osservando che i colpevoli della più grande tragedia della marineria italiana sono rimasti ad oggi impuniti, può permettersi di agire con le stesse prerogative. Non è propaganda affermare che la giustizia ufficiale difenda gli interessi di chi uccide. Inoltre, nella vicenda della Norman Atlantic, come spesso purtroppo accade nelle tratte di mare che collegano i porti del mediterraneo e dell’Adriatico, è emersa la notizia della presenza di un buon numero di clandestini che si trovavano all’interno di alcuni TIR nelle aree garage. Ecco che nel valzer delle dichiarazioni inerenti le cause dell’incendio, si è tentato attraverso canali mediatici importanti e vari apparati istituzionali, di concentrare l’attenzione sulla vicenda dei migranti presenti a bordo, finendo per addossare le cause dell’incendio all’accensione di un fuoco da parte di questi ultimi per difendersi dal freddo nel reparto garage. Stessa dinamica nel 1991, quando si tentò da subito di scagionare le responsabilità dell’armatore della Moby Prince, addossando vigliaccamente tutte le colpe alla disattenzione dell’equipaggio intento a guardare una partita di calcio. Si è attuato nuovamente quel tentativo di marginalizzare la problematica delle politiche di deregolamentazione sulla sicurezza della navigazione, attaccando in quest’ultimo caso la fascia di soggetti più deboli e ben strumentalizzabili, i migranti.
E’ bene ricordarsi che a causa di politiche d’ingresso in Europa altamente discriminatorie, che vedono nell’uomo una merce utile solo in materia di fabbisogno di manodopera per diverse aziende, più di 23 mila migranti sono morti davanti agli occhi di chi oggi continua imperterrito a riempirsi la bocca della necessità di operare più attenzione al mondo della sicurezza della navigazione. Quegli attori che, grazie al continuo attacco ai diritti dei lavoratori ed ai conseguenti tagli in materia di sicurezza, salvaguardano il profitto di chi continua ad uccidere con il beneplacito della giustizia italiana. Depistaggi, insabbiamenti, minacce, ricatti, manomissione delle prove, menzogne. In questi 24 anni chi voleva che non si facesse luce sulla strage del Moby Prince ha provato in ogni modo ad ostacolare chi ancora oggi continua a portare avanti la battaglia per la verità e la giustizia. Sono metodi ben noti, gli stessi usati per coprire le responsabilità delle stragi di stato e delle bombe fasciste. Sono gli stessi metodi usati per coprire le responsabilità di industriali, speculatori e politici che per fare affari avvelenano ed uccidono la popolazione.
Ecco quindi che mi preme ricordare ancora una volta la convinzione che siano le mobilitazioni di base e le battaglie comuni a difesa di una differente idea di giustizia a portare ad una vittoria contro gli abusi e la sopraffazione. Una lotta che ogni anno viene rilanciata nelle parole d’ordine di verità e giustizia sulla strage del Moby Prince, perché non si tratta solo di dare una risposta a noi, familiari delle vittime, o di far luce su una vicenda oscura, ma la battaglia assume un significato più grande, che coinvolge tutti e che possa contribuire ad arrivare un giorno a poter dire che nessuno dovrà più subire il dolore che noi continuiamo a vivere.”

Dario Antonelli

Posted in Generale, Lavoro, Nocività-Salute.

Tagged with , , , , , , , , , , .


Kurdistan: Una Rivoluzione necessaria

Kurdistan: Una Rivoluzione necessaria

A due mesi dalla “vittoria”, intorno a Kobanê si combatte ancora. A fine gennaio le YPG/YPJ e le altre forze che hanno contribuito alla resistenza avevano spezzato l’assedio delle truppe dello Stato Islamico iniziato nel settembre dell’anno scorso. In questi due mesi i combattimenti sono continuati nei villaggi che circondano la città e ancora adesso, soprattutto a Sud, si combatte a pochi chilometri da Kobanê. In questi due mesi è iniziato anche il lento rientro in città dei civili che erano fuggiti in Turchia durante l’assedio, sfidando la repressione dello Stato turco al confine e nei campi profughi gestiti dal governo. Si tratta però di un processo molto lento, non solo perché la città è completamente distrutta ma anche a causa della mancanza di sicurezza. Infatti tutta l’area è piena di mine e nelle case sono state lasciate trappole esplosive dalle truppe dello Stato Islamico in ritirata.

I prossimi mesi saranno probabilmente decisivi per comprendere quali saranno gli sviluppi non solo della situazione a Kobanê, ma più in generale nella Rojava, nel Kurdistan e per l’intera regione.

Con il progressivo arretramento delle truppe dello Stato Islamico intorno alla città di Kobanê si porrà in modo sempre più forte la questione della ricostruzione e della ripopolazione della città. Sappiamo che vi sono diverse idee in proposito, si parla di mantenere come museo una parte della città distrutta, di costruire una città nuova a fianco alla vecchia, di ricostruire la città più grande in modo che possa ospitare tutti coloro che vorranno venire ad abitarla (si ricordi che a Kobanê avevano trovato rifugio, prima dell’assedio numerosi profughi da altre aree della Siria).

Ma al di là di questi progetti più o meno definiti, la linea finora sostenuta dal consiglio esecutivo del cantone di Kobanê è quella di non accettare ingerenze da parte di multinazionali o grandi interessi speculativi nella ricostruzione. Tra l’altro al momento a causa della militarizzazione del confine messa in atto dal governo turco, i cantoni della Rojava sono di fatto sotto embargo e non possono quindi ricevere aiuti di alcun genere se non in modo più o meno illegale. È possibile il passaggio di persone e aiuti solo là dove è forte una presenza solidale in territorio turco, come appunto è successo vicino Kobanê, dove nei villaggi in territorio turco lungo il confine hanno portato avanti un’intensa attività di solidarietà molti gruppi rivoluzionari tra cui il gruppo anarchico DAF.

La militarizzazione del confine da parte della Turchia è molto forte ovunque vi sia un territorio in mano alle forze curde. Questo perché lo Stato turco sostiene lo Stato Islamico non solo a Kobanê ma ovunque sia utile come forza controrivoluzionaria da impiegare per eliminare ogni possibilità di cambiamento sociale nella regione.

Nei prossimi mesi probabilmente si definirà in modo più chiaro quali saranno le tendenze prevalenti nell’organizzazione politica e sociale dei cantoni e quali modelli politici ed economici saranno presi come riferimento. Fino ad ora la situazione di guerra ha rinviato di fatto la questione, poiché ogni attività economica è stata orientata di fatto al sostegno dello sforzo bellico. In particolare i cantoni di Afrin e Kobanê hanno potuto sostenere la guerra grazie al cantone di Cezire, il più sicuro e il più ricco dei tre, a causa della presenza di pozzi petroliferi e della parziale apertura del confine con il territorio del Governo Regionale del Kurdistan (KRG) di Barzani, nell’Iraq settentrionale, grazie a un certo numero di peshmerga (truppe regolari del KRG) di stanza lungo il confine che si sono schierate negli ultimi mesi con le YPG/YPJ della Rojava.

La questione della ricostruzione e le elezioni in Cezire, che dovrebbero aver luogo all’inizio dell’estate possono essere un punto di svolta per una situazione che ha visto coesistere finora più tendenze e modelli economici e politici.

Saranno importanti anche le elezioni legislative in Turchia a giugno, sulle quali punta molto il partito HDP (Partito Democratico dei Popoli) che sostiene la causa curda e cerca di riunire parte della sinistra turca. La soglia di sbarramento per entrare in parlamento è fissata al 10%, un limite molto alto, ma che l’HDP potrebbe riuscire a superare. Per l’HDP queste elezioni sono importanti per contare nella revisione della costituzione e nel processo di pace in corso tra lo Stato turco e il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan). Alcune forze della sinistra rivoluzionaria turca, così come gli anarchici, non condividono questa strategia parlamentare e ritengono invece che si debba proseguire il processo rivoluzionario in corso nella Rojava e estenderlo nella regione.

In effetti, al di là degli sviluppi che ci potranno essere, di fatto quella in Rojava è una situazione rivoluzionaria. La mancanza di un governo dotato di un apparato repressivo che possa ostacolare la libera riorganizzazione della società, la mancanza di un esercito regolare e la presenza invece di unità di autodifesa, la presenza di assemblee e comitati territoriali nei quali la popolazione ha diretto potere decisionale. In questa situazione i compagni anarchici del gruppo DAF (Devrimci Anarşist Faaliyet – Azione Anarchica Rivoluzionaria) sono attivi e presenti come forza riconosciuta nel movimento curdo, al quale potano il loro contributo. In questo contesto cercano di aprire la strada alla rivoluzione sociale, prendendo come obiettivo non l’autonomia o il confederalismo democratico, ma l’anarchia.

Chiaramente, questi processi avvengono in un contesto regionale molto complesso. La presenza di ricchi giacimenti petroliferi, l’incrociarsi di interessi strategici contrapposti, la ferma volontà delle potenze mondiali e regionali di bloccare o recuperare ogni possibile cambiamento sociale reale, che possa mettere in discussione lo Stato e il capitale. Questi e molti altri fattori rendono forse più difficile che altrove lo sviluppo di un processo rivoluzionario in questa regione.

Ma abbiamo visto già chiaramente in Libia e in Egitto che dove non si è in grado di porre all’ordine del giorno la rivoluzione sociale, si lascia spazio alle guerre imperialiste e alle dittature, siano esse laiche o religiose. È lo stesso vicolo cieco in cui può portare la strategia parlamentare in Turchia, così come altre scelte che mirino a bloccare il processo rivoluzionario.

Dario Antonelli

ovunque kobane

Articolo pubblicato su Umanità Nova

A Livorno puoi acquistare il settimanale anarchico Umanità Nova presso le edicole di Via Garibaldi 7, Piazza Damiano Chiesa e di Piazza Grande (angolo Bar Sole), presso l’edicola Dharma Viale di Antignano 110, la Libreria Belforte in Via Roma 69, il bar Dolcenera all’angolo tra Via della Madonna e Viale degli Avvalorati e presso la sede della Federazione Anarchica Livornese in Via degli Asili 33 (apertura ogni giovedì dalle 18 alle 20)

Posted in Anarchismo, Generale, Internazionale.

Tagged with , , , , , , , , , , , , .


Opuscolo: Grandi Opere, Grandi Truffe! darsena-rigassificatore-ospedale

Di seguito l’opuscolo presentato presso la FAL sabato 11 aprile

 

GRANDI OPERE

GRANDI TRUFFE

Darsena | Rigassificatore | Ospedale

INDICE

  1. Introduzione

  2. Analisi della questione nel contesto locale

Darsena

Rigassificatore

Ospedale

3. No Expo: appello alla mobilitazione

INTRODUZIONE

Le cifre della disoccupazione testimoniano la vera e propria catastrofe che si è abbattuta sugli sfruttati. La crisi economica è stata l’occasione per un gigantesco sabotaggio della produzione e della distribuzione, operato dai capitalisti con l’appoggio del Governo e delle banche, per distruggere il movimento operaio e cinquant’anni di conquiste e miglioramenti delle condizioni di vita e di lavoro delle masse popolari.

La scuola, la sanità, i servizi pubblici sono disorganizzati; la disoccupazione si diffonde, e con essa la miseria e la sfiducia.

Livorno è un esempio di questa catastrofe: la disoccupazione a Livorno e nella sua provincia è quasi il doppio della media toscana e molto superiore alla media nazionale.

La disoccupazione giovanile è altissima. La cassa integrazione è aumentata vertiginosamente: poiché la CIG è l’anticamera del licenziamento è probabile che nei prossimi anni la situazione della disoccupazione peggiorerà ancora. Il risultato è che tanti livornesi fuggono all’estero: Livorno sta diventando terra di emigranti.

Tutto questo non è rimasto senza risposta. La lotta dei lavoratori della TRW, che ha visto l’occupazione della Confindustria e momenti molto alti di mobilitazione, è stata seguita da quella dell’IFB e di People Care, per

citare solo quelle più clamorose. Vanno avanti la lotta dei lavoratori delle agenzie interinali del porto per il rispetto dei regolamenti e contro lo straordinario, e quello dei lavoratori delle cooperative sociali contro il part-time obbligatorio. Sta crescendo anche a Livorno la mobilitazione contro la progettata riforma della scuola, che provocherà anch’essa una diminuzione dei posti di lavoro, soprattutto per i precari.

Occorre uscire dalla logica separata delle singole vertenze e porre il problema di come reagire al sabotaggio che i capitalisti operano ai danni della produzione, con l’appoggio dei governi nazionali e locali e delle banche. Un esempio ce lo dà Vertenza Livorno, la rete per la difesa della salute e dell’ambiente, che ha individuato una serie di punti, dal polo per la gestione dei rifiuti urbani a quello per le energie rinnovabili, per un turismo sostenibile, alla bonifica delle aree industriali dismesse a carico dei proprietari. Anche i lavoratori e le loro organizzazioni devono impegnarsi per individuare un percorso di uscita dalla crisi, al di fuori delle grandi opere che significano devastazione del territorio e saccheggio delle risorse pubbliche, pagate dagli sfruttati e dai ceti popolari.

Questo lavoro deve basarsi sull’inventario delle aree, degli impianti e dei macchinari abbandonati o sottoutilizzati, su una ricognizione delle possibilità di sbocco dei prodotti, delle aree inquinate e dei terreni abbandonati. Ad esso si deve accompagnare il censimento della forza lavoro occupata e disponibile, del ricorso allo straordinario e alla cassa integrazione, in modo da capire come dividere il lavoro esistente fra occupati, sottoccupati e disoccupati.

Infine i lavoratori organizzati devono effettuare una sorveglianza assidua per il rispetto dei regolamenti, dei contratti e della normativa, contro il lavoro nero o comunque non normato, contrastando al contempo le nuove forme di precarizzazione e di sfruttamento introdotte dal Jobs Act: siamo convinti che con queste semplici pratiche sia possibile ridurre la disoccupazione e individuare quei percorsi che puntino al soddisfacimento dei bisogni collettivi.

E’ chiaro che queste operazioni hanno senso solo se accompagnate dal collegamento fra i lavoratori delle varie località, e animate dalla volontà di superare il modo di produzione capitalistico:

questa attività di controllo effettuata dagli organismi dei lavoratori non deve servire a garantire maggiori profitti ai capitalisti, ma si deve muovere nella prospettiva dell’autogestione e dell’esproprio generalizzato dei mezzi di produzione.

Questo opuscolo vuole dare il proprio contributo a questo lavoro, demolendo l’illusione che le grandi opere portino maggiore occupazione, anche quelle che per Livorno sono grandi opere, la Darsena Europa, il nuovo ospedale, il rigassificatore; attraverso quel lavoro d’inchiesta che dia ai lavoratori gli strumenti per comprendere e gestire l’economia.

DARSENA

Il porto costituisce il cuore pulsante dell’economia livornese, è naturale quindi che ogni variazione ne traffici marittimi sia vista con preoccupazione o speranza dalla città, che le migliaia di disoccupati che popolano Livorno vedano con favore ogni promessa di investimento nelle strutture portuali.

La variante anticipatrice del Piano regolatore del Porto, che contiene la previsione di nuovi investimenti nell’area portuale, pone una serie di interrogativi.Il dibattito è stato condizionato dalla promessa di finanziamenti fatta dal presidente della Regione Toscana, che dovrebbero creare nuovi posti di lavoro. Come quando comandava il PD, non c’è stato alcun dibattito che coinvolgesse tutta la città, a partire da chi sul porto ci vive e ci lavora, né le loro rappresentanze sindacali. Il ribaltone primaverile, che ha tolto al PD il ruolo di partito di maggioranza nel consiglio comunale, dopo una serie di incertezze su altri argomenti, si rivela più di forma che di sostanza: è ancora il partito del mattone e della speculazione che domina la vita politica della città, senza alcun riguardo per le esigenze dei lavoratori e dei ceti popolari.

opuscolo darsena

Ma arriveranno i milioni promessi da Rossi?

Intanto quelli che dovevano venire dalla Banca Europea degli Investimenti, il piano Juncker, sono scomparsi. Per fortuna Rossi ha un amico a Roma, alla presidenza del consiglio, che ci dovrebbe mettere una pezza; ma non sappiamo se le disavventure giudiziarie del ministero delle infrastrutture provocheranno un ennesimo stop, né sappiamo ancora che cosa prevederà il piano strutturale dei porti, da cui discenderanno gli impegni finanziari del governo.

Insomma,

Che cosa è andato a firmare il sindaco Nogarin a Firenze?

Che cosa c’è di certo?

Il provvedimento approvato dal Consiglio comunale stabilisce il trasferimento all’Autorità Portuale della fascia costiera dallo Scoglio della Regina alla Stazione Marittima compresi, sottraendola al Piano Regolatore del Comune.

Stabilisce inoltre il cambio di destinazione, dal “Sistema Insediativo” al “Sistema Portuale e delle Attività”, in contrasto con il Piano Strutturale in vigore e con un aumento dei volumi edificabili. Questo in contrasto con la legge vigente, che prevede che il Piano Regolatore del Porto debba conformarsi al Piano Regolatore Generale, e non viceversa.

Oltre a questo, ci sono una serie di operazioni che non hanno niente a che vedere con lo sviluppo del Porto, ma sono legate ad altri interessi. Secondo l’Osservatorio sulle Trasformazioni Urbane, obiettivo della Variante Anticipatrice è il raddoppio della Porta a Mare, con l’aggiunta delle aree fra la Fortezza Vecchia e la Stazione Marittima comprese. Questi sono i numeri del progetto: per la tipologia commerciale (ipermercati e simili) le nuove costruzioni passano da 3.500 mq a 12.500, il terziario passa da 20.000 a 22.000, il turistico ricettivo (alberghi) da 10.000 a 11.000 mq, mentre i servizi pubblici decrescono da 76.000 a 55.000 mq. Ecco a che cosa ha portato il ribaltone elettorale, all’ennesima vittoria del partito del mattone!

Che cosa ha a che vedere tutto questo con le condizioni dei lavoratori del porto?

La Darsena Europa, se mai vedrà la luce, sarà pronta fra dieci anni. Il progetto della Darsena è del 2006, sono passati nove anni e solo nel 2015 si fa un piccolo passo in avanti, ma non ci sono ancora soldi veri né l’inserimento nel piano dei porti. In realtà quello che è stato approvato è solo una costola del progetto originario, che costerà 650 milioni di euro, anziché il miliardo e 300 milioni previsti per l’opera originaria. Le nuove banchine assorbiranno comunque pochissimi nuovi addetti, e resta da vedere se l’andamento attuale dei traffici marittimi ha bisogno di questo investimento.

Quali prospettive ci sono oggi per lavoratori che fanno tra

uno e sei turni al mese?

Sul porto di Livorno si abbatte la crisi generale del trasporto marittimo; da una parte c’è la crisi economica che ormai da sette anni divampa in tutto il mondo capitalistico; inoltre c’è un eccesso di offerta, sono troppe le navi in circolazione, mentre le merci da trasportare continuano a diminuire, infine c’è una trasformazione nelle rotte delle grandi compagnie che riduce a pochissimi i porti dove faranno scalo le grandi navi portacontainer. La soluzione è non in una programmazione industriale del settore marittimo, ma nella concorrenza sfrenata fra ogni realtà produttiva, fra ogni Autorità Portuale, per attrarre nelle proprie strutture una fetta maggiore di traffico marittimo, moltiplicando in modo esponenziale le richieste di finanziamenti pubblici. E’ un aspetto tipico del modo di produzione capitalistico nella fase dell’imperialismo, moltiplicare, scaricandone i costi sul pubblico erario, unità produttive sempre più gigantesche. A questa logica non si sottraggono né l’Autorità Portuale né il Consiglio comunale di Livorno.

Ieri come oggi, i lavoratori non hanno nulla da sperare dalle grandi opere, possono contare solo sulle loro forze, sulla lotta costante e tenace per il rispetto degli accordi, dei regolamenti, dei limiti al lavoro straordinario, sulla loro organizzazione in sindacati combattivi non sottomessi ai gruppi di potere che si contendono la maggioranza nelle strutture rappresentative.

RIGASSIFICATORE

La questione rigassificatore è troppo nota per aver bisogno di essere riassunta in questa sede. Annunciato in pompa magna nell’estate del 2002, presentata ufficialmente nel febbraio 2003 con un annuncio/francobollo apparso su Tirreno e Repubblica, in modo che nessuno lo vedesse e potesse partecipare all’iter autorizzativo, il progetto è stato sostanzialmente imposto alla città, tanto che nel 2004 Giunta e Consiglio comunale violarono le regole per impedire lo svolgimento di un referendum sia pure soltanto consultivo.

opuscolo rigassificatore

Il referendum avrebbe avuto comunque il merito di far sviluppare un dibattito dove, comitati e associazioni cittadine contrarie al progetto, potevano sbugiardare tutte le fandonie e fanfaronate che i favorevoli (tutti i partiti salvo qualche rara eccezione, tutti i sindacati confederali, le associazioni padronali, in pratica tutto il “palazzo”) avevano sparato sui cittadini grazie alla compiacenza dei media locali, soprattutto del Tirreno, sempre e comunque schierato a difesa del progetto. Abbiamo dovuto sopportare stupidaggini sui grandi benefici che il gas importato dalla OLT avrebbe dato all’economia del territorio, alle centinaia di nuovi posti di lavoro, alle ricadute sul Cantiere Orlando (in quegli anni agonizzante ma ancora funzionante), alla metanizzazione della centrale ENEL del Marzocco, allo sconto sulle bollette del gas pagate dai livornesi, ecc. Tutte baggianate: il cantiere è stato chiuso come la centrale ENEL, i posti di lavoro, poche decine, non hanno avuto una ricaduta sul territorio , le bollette saranno più salate, a Livorno come nel resto d’Italia, perché, come vedremo, lo Stato si è assunto l’onere di salvare la OLT dal fallimento. Sarebbe interessante sapere che fine hanno fatto i Lamberti, i Cinuzzi, i Bussotti, i Manacorda, i Cosimi, e compagnia berciante, che hanno sparato per anni simili baggianate.

Era il 2006, quando i comitati lanciarono la parola d’ordine di un progetto dannoso all’ambiente, pericoloso per i rischi di incidente rilevante, inutile perché di gas in Italia ne stava arrivando fin troppo.

Alla fine di luglio 2013 il rigassificatore è arrivato, con tanto di strombazzamento propagandistico: ricorderemo l’inserto speciale del Tirreno, spacciato per supplemento informativo, in realtà un opuscolo pubblicitario, fatto fra l’altro pure male.

Il rigassificatore è arrivato, la OLT è apparsa come sponsor di Effetto Venezia, della regata organizzata dall’Accademia Navale, delle stagioni del Goldoni, ecc. Ha sparso un po’ di soldi che hanno fatto la felicità di pochi. Soldi nostri, come vedremo.

Il 19 dicembre 2013 il rigassificatore, dopo alcuni mesi di prove effettuate con gas procurato da uno dei soci di OLT, la tedesca E.On, è entrato ufficialmente nella fase di commercializzazione … ma non ha mai lavorato un m3 di gas! La crisi economica e l’avvento delle fonti rinnovabili hanno fatto calare a picco i consumi di gas: nel 2014 si è consumato tanto gas quanto nel 1998!

Si è così avverata la facile previsione del comitati: se, e per fortuna, il rigassificatore non ha fatto danno e non ha fatto correre rischi agli abitanti della costa e alle navi che solcano il nostro mare, si è dimostrato vero che il rigassificatore è inutile.

La logica avrebbe voluto che l’impianto venisse chiuso, forse venduto per essere riconvertito o spostato in altro paese … ma il capitale investito – si parla di 900 mln ma forse sono anche di più – andava remunerato. Ed ecco quindi arrivare il governo che lo dichiara “strategico” per la sicurezza energetica nazionale. La OLT, in questa farsa, si dice disponibile a fornire metà dei suoi, vuoti, serbatoi, per gas da utilizzare in caso di crisi: 100mila m3 di gas liquido, da utilizzare in caso di picchi di consumi. Una farsa perché come dimostrato dal Comitato contro il rigassificatore quei 100mila m3 stoccati sul rigassificatore potrebbero garantire, forse, 4 ore di consumi italiani in caso di emergenza. Una sciocchezza. Tanto più scandalosa se si pensa che gli stoccaggi italiani sono pieni al 94%, garantendo quantità ben superiori di gas, quelle si utili in caso di crisi. Tanto per comprendere la farsa inscenata per salvare la OLT: negli stoccaggi ad ottobre c’erano 11,4 mld di m3 di gas, più 4,6 miliardi di m3 di gas di riserve strategiche contro i 60 mln di m3 stoccati nei serbatoi del rigassificatore di Livorno!

Ma l’importante era dare fumo negli occhi per giustificare la sovvenzione, cioè il salvataggio. Un viceministro, tale De Vincenti (quello delle trattative per salvare la TRW e il call center …), ha parlato di 160mln di euro risparmiati grazie

allo stoccaggio della OLT. Cifre sparate a casaccio ma tanto nessuno sarebbe andato a controllare. La OLT garantisce sponsorizzazioni a destra e a manca, specie ora che ha avuto la garanzie di avere 45 mln di euro nel 2014 e 85 mln nel 2015 e per altri 18 anni. Soldi estratti da un apposito aumento sulle bollette pagate dagli italiani.

Cosa si potrebbe fare con 85 mln di euro ogni hanno investiti nel territorio?

Certamente molto di più di quanto non faccia la OLT che spanderà un pò di briciole qua e là … soldi rubati a coloro che hanno perso il posto di lavoro (28mila dal 2008 nella sola provincia di Livorno), ai precari, ai giovani in cerca di lavoro, agli anziani a cui è stata tagliata l’assistenza.

Con 85 mln di euro ogni anno si potrebbe dare un reddito decente (1200 euro al mese) a 5900 disoccupati livornesi, oppure si potrebbero finanziere le bonifiche dei siti inquinati, oppure si potrebbe rilanciare il turismo creando veramente il parco delle colline livornesi, oppure creare in città un polo per la corretta gestione dei rifiuti, si potrebbe

realizzare l’elettrificazione delle banchine con energia prodotta da impianti eolici o fotovoltaici in modo da ridurre l’inquinamento cittadino, si potrebbe rafforzare l’assistenza sanitaria anziché tagliarla. Si potrebbero fare queste e mille altre cose, tutte alternative, alle faraoniche grandi opere, spesso se non sempre inutili e dannose.

Quegli 85 mln di euro, che oggi mantengono in vita un rigassificatore che da lavoro, forse, a 50 persone, andrebbero spesi per iniziative proposte dalla città, sviluppate tramite un dibattito collettivo che abbia come centro il benessere degli individui e non di pochi imprenditori e burocrati. Le spese andrebbero decise collettivamente, ma anche andrebbe controllato collettivamente il loro effettivo utilizzo.

Un libro dei sogni?

No, se abbandoneremo ogni fiducia in chi ci ha trascinato in questa situazione ma anche in chi si è proposto come alternativa ma sta ripercorrendo le stesse strade, come la vicenda del piano regolatore portuale sta dimostrando in questi giorni

OSPEDALE

Nasce nel 2008 l’intenzione da parte del Comune e dell’ASL di dare vita ad un nuovo Ospedale. L’ASL, dopo aver ristrutturato parte del vecchio ospedale spendendo circa 100 milioni di euro, di cui la metà per il nuovo pronto soccorso, propone un nuovo polo ospedaliero delocalizzato; il piano finanziario dedicato al nuovo ospedale prevede una spesa di circa 266 milioni di euro, tra struttura ed attrezzatura interna, quasi 10 milioni solo per la progettazione e la direzione dei lavori, subito investiti.

Nel 2009, per finanziare quest’imponente opera, vengono messi in vendita: i distretti sanitari, i centri sanitari e di prevenzione, il centro di igiene mentale Frediani, le vecchie strutture di via San Francesco e via del Piave, alcuni servizi dell’attuale presidio ospedaliero di viale Alfieri e villa Graziani, la restante parte dei finanziamenti necessari, più della metà, si presuppone tramite prestiti di privati (project financing) e un ipotetico contributo della Regione Toscana.

Tra le aree candidate ad accogliere il nuovo polo vi sono: Picchianti, Archi (via di Tramontana), Carcere (zona Padula), Leccia e Scopaia, Villa Serena, RSA Pascoli. Le prime risultano essere aree soggette ad inquinamento dovuto alla vicinanza con zone industriali, a rischio esondazione, o troppo vicine ad aree come il carcere, ritenuto pericoloso. Viene inevitabilmente scelta l’area di Montenero Basso tra Villa Serena e RSA Pascoli. Si prevede la demolizione della casa di cura che ospita oltre 200 anziani e la riqualificazione dei padiglioni 4 e 5 dell’ospedale in Viale Alfieri per accoglierli, con un ulteriore spesa di circa 8 milioni e mezzo di euro.

opuscolo ospedale2

Il nuovo ospedale è pensato come una struttura monoblocco, adeguata agli standard sanitari attuali, con 440 posti letto anzichè 650 presenti nell’attuale, una diminuzione dovuta alla scelta di applicare un nuovo sistema organizzativo basato sul modello ad “intensità di cure”. Il modello ad “intensità di cure” divide in tre livelli di intensità le necessità assistenziali: alta intensità, per degenze intensive e sub intensive (rianimazione e terapia intensiva post operatoria); media intensità, degenza per acuti (area medica e chirurgica); bassa intensità, degenze per pazienti post acuti (stabilizzazione e riabilitazione). Questo modello presuppone che l’assistenza delle cronicità, della disabilità e parte della riabilitazione vengano assorbite tramite la rete assistenziale dei servizi territoriali e l’assistenza domiciliare.

Nel progetto, per costruire l’intera struttura del nuovo ospedale si prevedono solo due anni, senza sprechi nè indugi e l’inaugurazione è prevista per il 2016, poi rimandata al 2017 e infine al 2018. Si pensa subito alle possibilità di riuso della vecchia sede in Viale Alfieri, in buona parte ceduta ai privati, riconvertita in zona per edilizia residenziale, in polo scolastico/universitario, in sede di uffici e attività di gestione delle strutture sanitarie.

L’ospedale attuale realizzato nel 1931, ha una superficie lorda di circa 114 mila metri quadrati, ed è collocato al centro tra le assi est-ovest e nord-est della città, risulta ben collegato con buona parte della città, è circondato da aree libere e pubbliche, come il Parterre (ex Pirelli), che potrebbero essere riconvertite in funzione di una ristrutturazione, ma presenta numerosi problemi infrastrutturali, oltre alla necessità di un adeguamento sismico. Con il Progetto Mariotti, iniziato prima della proposta del nuovo ospedale a Montenero, si delineava una riorganizzazione della vecchia struttura alla cifra di 60 milioni di euro. Il progetto però, è stato presto accantonato insieme alla relativa documentazione, rendendo impossibile qualsiasi confronto con la nuova proposta.

Nel 2010, viene fatto un referendum abrogativo consultivo al quale si risponde “SI” se si è contrari al nuovo polo ospedaliero; un caso anomalo che per l’occasione ha fatto estendere il diritto al voto anche ai sedicenni e agli 8 472 stranieri residenti. Hanno votato il 20% degli aventi diritto, dei quali il 73% ha espresso un “SI”.

Nonostante l’accesa opposizione della popolazione, il progetto procede comunque, si realizzano i modellini e si espongono all’interno dell’attuale ospedale, la Regione finanzia il Comune con 15 milioni di euro per la costruzione della viabilità di Montenero e poi chiede al Comune di restituiglieli qualche anno dopo, quando, nel 2014, si palesa all’interno della nuova amministrazione comunale un’opposizione alla costruzione del nuovo ospedale.

La questione dell’ospedale entra nei programmi elettorali come strumento della propaganda politica, ma da nessuna parte viene fatta una concreta proposta per migliorare la sanità e la struttura ospedaliera esistente.

Adesso la Regione preme per far realizzare il progetto del nuovo ospedale a Montenero, l’amministrazione comunale si oppone apertamente, ma la sanità rimane così com’era prima del 2008. Sorgono spontanee alcune domande:

Da cosa è nata la necessità di un nuovo ospedale delocalizzato?

Perché è nata dopo l’inizio del progetto Mariotti?

Dove è finita la documentazione di questo progetto?

Che fine hanno fatto i distretti sanitari messi in vendita?

Cosa avrebbero chiesto i privati in cambio dei finanziamenti dati per il nuovo ospedale?

Perché l’area scelta tra le altre candidate, era l’unica a non essere considerata un sito particolarmente inquinato?

Come verrebbe attuata l’assistenza presupposta dal modello ad “intensità di cure” se non vi è una rete assistenziale di servizi sociosanitari territoriali, nè alcuna assistenza domiciliare adeguata?

Perché la Regione richiede al Comune i soldi dati se sarebbero comunque impiegati per il miglioramento della sanità?

Ci sono progetti per migliorare le strutture sanitarie attuali?

L’ASL, è bene ricordarlo, è prima di tutto un’azienda con una propria soggettività giuridica e un’autonomia di carattere imprenditoriale e come tale mira al profitto. Nascoste le vecchie carte e i vecchi progetti, l’azienda si è lanciata nel progetto del nuovo ospedale coprendosi con una clausola di recessione che le assicurava che nessuno dei concorrenti potesse avanzare pretesa alcuna nel caso in cui fosse stata sospesa o annullata la procedura. Per coprire un’insostenibile riorganizzazione dell’assistenza ospedaliera, l’ASL ha giustificato la delocalizzazione del nuovo ospedale, parlando di umanizzazione, urbanità, socialità, organizzazione, interattività e tanti altri bei termini che si prestano bene come decorativi di un’opera che ha fini ben diversi da quelli del miglioramento della sanità.

In realtà l’ASL con il progetto del nuovo ospedale ha espresso la volontà di limitare la sanità pubblica per dare spazio al privato, procacciando società per azioni che gestiscono a breve e lungo termine larga parte della costruzione e di quello che vi orbita intorno. Inoltre, il modello ad “intensità di cure” che viene proposto, non ha bisogno di strutture fisiche indispensabili, come è stato fatto credere e, senza i presupposti necessari alla sua applicazione, rischia di dequalificare l’assistenza sanitaria. I distretti e centri sanitari, svenduti per finanziare la grande opera, sono pochi e sovraccaricati, incapaci di sopperire al bisogno di assistenza territoriale, così come non vi è un adeguamento delle strade per i disabili e non esistono finanziamenti per l’assistenza domiciliare.

La fase di realizzazione poi, prevista in soli due anni e successivamente dilungata a sei, non è affatto plausibile, considerati i ritardi già avvenuti per precedenti strutture di minor complessità come il nuovo distretto sanitario di Salviano e l’acquario.

Il ritiro dei finanziamenti da parte della Regione, rende evidente che quei soldi, per altro solo il 5% della spesa complessiva, non sono stati dati per migliorare la sanità a Livorno ma per riattivare un settore specifico, quello edilizio, tramite la distribuzione di appalti. In questo contesto, non è importante cosa e perché si costruisca, ma che si faccia e dopo si cerchino i modi per giustificare ciò che è stato costruito. La cementificazione portata dalla costruzione di un nuovo ospedale, così come da altri grandi opere immotivate ha inoltre costi ambientali molto pesanti che non vengono menzionati. La partecipazione pubblica sbandierata da qualsiasi parte politica in carica, risulta ipotetica e irreale, soprattutto quando si tratta di tenere informata la popolazione sulle scelte politiche che potrebbero avere un impatto negativo sull’ambiente e sugli “incidenti” che continuano a succedere.

Un esempio è quello dei bidoni tossici del cargo “Venezia” avvenuto 17 dicembre 2011 al largo della Gorgona, che ha portato in mare circa 34 tonnellate di monossido di cobalto e molibedeno. L’incidente è stato reso noto ben dodici giorni dopo l’accaduto e i controlli dell’ARPAT sui bidoni rimasti sono avvenuti con un enorme ritardo.

Inutile riferirsi al miglioramento della sanità senza parlare di prevenzione se, come si è stato ammesso anche per la scelta del sito del nuovo ospedale, Livorno è una zona industrializzata con sorgenti inquinanti diffuse: l’inceneritore RSU, la raffineria ENI, il rigassificatore OLT, il Porto, la discarica Scapigliati, lo stabilimento della Solvay, ed il vento non elimina gli inquinanti ma li trasporta, anche dove non ci sono sorgenti di emissione vicine.

Come hanno evidenziato tutti i comitati che si sono opposti al progetto dell’ospedale di Montenero, la sanità ha bisogno di un miglioramento reale: si devono prevenire le malattie in una città come Livorno dove diversi studi epidemiologici hanno evidenziando un eccesso di mortalità per tutte le cause di morte e per cause specifiche legate all’esposizione agli inquinanti, fare controlli sulla salubrità dell’ambiente lavorativo, si devono ridurre le liste d’attesa, adeguare le attrezzature, rendere possibile un’assistenza domiciliare e operativi i distretti territoriali, ristrutturare l’attuale ospedale e ampliarlo nell’area dell’ex Pirelli per fornire una risposta al problema dell’invecchiamento della popolazione.

Per fare tutto quello di cui c’è bisogno non è possibile affidarsi a questa o quell’altra amministrazione politica, che come hanno dimostrato, seguono solo le logiche del profitto e del consenso.

La questione dell’ospedale è emblematica per molte questioni attuali che vengono proposte come opere moderne per standard moderni, ma sono nate per precisi interessi economici. Per queste opere si parla di milioni di euro e quando ci viene detto che i soldi non ci sono è perché qualcuno se li sta mettendo in tasca propria.

Ne sono un esempio le trivellazioni in Basilicata e in Sicilia per il petrolio, che inquinano le acque, l’aria, il terreno e di conseguenza le coltivazioni e il bestiame. l’Ilva in Puglia continua a mietere morti di cancro e continuerà a farlo anche dopo l’applicazione degli interventi ad hoc stipulati con il “Contratto Istituzionale di Sviluppo Taranto”. Il rigassificatore ormeggiato al largo della costa livornese porta ad una maggior emissione di CO2 e NO2 e il raffreddamento dell’acqua di mare con conseguente modifica dall’habitat marino. Ci sono poi i rifiuti speciali, quelli che finiscono nella terra dei fuochi e non si sa bene dove, come e se vengano smaltiti. Ricordiamo infine la TAV in Val Susa, non voluta dalla popolazione locale per i suoi dannosi effetti sul territorio, dovuti ai dissesti idrici e alla

probabile diffusione di polveri di amianto e uranio durante gli scavi, ma propagandata per pregi economici che dovrebbe ipoteticamente portare. Popolazioni e comitati si battono da vent’anni contro questo progetto, sostenuti da vasti settori politici e sociali, osteggiati dal potere politico, economico e giudiziario, che non esitano a reprimere e condannare chi contrasta lo scempio del territorio. A questa lotta come a tutte le altre che si oppongono alla devastazione ambientale e alla speculazione infrastrutturale, va tutta la nostra solidarietà.

opuscolo ospedale

NO EXPO

appello alla mobilitazione

Il Primo Maggio, giornata di lotta e di festa della classe lavoratrice, sarà in questo 2015, la giornata inaugurale della massima espressione del paradigma capitalistico del XXI secolo: la fiera espositiva Expo prende il via. Expo non è una semplice fiera, un’esposizione delimitata nel tempo e nello spazio. Expo 2015 travalica qualsiasi funzione storica, ha natura invasiva e si erige a modello, a paradigma di un sistema sociale caratterizzato da un progressivo e inarrestabile processo di privatizzazione. Privatizzazione che parte dalle speculazioni sui terreni su cui si erigono i padiglioni della fiera internazionale, si estende in modo tentacolare a vaste zone della metropoli riproducendo

meccanismi di espropriazione a discapito di settori sempre maggiori di popolazione proletaria soggetta a violenti sgomberi coatti.Expo è massima espressione di cosiddetta “grande opera”, ovvero drenaggio di soldi pubblici a solo vantaggio di soggetti privati gestori di una devastante e inutile rete veicolare e di viabilità all’insegna di cemento e catrame. La rete stradale e autostradale lombarda modificherà in modo irrimediabile il paesaggio extraurbano della regione.

Il sistema capitalistico, nella sua mortifera corsa devastatrice, ha però anche bisogno di ripulirsi l’immagine – non certo la coscienza di cui è privo – ed è per questo motivo che Expo e la stragrande maggioranza di Paesi e aziende multinazionali presenti, per questa edizione giocano la carta dell’alimentazione con toni e slogan propagandistici relativi alla volontà e capacità di nutrire l’intero pianeta.

Ne scaturisce la volontà di rappresentare un mondo pacificato all’interno del quale, nel rispetto delle gerarchie strutturali, possano convivere modalità di produzione e consumo spacciate un tempo come alternative le une alle altre, ma in realtà solo concorrenti nello stesso mercato capitalistico. Vi è quindi la possibilità di vedere multinazionali come Monsanto – maggiore responsabile di produzioni alimentari ogm – con aziende fautrici del cosiddetto mercato biologico.

Mc Donald’s e Nestlé a braccetto con Slow Food.

In questa sorta di villaggio globale i vari conflitti e contraddizioni devono essere banditi e in primis quella relativa a capitale e lavoro. I processi realizzativi e di gestione dell’evento nei suoi sei mesi devono essere laboratorio di sperimentazione legislativa e giuridica di forme di lavoro schiavizzanti. Con accordi padronali, istituzionali e sindacali si sancisce la volontà di rendere completamente asservita a

logiche di mercato – con i suoi tempi e spazi – la figura del singolo lavoratore. Lavoratore che non è più, nella sua forma contrattuale, anche soggetto collettivo ma bensì soggetto atomizzato, separato, in rapporto individuale asimmetrico con il proprio datore di lavoro, nella fattispecie, rappresentato da una agenzia di caporalato interinale incaricata di effettuare selezioni in cui, primo requisito richiesto è la propria capacità di resilienza ovvero l’adattamento alle mutevoli condizioni richieste. Il lavoro quindi non è più considerato nella sua dimensione di scambio di vendita di prestazione d’opera in cambio di

adeguato salario: con la scusa di opportunità formative attraverso collaborazioni volontarie, di stages, ecc. si torna a forme di schiavitù, il lavoro senza salario.Un esercito di forza lavoro gratuito quindi anche richiesto e ottenuto

dal mondo della formazione scolastica ed universitaria.

Questi, molto brevemente ed in sintesi, solo alcuni dei motivi per cui ribadiamo il nostro rifiuto e contrarietà allo svolgimento di Expo 2015. Un rifiuto e contrarietà che non si dovrà esaurire nel contrasto alle giornate inaugurali, ma che sia capace di disegnare un percorso altro rispetto ai diktat socio economici del sistema.

Partire da queste giornate di maggio con la propensione ad

interconnettere, a saldare tra loro, i vari scenari di conflitto

sociale: la lotta intransigente contro la devastazione ambientale con quella della salvaguardia del diritto ad un lavoro e ad un reddito degno. La volontà di anteporre una modalità di formazione dei saperi libera e critica a quella asservita alla logica d’impresa così come oggi si delinea nel mondo della scuola e dell’università, con la volontà di

ridisegnare modelli di relazione sociale alternativi a quelli imposti da culture religiose, patriarcali, gerarchiche e autoritarie.

Le anarchiche e gli anarchici della FAI invitano pertanto le realtà federate a dare la massima diffusione alle iniziative di opposizione all’Expo 2015, sia nelle e iniziative locali del Primo Maggio che in occasione dei vari appuntamenti previsti a Milano: corteo studentesco nazionale del 30 aprile; giornata di lotta internazionalista del 1 maggio con un corteo pomeridiano comunicativo in centro, attraverso i simboli esemplificativi della natura predatrice e sfruttatrice di Expo;

nei due giorni successivi azioni dirette di blocco e contrasto

all’apertura ufficiale della kermesse; proposte di mobilitazione nei mesi successivi decise in modo assembleare.

Il convegno nazionale della Federazione Anarchica Italiana – Milano 22 marzo 2015

A Livorno puoi acquistare il settimanale anarchico Umanità Nova presso le edicole di:

  1. Via Garibaldi 7,

  2. Piazza Damiano Chiesa

  3. Piazza Grande (angolo Bar Sole),

  4. l’edicola Dharma Viale di Antignano

  5. la Libreria Belforte in Via Roma 69,

  6. il bar Dolcenera all’angolo tra Via della Madonna e Viale degli Avvalorati

  7. la sede della Federazione Anarchica Livornese in Via degli Asili 33 (apertura ogni giovedì dalle 18 alle 20)

Opuscolo a cura del Collettivo Anarchico Libertario e della Federazione Anarchica Livornese – Aprile 2015

f.i.p. Via degli Asili 33 Livorno

Posted in Anarchismo, Generale, Iniziative, Lavoro, Nocività-Salute.

Tagged with , , , , , , , , , , , , , , , .


Strage del Moby Prince. Un appello per il 24° anniversario

da senzasoste.it

Strage del Moby Prince. Un appello per il 24° anniversario

10 aprile 1991 – 10 aprile 2015
Il 10 Aprile del 1991 la nave traghetto Moby Prince dell’armatore Onorato, partita dal porto di Livorno e diretta ad Olbia in Sardegna, entra in collisione a pochi minuti dalla partenza con la petroliera AGIP Abruzzo e viene avvolta dalle fiamme.
140 persone tra equipaggio e passeggeri persero la vita sul Moby Prince. 140 persone che furono vittime di una strage.
Non fu una fatalità. La nave traghetto Moby Prince non era in condizioni di sicurezza, infatti viaggiava con l’impianto antincendio splinter spento, con un solo radar funzionante dei tre presenti a bordo e con un’apparecchiatura radio che presentava continui cali di frequenza, problema che rese impossibile comunicare una chiara richiesta di soccorso dopo la collisione.
I soccorsi
La ricerca di verità e giustizia da parte dei familiari non ha finora trovato alcuna risposta nelle aule di tribunale. Le autorità giudiziarie decisero di procedere nei confronti di persone che avevano avuto solo un ruolo marginale nella vicenda, per reati prescrivibili, senza mai prendere seriamente in considerazione il reato di strage e senza mai andare a scavare dove stavano le responsabilità, ossia verso l’armatore e la Capitaneria.
Depistaggi, insabbiamenti, minacce, ricatti, manomissione delle prove, menzogne. In questi 24 anni chi voleva che non si facesse luce sulla strage del Moby Prince ha provato in ogni modo ad ostacolare chi ancora oggi continua a portare avanti la battaglia per la verità e la giustizia. Sono metodi ben noti, gli stessi usati per coprire le responsabilità delle stragi di stato e delle bombe fasciste. Sono gli stessi metodi usati per coprire le responsabilità di industriali, speculatori e politici che per fare affari avvelenano i cittadini e uccidono i lavoratori, una strage quotidiana causata dall’imposizione di sempre peggiori condizioni di vita e di lavoro alla maggioranza della popolazione per il profitto di pochi.
A distanza di 24 anni vicende simili continuano ad accadere: La strage di Viareggio del 2009, quando l’esplosione del gas fuoriuscito da un vagone cisterna di un convoglio ferroviario uccise 33 persone, è stata causata dalla mancanza di sicurezza sulla linea, una situazione che gli stessi lavoratori delle ferrovie avevano già segnalato; La strage del traghetto Norman Atlantic, di proprietà dell’armatore Visentini, in cui lo scorso 28 dicembre sono morte 11 persone mentre altre 19 sono risultate disperse, è stata causata dalla mancanza di sicurezza sulla nave. Il traghetto necessitava di essere riparato e viaggiava sovraccarico.
Il 10 Aprile a Livorno, come ogni anno nell’anniversario della strage del Moby Prince, nel quadro delle commemorazioni ufficiali, si terrà il corteo dal Municipio in Piazza Civica fino alla lapide dedicata alle vittime all’Andana degli Anelli.
È importante essere presenti anche quest’anno alla commemorazione in Comune e in piazza, al fianco dei familiari delle vittime.
Perché la verità e la giustizia non arrivano dalle aule di tribunale o dai vertici della politica, ma dalle lotte dei cittadini per la salute, dalle lotte dei lavoratori per la sicurezza sui posti di lavoro, dalla lotta di tutte e tutti perché fatti simili non si ripetano più.
Livorno vuole verità e giustizia
6 aprile 2015

il-relitto-della-moby-prince

Posted in Generale, Lavoro.

Tagged with , , , , , , , .


GRANDI OPERE, GRANDI TRUFFE: da Livorno all’EXPO

GRANDI OPERE E RICATTO OCCUPAZIONALE

La disoccupazione a Livorno e nella sua provincia è quasi il doppio della media toscana e molto superiore alla media nazionale. La disoccupazione giovanile è a livelli altissimi. La cassa integrazione è aumentata vertiginosamente: poiché la CIG è l’anticamera del licenziamento è probabile che nei prossimi anni la situazione della disoccupazione peggiorerà ancora.

“Si perde il lavoro e si perde anche la casa” non è uno slogan ma una amara realtà come dimostrano gli sfratti in continuo aumento, specie per morosità.

La popolazione diventa sempre più anziana, quindi non autosufficiente ma nell’area livornese i servizi sono minori che nel resto della Toscana e perfino che nel resto del territorio servito dall’ASL6. In una situazione talmente degradata il Comune di Livorno spende per servizi e interventi socio-sanitari meno di quanto non facciano, in media, gli altri comuni dell’ASL6 e della Toscana. Il risultato è che tanti livornesi fuggono all’estero: Livorno sta diventando terra di emigranti!

Al disastro sociale le risposte dei governi locali sono sempre le stesse. Cambiano le amministrazioni ma le ricette rimangono le solite: si sostengono le “grandi opere”, promettendo occupazione, mentre in realtà si porta avanti la politica del degrado ambientale, del saccheggio dei territori, della speculazione edilizia e finanziaria, della estorsione di risorse e reddito ai danni dei lavoratori

Dopo il fallimento del rigassificatore, costato 1 miliardo e mai messo in funzione, cercano di imporci un nuovo ospedale con meno posti letto, meno servizi e meno posti di lavoro e una Darsena Europa, progetto faraonico e inutile, dietro al quale si nascondono speculazioni immobiliari sulle aree portuali.

A Livorno, come in Val Susa per la TAV, come a Milano per l’Expo speculatori e saccheggiatori protetti dalle autorità politiche, portano avanti a tutti i costi i loro traffici per assicurarsi profitti a discapito dei lavoratori e delle popolazioni; ma ovunque si costruiscono anche forme di opposizione, mobilitazione e resistenza a queste politiche, come dimostrano le continue lotte in Val Susa e le contestazioni all’Expo, che avranno una scadenza importante il prossimo 1° maggio.

Anche a Livorno, come i comitati dimostrano, la mobilitazione contro la politica delle speculazioni sul territorio può essere portata avanti solo dal basso,

Gli anarchici sostengono che ieri come oggi, i lavoratori non hanno nulla da sperare dalle grandi opere, possono contare solo sulle loro forze, sulla lotta costante e tenace contro lo straordinario, per la riduzione dell’orario di lavoro, sulla loro organizzazione in comitati di lotta e soprattutto in sindacati combattivi autogestiti, non sottomessi ai gruppi di potere che si contendono la maggioranza nelle strutture rappresentative.

PER DISCUTERE DI QUESTO:

SABATO 11 APRILE presso Federazione Anarchica Livornese -via degli Asili 33

ore 17

presentazione opuscolo “Grandi Opere – Grandi Truffe”

interverranno F. Ponticelli e P. Masala della Federazione Anarchica Milanese sulla lotta contro EXPO 2015

a seguire dibattito

ore 20 apericena

Federazione Anarchica Livornese – Collettivo Anarchico Libertario

vol 110415

Posted in Anarchismo, Casa, Generale, Iniziative, Lavoro, Nocività-Salute.


Dichiarazione comune dell’Incontro Anarchico Mediterraneo

Dichiarazione comune dell’Incontro Anarchico Mediterraneo

Noi, anarchici, libertari e anti-autoritari, riuniti per l’Incontro Anarchico Mediterraneo (RAM), a Tunisi, il 27-28-29 marzo 2015, condanniamo gli attentati del museo del Bardo come pure la violenza delle religioni, degli Stati e della polizia.

Resteremo vigili affinché non avvenga una strumentalizzazione politica di questi avvenimenti tragici a danno delle libertà e delle popolazioni.

Noi ci opporremo all’adozione di nuove leggi liberticide che servano a giustificare la criminalizzazione dei movimenti sociali e sindacali.

Allo stesso modo, lotteremo contro ogni tentativo di servirsi di questi avvenimenti per giustificare le guerre in nome dell’«antiterrorismo».

Noi non dobbiamo aspettarci niente dai governi per la difesa delle nostre libertà.

Noi resteremo uniti di fronte all’oppressione economica, politica e religiosa.

Costruiamo la solidarietà internazionalista nel Mediterraneo e ovunque nel mondo, per l’eguaglianza sociale ed il mutuo appoggio

Incontro Anarchico Mediterraneo, Tunisi, 29 marzo 2015

terroristi2

da sinistra: Presidente del Gabon Ali Bongo Ondimba , Ministro degli Esteri spagnolo Jose Manuel Garcia-Margallo, Presidente polacco Bronislaw Komorowski, Presidente francese Francois Hollande, Primo Ministro algerino Abdelmalek Sellal, and ex Primo Ministro Tunisino Mehdi Jomaa. Tunis, Sunday, March 29, 2015. 

Posted in Anarchismo, Antimilitarismo, Generale, Internazionale, Repressione.

Tagged with , , , , , , , , .


Tunisia: una rivoluzione ancora da fare

révolution-continue

La strage compiuta il 18 marzo scorso da un commando armato nel museo del Bardo di Tunisi e attribuita a gruppi islamisti è subito divenuta forte argomento di propaganda per i governi.
In Tunisia infatti buona parte della stampa ufficiale e la maggior parte dei partiti chiedono leggi sempre più severe per arginare il terrorismo e fanno appello all’unità nazionale, giustificando di fatto una possibile svolta autoritaria del governo. Domenica 29 marzo si è tenuta a Tunisi una “manifestazione internazionale contro il terrorismo” che dai media italiani è stata presentata come una riedizione della marcia contro il terrorismo dell’11 gennaio a Parigi, dopo i fatti di Charlie Hebdo. Hanno partecipato anche a Tunisi, come a Parigi, i terroristi di professione, capi di stato, governanti e ministri da vari paesi del mondo. Anche stavolta hanno marciato compatti per rilanciare la retorica della lotta al terrorismo, per giustificare la prossima guerra, magari in Libia.
Negli stessi giorni, il 28 ed il 29 marzo si è tenuto a Tunisi l’Incontro Libertario Mediterraneo, che ha visto la partecipazione di compagne e compagni anarchici da vari paesi del Mediterraneo e non solo. L’incontro, oltre a rafforzare i legami di solidarietà internazionale, ha riaffermato in questo contesto l’opposizione ad ogni forma di oppressione e violenza prodotta dalla religione, dallo stato e dal capitale, l’opposizione alla guerra e ad ogni intervento colonialista.
Sui prossimi numeri saranno pubblicate maggiori notizie riguardo all’Incontro Libertario Mediterraneo di Tunisi. Pubblichiamo di seguito un interessante articolo sulla situazione in Tunisia uscito proprio pochi giorni prima della strage del Bardo.

Articolo apparso su “le Monde Libertaire”, il settimanale della Federazione Anarchica francofona, sul numero 1769 del 12-18 marzo 2015.

Tunisia: una rivoluzione ancora da fare

L’eccezione tunisina: hanno votato, e dopo?
Nel momento in cui le solite forze progressiste – al di là di una ristretta cerchia di irriducibili – sono quasi arrivate a credere che la dittatura in Tunisia sia ineluttabile e irreversibile; mentre alcuni militanti si sono suicidati, altri sono spariti, altri si sono rassegnati o hanno cambiato casacca… Ecco che una notizia di cronaca ( il 17 dicembre 2010, venditore ambulante, Mohamed Bouazizi si è immolato dandosi fuoco) crea l’evento: il risveglio di un popolo, in apparenza acquiescente da decenni alle rispettive dittature di Bourghiba e di Ben Ali, che si solleva come un uomo solo, animato da una sola parola divenuta magica: dégage! (traducibile in “vattene”, principale slogan dell’insurrezione tunisina che il 14 gennaio 2011 ha costretto alla fuga Ben Ali, allora Presidente della Repubblica di Tunisia)
Dopo si è fatto scorrere molto inchiostro: si è parlato della “rivoluzione dei gelsomini”, di “Primavera araba” e di “eccezione tunisina”, di un caso che per contaminazione successiva si pretende aver toccato l’intero bacino del Mediterraneo, ed essersi addirittura diffuso più in là. Per molti le elezioni legislative e presidenziali di ottobre e di dicembre 2014 hanno rappresentato il coronamento di questa “eccezione tunisina”. Qual è la realtà? Dopo il rovesciamento del dittatore Ben Ali il 14 gennaio 2011, la Tunisia costituisce, in effetti, un laboratorio che resta unico nel suo genere, paradossalmente sia per le potenze mondiali e per le forze dominanti localmente, sia per il popolo che aspira al benessere sociale e alla libertà. Per i primi, la situazione costituisce terreno fertile per una nuova ripartizione del Potere (le carogne politiche locali di sinistra e soprattutto di destra – che sono numerose e diverse – si slanciano dopo la sollevazione del 2011 in una guerra fratricida per la spartizione della torta, ipocritamente pacificate in uno slogan patriottico: si è tutti Tunisia (Koulouna Tounis) – che ha preceduto un non meno demagogico: si è tutti Charlie).

Giochi e sfide di potere
In effetti le potenze mondiali che hanno sempre tenuto sotto i loro stivali l’economia tunisina operano attivamente dopo l’incertezza creata dalla caduta dei loro alleati dittatori nel 2010, per assicurarsi il mantenimento di questo paese nella barbarie del neoliberalismo del FMI, della Banca europea e della Banca mondiale, associate agli interessi dei petrodollari del Qatar e dell’Arabia Saudita.
La nuova strategia ispirata dall’ideologia americana del Grande Medio Oriente consiste, questa volta, non nel sostegno alle dittature dei paesi in via di sviluppo – come si è stati finora abituati – ma nel prendere la via democratica delle urne.
Infatti, ciò che getta un dubbio sulla credibilità delle due elezioni del 2011 e del 2014 che hanno seguito l’Insurrezione, è che gli americani e gli europei hanno incontrato a più riprese, rispettivamente e molto ufficialmente – considerando che non erano ancora al potere – sia Rached al-Ganouchi, leader del movimento islamista di Ennahda che ha vinto le elezioni della costituente del 2011, sia Beji Caïd el-Sebsi, l’attuale presidente della repubblica e leader del movimento Nidaa Tounis che ha vinto le elezioni legislative del 2014. D’altra parte i due leader, nonostante si presentino come degli avversari storici, si sono incontrati a Parigi (vedi bene!) prima di queste elezioni per negoziare amabilmente la spartizione del Potere. Non desta stupore che essi governino attualmente insieme nel sesto governo di Habib Essid (un vecchio uomo di Ben Ali), con la benedizione delle potenze occidentali che si felicitano con loro affossando il paese nei debiti. Allo stesso tempo, i beni acquisiti impropriamente dal dittatore Ben Ali e dalla sua famiglia e i suoi conti bancari continuano a fruttare in Occidente e nei paesi del Golfo in totale impunità dopo quattro anni, sotto gli occhi di tutti, compresi quelli del governo provvisorio in carica dal 2011 al 2014 ed a maggior ragione di quelli di Nidaa Tounis al comando, del quale alcuni leaders hanno servito Ben Ali sino alla sua destituzione… Allo stesso modo la Troika (nome non ufficiale della coalizione tripartitica che ha guidato la Tunisia dopo le elezioni per l’Assemblea Costituente nel 2011, composta da Ennahda, Ettakatol e Congresso per la Repubblica), il presidente Moncef Marzouki e gli attuali presidente e governo non hanno cessato di vantare i meriti degli Emiri del Qatar (che stipendiavano Marzouki) come quelli dell’Arabia saudita che protegge e ospita il dittatore Ben Ali. Un imbroglio: quelli che sono al potere dal 2011, vendono ai tunisini una fraseologia di manipolazione che nasconde i loro accordi strategici con la vecchia dittatura nel quadro dell’alternanza del potere. Già questi fatti svelano che queste elezioni costituiscono una messinscena per la divisione del potere, finalizzata a far tacere il movimento popolare, la libertà d’espressione e i molteplici movimenti sociali che non si sono arrestati dopo l’Insurrezione.

Uno Stato di polizia in convalescenza!
Pur felicitandosi che l’Insurrezione non abbia lasciato il posto ad un precipitoso ritorno delle dittature come nel caso della Libia, dell’Egitto o dello Yemen, bisogna relativizzare il successo di questa “eccezione tunisina”, tanto più che coloro che detengono il potere effettivo sia nella versione islamista (Ennahda) sia liberale (Nidaa Tounis) hanno grandi aspettative dalla legalità del processo elettorale, utile per legittimare il ritorno di uno Stato di polizia dietro una maschera di vernice democratica e di Dawlet al Mouassasset (Stato di diritto e delle istituzioni), in un paese in cui l’esercito non può giocare facilmente il ruolo di ruota di scorta della dittatura civile.
Dopo quattro anni di tergiversazioni politiche, di maneggi e di inganni, di cinque governi provvisori successivi orchestrati tutti dal presidente provvisorio della Repubblica Moncef Marzouki e dagli islamisti alla testa della Troika (composta dal Congresso per la Repubblica, da Al-Takatoul e soprattutto da Ennhada) che attraverso la propria milizia, la Lega di protezione (leggi “tradimento”) della rivoluzione, ha creato un contesto di terrore e di violenza estranea alle abitudini tunisine del conflitto nel dialogo e del dialogo per regolare i conflitti.
In un momento in cui la polizia cosiddetta nazionale è destabilizzata e convalescente dopo la partenza del suo padrone e protettore (Ben Ali), le milizie di Ennahda hanno provato a sostituirle, tanto che si parla di una polizia parallela che avrebbe ordinato gli assassinii di due leader della sinistra tunisina.
Contrariamente all’Egitto e a tutto il Vicino Oriente, l’esercito tunisino, battezzato con il giusto titolo di “il muto”, è un esercito che recluta nelle classi popolari e contadine e che storicamente è messo a margine delle decisioni politiche. Secondo alcune testimonianze il colonnello Samir Tarhouni o, per altre, il generale Rachid Ammar, sotto Ben Ali rifiutò di sparare sulla folla degli insorti. Al contrario, la polizia ha giocato, dopo l’indipendenza nel 1956, il ruolo di cane da guardia dello Stato-partito al potere. Mal pagata, la polizia traeva le sue principali risorse dalla corruzione generalizzata che imperversava, agendo in modo arbitrario. Perciò i tentativi recenti di farne una “polizia repubblicana” hanno fallito. La polizia continua a far forza, con tutto il suo peso, per nascondere la verità sugli assassinii politici durante l’Insurrezione (300 martiri), oltre che sui militanti di sinistra Mohamed Brahmi e Chokri Belaïd nel 2013, e continua a sparare con o senza ordini su coloro che resistono. Gli spari con fucili a pallettoni (Al-Rach) nel 2013 a Siliana sotto il governo dell’islamista Ali Laraaeth su dei manifestanti pacifisti e gli ultimi avvenimenti dal 6 al 10 febbraio lungo alla frontiera tra Libia e Tunisia ed in particolare a Ben Guerdenne, dove c’è stato un morto e numerosi feriti, testimoniano le violenze che la polizia continua a commettere con l’attuale governo che si considera liberale. Malgrado le dichiarazioni di certi poliziotti, al momento rappresentati in molti sindacati, di “ essere un po’ più al servizio del popolo e un po’ meno al servizio dello Stato”, e di aver pagato, essi stessi, le spese della lotta contro il terrorismo salafita dei Difensori della Fede (di Ansar al-Sharia e del partito di Al-Tahrir legalizzati entrambi dagli islamisti cosiddetti moderati di Ennahda e dai suoi Sinistri degli Interni), il corpo di polizia è in cancrena. Resta infeudato e nostalgico dell’epoca repressiva di Bourghiba e di Ben Ali e si è messo al servizio degli islamisti al potere dal 2011 al 2014. Il suo attuale cavallo di battaglia è la promulgazione di una legge contro il terrorismo, legge che gli darebbe carta bianca per prendersi apertamente gioco dei diritti dell’uomo e torturare; fenomeno che non è mai cessato, secondo Radia Nasraoui, animatrice dell’Associazione tunisina contro la tortura e difensore dei diritti dell’uomo.

Un voto per tacere e rintanarsi
È in questo contesto che hanno avuto luogo le elezioni legislative del 26 ottobre 2014, per le quali si sono recati alle urne, secondo le cifre ufficiali, il 68% degli iscritti – iscrizione volontaria e non automatica.
Ma, contando il numero di votanti potenziali e non di iscritti volontari, in realtà solamente un terzo della popolazione che può votare si è recata alle urne.
Contrariamente al trionfalismo e all’impressione di successo storico di queste elezioni che si sono svolte sotto il cappello dell’ISIE – Instance Supérieure “Indipendante” (orchestrata dalla Troika e in cui gli osservatori indipendenti non sono i benvenuti) des Elections – e che hanno registrato numerose irregolarità soprattutto in Francia, bisognerebbe in primo luogo salutare la maturità degli astensionisti maggioritari, rappresentati soprattutto dai giovani, coscienti che è stata rubata loro la loro rivoluzione e che le carogne della politica provano a sotterrarla definitivamente.
I giovani e le classi diseredate hanno capito questa grande frode delle elezioni. Essi hanno rifiutato di parteciparvi nonostante i grandi mezzi messi in campo, le intimidazioni, il ricatto del terrorismo e la campagna d’intossicazione informativa alla quale hanno tutti partecipato, ivi compresi i ranghi dei militanti – tuttavia rispettati – dell’estrema sinistra e del Fronte popolare, che ha ottenuto 15 seggi nel 2014 al Parlamento “del popolo”. Senza gettarsi nella gerontofobia, segnaliamo semplicemente che coperti dalla sfida elettorale, dal gioco democratico e della valorizzazione dell’esperienza politica anteriore, i vecchi politici tornano a mettere le mani sul potere. È risibile vedere che la rivoluzione dei giovani ha partorito il più vecchio presidente della Repubblica, Beji Caïd el-Sebsi, che ha più di 88 anni e che era un sostenitore incondizionato del dittatore Bourghiba, suo ex ministro dell’Interno ed ex-presidente del Parlamento sotto Ben Ali.

E il popolo in tutto ciò?
Per una parte importante di tunisini che aspirano al pane, alla libertà e alla dignità – le tre parole d’ordine dell’insurrezione del 17 dicembre 2010 – questa “rivoluzione” aprirebbe la strada alla possibilità di trovare un lavoro che permetta di mangiare a sazietà, di migliorare le proprie condizioni di vita, di accedere alla libertà di espressione e di organizzazione, alla felicità, alla gioia di vivere, rompendo con una società di kobi (malinconia), sopraffatta dal “guigna” (il niente). Questa malinconia e questo vuoto spingono la maggior parte della popolazione alla droga, sia essa la droga vera e propria o la droga religiosa dei capi e venditori inturbantati e sempre più travestiti che vendono – per mezzo di una jihad suicida in un caso, o di una grande jihad di militanza nei partiti e associazioni di “beneficenza” in molti altri casi – un paradiso “chiavi in mano” con le sue vergini ed il suo vino (sì ma solo nell’aldilà!) che scorre a fiotti in ruscelli inesauribili.
Quello che è grave e desolante è che pure i partiti di sinistra laici – detti civici- per non far paura ai numerosi religiosi e per non cadere nella loro trappola – hanno abbandonato quel fronte della lotta ideologica che tende a separare la società civile dalla società religiosa. Essi hanno abbandonato la lotta contro l’oppio del popolo, soddisfatti di aver ottenuto delle concessioni dagli islamisti al momento della redazione dell’attuale Costituzione. Tale Costituzione definisce l’identità della Tunisia nel suo primo articolo per il suo carattere islamico e arabo. Nonostante il riconoscimento di alcune minoranze (ebrei in particolare dal momento che non ne restano che 2000), non è ammessa trattativa nei confronti di coloro che si richiamano alle radici berbere o all’ateismo. Così come è redatta nella Costituzione, la libertà di coscienza seppure menzionata non sembra comprendere queste ultime situazioni e coloro che fanno richiamo ad esse rischiano la vita, minacciati dai boia dello Stato e dagli islamisti.

Aspettando Godot
Questo soggetto, seppur essenziale nel progetto di società che si vuole costruire, non riguarda in realtà che una minoranza di difensori dei diritti dell’uomo. La maggior parte dei tunisini sono ottenebrati, a ragione, dal potere d’acquisto in discesa, dai beni di prima necessità in rialzo, dalle cure che non possono più pretendere, dalle abitazioni che mancano, dalle scuole insalubri in cui mancano insegnanti e mezzi per farle funzionare, dall’analfabetismo di ritorno allarmante, dai record dei tassi di disoccupazione soprattutto tra i diplomati, dal terrorismo in piena effervescenza sulla montagna di Chaambi e altrove, da un paese divenuto un vero immondezzaio a causa della crisi dell’incenerimento dei rifiuti e l’assenza di una politica comunale (le elezioni municipali sono rinviate alle calende greche), dal veleno dei prestiti condizionati dall’applicazione delle riforme strutturali del FMI e che sta conducendo il paese sulle orme della Grecia.
Questo forte peggioramento delle condizioni di vita ricorda ai tunisini che non sono mai caduti così in basso, pure sotto la dittatura. Ma chiama anche a risollevarsi per una nuova insurrezione che dovrà trasformarsi in rivoluzione per non ripetere una storia sfortunata. La libertà di espressione – unica palpabile conquista dell’Insurrezione – e la liberazione dei tunisini dalla paura dei tiranni e delle classi dominanti, associata alle condizioni sopracitate, favoriscono la radicalizzazione del movimento sociale e la trasformazione del tentativo in successo. La radicalizzazione significa l’adozione di una politica realista, non quella del Fronte popolare che predica un capitalismo di Stato nazionale ma quella che domanda l’impossibile: l’autogestione dell’economia e l’autorganizzazione del popolo come nella Comune di Parigi, permettendo a ciascuno di essere responsabile di se stesso secondo i principi del mutuo appoggio kropotkiniano e del mutualismo e del federalismo proudhoniani.
Per questo, mi sembra importante uscire dal quadro statale delle lotte e di porre l’immaginazione al potere, al cuore di un sistema per una educazione libertaria che venga messa in atto dalle forze progressiste del paese, rispettando le loro differenze. Gli autori di queste prospettive sono principalmente i disoccupati, i giovani e i pezzenti delle contrade dimenticate dell’interno e delle città povere, associati alle correnti radicali del sindacalismo operaio (UGTT) e studentesco (UGET), ai movimenti di difesa dei diritti dell’uomo (LTDH), alle associazioni degli avvocati, alle associazioni della società civile, ai giornalisti indipendenti e agli intellettuali funzionali. Sembra che in Tunisia si siano raggiunte condizioni che rendono urgente un coordinamento libertario e pacifista che accompagni e aiuti queste forze a impegnarsi per una trasformazione reale della vita.

WAHED

 

Articolo pubblicato su Umanità Nova

A Livorno puoi acquistare il settimanale anarchico Umanità Nova presso le edicole di Via Garibaldi 7, Piazza Damiano Chiesa e di Piazza Grande (angolo Bar Sole), presso l’edicola Dharma Viale di Antignano 110, la Libreria Belforte in Via Roma 69, il bar Dolcenera all’angolo tra Via della Madonna e Viale degli Avvalorati e presso la sede della Federazione Anarchica Livornese in Via degli Asili 33 (apertura ogni giovedì dalle 18 alle 20)

Posted in Anarchismo, Generale, Internazionale.

Tagged with , , , , , , , .


“LIBERE, FIERE, RIBELLI!” contro i ruoli imposti, per l’autodeterminazione – Iniziativa del Collettivo MIO IL CORPO, MIA LA SCELTA

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Sabato 14 marzo, al Refugio. (Scali del Refugio 8, Livorno)

Iniziativa del Collettivo MIO IL CORPO, MIA LA SCELTA.
“LIBERE, FIERE, RIBELLI!”
contro i ruoli imposti, per l’autodeterminazione
ore 18 – dibattito “Riaffermare l’autodeterminazione delle scelte sessuali, economiche e di vita”
ore 19 – contributo di Giacomo Sini, di ritorno dal Kurdistan, sulla lotta delle donne curde
ore 20 – apericena
ore 2130 – spettacolo teatrale “La gabbia di carne”, con Valentina Ghetti
Sketch54184944-2

Posted in Antisessismo, Femminismo e Genere, Generale, Iniziative, Internazionale.

Tagged with , , , , , , , .


ASSEMBLEA – DISOCCUPAZIONE: LA SOLUZIONE È NELLE NOSTRE MANI!

1474614_10201018445600189_1504042706_n

 

DISOCCUPAZIONE: LA SOLUZIONE È NELLE NOSTRE MANI!

Licenziamenti collettivi aumentati del 37,9 per cento nel 2014.

Sempre più livornesi emigrano per trovare un lavoro.

Lavoratori ingannati, dalle truffe di imprenditori, politici e sindacalisti.

E’ un disastro sociale, che si aggiunge al disastro ambientale; è un disastro che coinvolge i lavoratori, i disoccupati, tutti i cittadini.

Il cambio di amministrazione non ha cambiato la condizione dei ceti popolari.

I veri responsabili di questo disastro non hanno pagato niente: politici, amministratori, capitalisti, che si sono spartiti i finanziamenti pubblici e i guadagni delle speculazioni, lasciando miseria e inquinamento.

Oggi politici e speculatori si fanno avanti con le loro promesse, cercano di convincere lavoratori e disoccupati a sostenere i loro affari. Si parla di grandi opere alla livornese, che dovrebbero risolvere il dramma della disoccupazione. Si parla di aree industriali oltre la Variante Aurelia, del nuovo ospedale, della Darsena Europa.

Sono la replica di quelle grandi opere, dalla TAV, al MOSE di Venezia, all’Expo di Milano, che hanno devastato il territorio, dilapidato miliardi di denaro pubblico a vantaggio delle consorterie tra politici e speculatori, e non hanno creato nessun posto di lavoro.

Quale occupazione può dare a Livorno questa politica lo dimostra il rigassificatore: dopo tante chiacchiere, questa opera inutile, dannosa e pericolosa che è già costata tanti soldi alla collettività, continua a pesare attraverso le bollette sulle nostre tasche, mentre non ha inciso sulla disoccupazione.

Gli sfruttati possono combattere la disoccupazione non legandosi a questa o a quella clientela, a questo o quel gruppo affaristico e politico, ma organizzandosi per migliorare le proprie condizioni di vita.

Precari, sottoccupati, disoccupati uniti contro lo sfruttamento, per mezzo dell’autorganizzazione e l’azione diretta.

Sabato 28 febbraio, alle ore 17,00

Assemblea cittadina

presso la Federazione Anarchica Livornese

Via degli Asili 33

 

Collettivo Anarchico Libertario

Federazione Anarchica Livornese

Posted in Anarchismo, Generale, Iniziative, Lavoro.

Tagged with , , , , , , , , , , .


CENA + CONCERTO “…Ricordi sbocciavan le viole…”

sbocciavan le viole

 

…Ricordi sbocciavan le viole…


Ricordando Faber

Canzoni di Fabrizio De Andrè

Cantanti
Maria Torrigiani, Stefano Ilari, Annamaria Contesini Marco Pellizzon, David Mancini Mancio, Iris Paoletti

Musicisti
Andrea Cattani (viola), Marco Del Giudice (chitarre)
Davide “Dado” Loi (chitarre), Andrea Pellegrini (pianoforte), Massimo Orofino (basso elettrico), Dario Del Giudice (batteria)

SABATO 14 FEBBRAIO

presso la FEDERAZIONE ANARCHICA LIVORNESE – Via degli Asili 33

ORE 20 Cena sociale prenotare 3339861219 / 3395041220

ORE 22 Concerto

FEDERAZIONE ANARCHICA LIVORNESE
cdcfedanarchicalivornese@virgilio.it

COLLETTIVO ANARCHICO LIBERTARIO
collettivoanarchico@hotmail.it – http://collettivoanarchico.noblogs.org/

Posted in Anarchismo, Generale, Iniziative, Repressione.

Tagged with , , , , , , , , .